«Oirot»
Il cavaliere e
il plenilunio

di Nicholas Roerich

Gentile Amico,
lei dice che i fatti hanno smentito la mia idea circa l’impossibilità dell’uomo di accedere alla Luna. In verità non sono i fatti che possono smentire un’idea, bensí idee di piú elevato rango. La mia idea circa l’impossibilità dell’uomo corporeo-razionale di accedere alla Luna, permane intatta.
L’uomo-macchina non può accedere alla Luna, ma solo a quello che il suo occhio riesce a vedere della Luna. L’occhio terrestre dell’uomo non sa scorgere sulla Terra quella forza vitale della pianta, che la sua mente invece pensa come esistente. Questa impossibilità del moderno scienziato dinanzi a una forza che concepisce, ma non sa che sia né d’onde venga, è il limite presente oggi in tutta la sua indagine: limite del mondo inorganico, alla cui pesabilità e misurabilità lo scienziato commette l’errore di ridurre tutto, anche il non misurabile: errore che ogni giorno in ogni campo si sta scontando. È il limite che andrebbe superato per il fatto che venga esteso al mondo extraterrestre.
Dal terrestre l’uomo non può uscire, se non esce da ciò che lo vincola alla Terra meramente misurabile, a lui sconosciuta come ente permeato di vita. Fuori dal terrestre, l’uomo vede ciò che gli è consentito da un limite, che per il sano pensiero, ossia per il reale pensiero scientifico, è assurdo: il limite dell’apparire minerale di ogni ente, di cui rimane impercepibile la vita. È invero assurdo che l’uomo, pur avendo l’extraterrestre dinanzi a sé, qui sulla Terra, nel vivente della natura, dell’animale, di se medesimo, eviti di conoscerlo e codifichi tale non conoscenza, sino a fingere mediante essa un superamento “spaziale” del limite. Tale farsa lo scienziato comincia col recitare nei suoi rapporti con il vivente: da anni specialisti russi e americani compiono il tentativo, ogni volta fallito, di riprodurre per via chimica il vivente, ossia qualcosa che esiste, ma che essi possono assumere unicamente come idea, dato che non dispongono di mezzi interiori per percepirlo. Nessuno di essi infatti vede il vivente: tuttavia trattano tale forza come se la vedessero e potessero muoverla, confondendo le manifestazioni sensibili della forza con la forza medesima, che essi hanno semplicemente come concetto, senza avvertirlo. Riguardo a un corpo celeste come la Luna, l’ottusità che conduce al tentativo di operare chimicamente su un concetto, è aggravata dal fatto che riguardo alla percezione sensoria del corpo lunare non si ha nemmeno il contenuto concettuale che invece si è capaci di avere riguardo alla cellula vivente.
Non è facile peraltro comprendere la provvisorietà del limite alla percezione del vivente, ossia comprendere che tale limite è superabile mediante un atto metadialettico della coscienza, dinanzi a cui il moderno indagatore si arresta pavido, non ammettendo che possa esistere una scienza del sovrasensibile a ugual titolo che una scienza sensibile, preferendo consacrare come assoluto ciò che è concluso ed esanime entro il limite, e perciò estrinsecandosi nel meccanicismo assoluto, nella tecnologia integrale.
L’impresa lunare, di cui si deve riconoscere l’eccezionale valore sportivo, è in sostanza un’impresa tecnologica: non è un’impresa della scienza, se si tiene a mantenere a questa l’antico rango noetico, ma finisce col diventare antiscientifica allorché presume inglobare l’extraterrestre in quella desolata visione del pesabile e del misurabile, che riguarda unicamente l’insufficienza mentale dell’uomo rispetto al proprio percepire sensorio, sulla Terra. Se esistessero esseri non terrestri capaci di percepire del mondo terrestre soltanto il cuoio e ad un certo momento ad essi fosse dato avere di fronte un uomo, essi non vedrebbero di lui che le scarpe e sarebbero autorizzati a dire: l’uomo è un paio di oggetti di cuoio, un paio di scarpe. Potrebbero cosí esultare di aver infine incontrato l’uomo, allo stesso modo che si esulta sulla Terra nel credere di aver infine incontrato la Luna.
Lei dice che io sono stato smentito dai fatti. La cosa mi preoccupa, perché di solito il fallimento di un’impresa errata è un aiuto del “destino”, che mediante l’insuccesso dà modo all’uomo di rivedere le proprie posizioni. Quando la possessione del mentale da parte dell’errore è tale che l’uomo lo scambia per conquista della verità e lo eleva a mito, allora egli non è piú in condizione di ricevere aiuto: la tecnica del sopramondo in tal caso è lasciar realizzare in pieno l’errore, cosí che solo le conseguenze obiettive di questo possono correggere l’uomo. In effetto è piú temibile la riuscita dell’impresa che non il suo fallimento.
L’uomo non ha meritato che l’impresa non riuscisse. Occorre però dire che se i qualificati alla conoscenza del sovrasensibile, che è il vero extraterrestre, avessero mantenuto fede al loro impegno di dedizione al compito cui erano chiamati, l’uomo avrebbe meritato l’ammonimento della erroneità dell’impresa. La Luna e ogni altro corpo celeste, non sono che supporti-simbolo di forme di vita extrasensibile, a cui l’uomo può accedere superando il limite sensibile là dove se lo trova di fronte sulla Terra. Finché non supera un tale limite, l’uomo non esce dalla Terra, non può penetrare in altri mondi.
Questo discorso non viene da uno spirito di rinuncia all’impresa extraterrestre, ma da una vocazione all’extraterrestre, che esige l’ardimento reale, l’ardimento della coscienza: non scaturisce dalla concezione di una impossibilità, al contrario, dalla persuasione della necessità della esplorazione di altri mondi e perciò del cosmo. Ma una simile esplorazione non può non avere inizio come atto della coscienza, col superamento del limite terrestre là dove impedisce la percezione del vivente nella natura, nella storia, nella struttura dell’uomo, nella sua attività pensante: l’assenza di questo vivente, oggi, falsa ogni disciplina e degrada al livello materialistico tutta la cultura umana.
È il discorso che sarebbe dovuto venire dalla religione o dalla filosofia, se nei tempi moderni esse avessero mantenuto la loro missione al livello di interiore dignità richiesto dalla fedeltà alla realtà dello spirito.

    Cordialmente suo

Massimo Scaligero

da una lettera inviata a persona di Trieste il 24 luglio 1969

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