La scoperta delle Canarie, che doveva concludere una delle fasi piú significative del grande ciclo di esplorazioni con cui l’Italia dava ancora una volta segno palese di uno spirito di civilizzazione e di un universalismo geografico-marittimo manifestantesi attraverso l’azione conquistatrice delle Repubbliche Marinare, si poté dire nel 1341 un fatto compiuto, grazie alla valentia di un uomo di mare, organizzatore di ardite spedizioni ed esploratore, tipicamente italiano: Niccoloso da Recco.
Il comando generale della spedizione venne infatti affidato a lui dal Re del Portogallo, come al piú esperto navigatore e soprattutto in omaggio al fatto che proprio il geniale Ligure l’aveva suggerita e tecnicamente preparata.
A quei tempi i navigatori italiani s’incontravano in tutti i maggiori porti del Mediterraneo, dove essi si recavano sia con incarichi avuti dai governi delle loro città sia per essersi posti al servizio di re o principi stranieri, i quali, ben conoscendo la perizia e l’ardimento marinareschi degli Italiani, ricorrevano ad essi ogni qualvolta avevano in mente di condurre a sicuro compimento imprese di carattere geografico-economico.
Non è da meravigliare dunque che proprio al ligure Niccoloso da Recco re Alfonso IV stabilisse di affidare il non facile compito di ritrovare le isole Canarie.
Durante tutto il Trecento, l’Oceano fu audacemente interrogato e percorso da navigatori italiani i quali andarono individuando, una dopo l’altra, quelle isole che poi dovevano essere occupate da altri paesi. Sembrò quasi che un’unica stirpe di navigatori, di esploratori, di colonizzatori, dietro un’unica ispirazione eroica, si fosse riconosciuta la missione di svelare il grande mistero dell’Oceano e di far conoscere all’umanità un nuovo mondo.
È proprio un’elevata esigenza dello spirito, da riconoscere dietro ciò che esternamente si manifesta come azione commerciale ed espansione mercantile: altrimenti non si spiegherebbe la vittoria dell’uomo sullo spazio e sulla natura, la conquista dell’Oceano compiuta con limitati mezzi e insufficienti strumenti di navigazione. Lo spirito d’avventura, l’amore per il rischio e per l’ignoto, il puro piacere del dominio e della vittoria sugli elementi, il desiderio delle grandi distanze agirono, meglio che qualsiasi altro incentivo razionale o utilitario, alle origini della espansione marinara dei popoli occidentali, legandovisi inscindibilmente a precise qualità interiori.
Di tali caratteri interiori occorre tener conto nell’esaminare le vicende dei navigatori di quell’epoca: caratteri spirituali, dunque, e non semplici fattori materiali. Lo stesso senso di superamento non derivò dalla forza esteriore delle armi o delle navi ben attrezzate, e nemmeno da princípi giuridici, ma piuttosto esso fece uso di tutto ciò con la naturalezza di chi impiega quanto risulta essenziale per il raggiungimento del proprio scopo.
Ma, di là dagli elementi materiali e di là dalle stesse caratteristiche morali, possiamo ritrovare un elemento ancora piú elevato, quasi trascendente, che da qualche storico moderno efficacemente viene chiamato “spirito dell’età oceanica”: si tratta di una sorta di spontanea volontà dell’infinito e dell’incondizionato, la quale, nella sua originaria istintività, sta nel piú intimo rapporto con la concezione del mondo dell’epoca che, come quella dei Vivaldi, di da Recco e di Cadamosto, precede la Rinascenza e si potenzia e si sviluppa proprio lungo le vie dell’esperienza oceanica e della nuova conquista dei mari che si realizzarono a quel tempo.
In virtú di tale èmpito, scevro di attenuazioni, senza indugi o compromessi, l’esperienza del mare diede luogo allo spirito di una nuova èra occidentale, alla forza irresistibile d’uno slancio pressoché cosmico, per la sua qualità universale, all’anima di un nuovo ciclo epico-geografico. L’antico principio “vivere non è necessario, è necessario navigare” acquistò allora tutta la pienezza attiva del suo significato.
In tale ciclo avventuroso, lo spirito iniziale che determinò ogni serie di azioni fu quello di coloro che per primi ebbero l’idea di spezzare la consuetudine, di rompere i limiti del finito e di portarsi al di là dagli orizzonti sconosciuti, e che tale idea poi portarono in fondo sino alla sua completa traduzione in realtà.
