Non vi sarebbe
produzione umana, dal bottone al missile, se prima non sorgesse come pensiero.
Né si può porre relazione tra cosa e cosa, che non sia in
verità relazione tra concetto e concetto. Essendo venuta meno questa
essenziale coscienza del pensare, è venuta meno altresí la
possibilità di ritrovare il punto da cui il pensare scaturisce come
puro essere, ossia come un sovrasensibile sperimentabile.
Le ragioni della
moderna “caduta” dell’intelletto sono ben piú semplici di quelle
identificate da critici della civiltà come Jünger, o Adorno,
o Evola, o Marcuse, i quali rimandano a cause esteriori all’uomo, piuttosto
che a processi della coscienza, che esigerebbero venir identificati mediante
esperienza delle forze della coscienza.
Il còmpito
cui è mancato il pensatore di questo tempo, in realtà, è
la coscienza del potere di correlazione, o della universalità, del
concetto: che egli usa senza conoscere. Còmpito logico per lui sarebbe
stato sperimentare la coincidenza del pensiero con se medesimo: operazione
che avrebbe richiesto una specifica ascesi del pensiero. La coincidenza
infatti si verifica ogni volta come fatto extracosciente, allorché
un’intuizione risponde a realtà.
L’intuizione
del reale non dipende dal semplice darsi della realtà, ma dal soggetto
conoscente che la realizza in quanto attua nell’intuire una identità
che sfugge alla coscienza ordinaria: onde Hegel, che ebbe consapevolezza
di tale processo, giustamente chiamò alienazione il momento del
pensiero in cui l’oggettività provvisoriamente appare essente da
sé o su sé fondata: mentre ingenua fu la critica di Marx
che credette mistico e ingenuo Hegel per il fatto che vedesse «l’oggettività
come alienazione della autocoscienza». …
Si può
definire antiscientifico sino alla superstizione il fatto che lo scienziato
non riesce a prendere atto dell’attività intuitiva da lui messa
in moto nella sua indagine, né a riconoscere in essa l’inizio reale
della conoscenza. Tale animadversio sarebbe decisiva per il senso
umano della scienza e del suo ulteriore cammino. Lo scienziato dovrebbe
rivolgere la sua consapevolezza all’attività cui attinge in sé
per sentire incontrovertibile il fatto, o il fenomeno. Privo di tale consapevolezza,
egli è destinato a ignorare il fondamento su cui edifica il sapere:
procede secondo una sorta di idolatria del fatto, ignorando il proprio
atto: esclude se stesso, ossia l’uomo, dal cosmo tecnologico, nel quale
si situa come cosa, o automa.
La precisione
formale alla quale si educa mediante la ricerca scientifica, egli dovrebbe
usarla riguardo al procedimento del pensiero che gli consente la ricerca:
non al procedimento dialettico, ma al suo puro movimento. Da una percezione
consapevole del pensiero dipende il cammino ulteriore della civiltà:
la possibilità di una via d’uscita dal problematicismo dialettico
indefinitamente trasmutante e in sé identico.
Lo scienziato
moderno in realtà non possiede il grado di coscienza che gli consente
l’esperienza fisica e l’elaborazione delle discipline. Il pensiero teoretico
contemporaneo, e in particolare la logica formale e la filosofia della
scienza, hanno provveduto a eliminare la possibilità di possederlo,
col farsi codificatrici del prodotto del pensiero, privo del proprio momento
produttivo o intuitivo. Non si tratta delle intuizioni che via via lo scienziato
può avere in relazione a determinati oggetti, ma del potere insito
nelle intuizioni: che egli pertanto non sperimenta come tali, bensí
nel loro divenire determinazioni discorsive, idealmente esaurite.
M. Scaligero,
RIVOLUZIONE discorso ai giovani, Roma, Perseo, 1969, pagg.26-28
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