Tra questi, quale degno continuatore dell’impresa dei Vivaldi, è Niccoloso da Recco. Ma non soltanto alla effettiva scoperta delle Canarie è legato il nome di Niccoloso da Recco: tutto autorizza a concludere che, partendo con l’intento di giungere alle isole Fortunate, l’esploratore ligure sia andato di là dalla sua missione, scoprendo tutti e tre gli arcipelaghi occidentali che trovansi al cospetto dell’Atlantico e all’avanguardia del continente africano.
Soltanto a qualche superficiale potrebbe sfuggire che l’impresa stessa di da Recco, nella sua lata significazione storica, non può che essere il coronamento di una serie di tentativi, di indagini geografiche e di spedizioni non precisamente volte alla scoperta delle isole Canarie, ma che, nel loro ardimentoso portarsi di là dal mondo conosciuto, trovarono lungo la loro rotta questi meravigliosi arcipelaghi.
L’arcipelago delle Canarie presenta aspetti di notevole interesse di morfologia vulcanica: ad esempio, il barranco (solco vallivo) che si origina dalla “caldera” di Taburiente, il tavoliere vulcanico della valle del Tauro nell’isola di Teneriffa, le caratteristiche grotte di Lanzerota, e soprattutto la presenza di antichissimi stampi di terracotta nella Grande Canaria – che parimenti si ritrovano nelle caverne neolitiche della Liguria – costituiscono correlazioni che, mentre autorizzano a ripensare a contatti avuti con i misteriosi Atlantidi attraverso ardite navigazioni, cui fa cenno Platone nel Timeo e nel Crizia, suggeriscono una concezione unitaria del mito e delle sue rispondenze, in base alla quale l’arcipelago delle Canarie potrebbe essere considerato un avanzo della remota Atlantide: di essa infatti la tradizione ci riporta l’aspetto leggendario, adombrandolo di significati cosmico-simbolici, onde alla sua preistorica civiltà si ricollegherebbero altresí forme di cultura tramontate e involutesi sino a tornare a quello stato di primitività, quale viene ritrovata da Niccoloso da Recco nella prima visita alle isole Fortunate.
La stessa struttura geologica dell’arcipelago convalida quel che può essere la conclusione di una rispondenza tradizionale: infatti si tratta di gruppi separati dal continente, come anche Madera, Porto Santo e l’arcipelago del Capo Verde, da abissi di oltre mille metri di profondità: di origine vulcanica, essi sono in sostanza enormi ammassi di lave e ceneri erettisi al di sopra di crepacci profondi sul bordo dello zoccolo sommerso che porta tutto l’edificio continentale: ciò spiega anche perché, eccettuata la Grande Canaria che possiede una baia superba a La Luz, la maggioranza delle coste dell’arcipelago sono poco ospitaliere: il che in complesso induce a pensare a frammenti residui di un antico continente sommerso.
Ma a parte la sua parentela con l’Atlantide, il gruppo delle isole Fortunate fu noto all’antichità sotto un aspetto di contrada privilegiata dalla natura, onde spesso era oggetto di evocazione da parte di poeti: i vati greci vedevano in esse la sede estrema degli “eroi” e mentre navigatori fenici e cartaginesi avevano fatto scalo presso di esse, gli Arabi non ignoravano la loro esistenza e, come i Mediterranei le chiamavano isole Fortunate, cosí essi le chiamavano isole Felici. Infine lo stesso Plinio ce ne tramanda una esauriente descrizione.
Tuttavia, prima dell’impresa decisiva di Niccoloso da Recco, non si può precisare a chi si debba la prima visita degli uomini facenti parte del mondo civile alle isole Fortunate. Essi, infatti, dopo la scoperta forse compiuta dagli antichi navigatori Fenici, furono abbandonate, cosí che se ne smarrí ogni cognizione precisa, mentre nel Mediterraneo, sia attraverso la cultura in genere sia attraverso una certa conoscenza geografica tradizionale propria agli uomini di mare, si continuò per secoli a conservare un vago ricordo di questi arcipelaghi. Anche in epoche successive a quella classica, greco-romana, si ebbe una fioritura di leggende a loro riguardo, che sempre traevano spunto dagli antichi elementi mitici e folclorici tradizionali, al centro dei quali è dato ritrovare l’elemento “isola” inteso in senso simbolico, quale regione ultraterrena e come luogo di beatitudine da conquistare attraverso prove e lotte che in questo caso s’identificano con la navigazione e i suoi pericoli.
Tra gli altri miti, degno di menzione ci sembra, ai fini della comprensione di una figura di navigatore come quella di da Recco, il mito dell’Isola delle Sette Città: infatti non è soltanto un movente commerciale che attrae da Recco in quelle isole atlantiche, ma anche il desiderio di individuare queste contrade su cui la fantasia dei popoli per secoli ha costruito leggende e che perciò hanno assunto quasi un aspetto simbolico di regioni privilegiate, di luoghi di sosta di eroi e di semidei. Queste sette città sarebbero state fondate da altrettanti Vescovi visigoti fuggiti dalla Spagna con pochi fedeli, ai tempi dell’invasione della Mezzaluna: costoro avrebbero trovato rifugio nelle Canarie e quivi avrebbero fondato un nuovo piccolo regno, vivendo felici, col ritornare alla semplicità della vita vissuta in contatto immediato con la natura.
Altro mito riferentesi alle isole Canarie è di origine irlandese: San Brandano, abate di Clonfert al tempo della cristianizzazione dell’Irlanda, nel sesto secolo dell’èra volgare, avendo affrontato la navigazione atlantica con alcuni compagni, giungeva dopo molti giorni a un gruppo di isole che per la bellezza della natura, per il dolce clima e la fertilità del suolo egli chiamò Isole Fortunate.
Ma il valore di questa significazione leggendaria atta a lumeggiare le figure di quella schiera di eroi del mare consiste nella relazione dell’elemento “isola” con la navigazione pericolosa compiuta in condizioni che costituiscono una sfida al pericolo, sfida a tutto ciò che la natura presenta come misterioso e inviolabile, per cui l’arrivo alla meta si presenta come una sorta di finale trionfo che sulle acque mobili, scatenate, sommergenti, hanno riportato figure di uomini fortissimi: eroi, asceti, talassocrati.
Ciò è tanto piú comprensibile se si tien conto che l’anima antica dei popoli raffigurò nelle acque la vita inferiore del mondo dei sensi e delle passioni terrestri, tutto ciò che è vitalità selvaggia ed elementare, priva di un centro o di un limite interiore. Ma come la “marea delle passioni” che è ancora un’espressione del comune linguaggio, il “flusso del divenire”, la “corrente degli odi”, la “mobilità fluente delle forme”, sono locuzioni rispondenti ad antichi simboli della vita elementare accennata, cosí là dove il mare, le acque, l’oceano divengono simboli, è evidente che anche il navigare, l’affrontare intrepidamente il fluido elemento, le sue insidie, le sue tempeste, oltre che rappresentare un’azione reale, costituiscono espressioni di un’azione interiore, la quale può anche essere il riferimento spirituale di un’analoga impresa da compiere nella realtà. L’isola dunque, essendo la terra che emerge dalle acque, simboleggia la materia che si libera dalla passionalità incomposta e sovra essa domina, elevandosi verso il piano aereo-celeste: ecco perché i Greci, ritenendo Creta e Delo isole atte a rappresentare tal simbolo, in quella fanno nascere il sommo Giove, in questa Febo e Diana.
A un tale tema è connesso per analogia di significazioni quello della conquista dell’isola: nel piano simbolico essa per la sua nobiltà cosmico-trascendente, diviene la sede inaccessibile di un centro primordiale di dominatori del mondo, di re, di aristocrati. Il carattere di “isola polare” corrisponde poi a quello di centro del mondo che si ritrova in tutte le tradizioni e presenta un carattere extra-umano, quale quello che si è notato a proposito delle Isole Fortunate nell’antichità classica. Essa è altresí il regno di Graal; nel rappresentare un centro che, come è riferito nel mito medievale, è una “patria di re”, ed è la dimora nella quale convengono gli “eletti” di ogni paese, da cui partono uomini audaci per remote contrade, con missioni segrete, essa è da considerare la sede universale dell’Impero da cui vengono inviati i re nei diversi paesi: mai tuttavia il mondo saprà d’onde essi giungano, da quale razza discendano e quale sia il loro nome. L’isola è dunque confinata nel mistero.
L’azione, il navigare, il giungere all’isola, diviene cosí il mezzo di articolarsi di una spiritualità che in origine forse poteva manifestarsi in pura essenza di luce, raggiungendo un’intensità pari a quella di chi con uguale intento poi avrebbe condotto sino in fondo l’azione. L’atto si mutua dunque col simbolo, per i navigatori atlantici dell’Evo di Mezzo e l’isola diviene invero la meta di un ciclo eroico e la simbolica sede della vittoria dell’uomo.
Cosí teniamo per fermo che Niccoloso da Recco, oltre ad essere stato uno di quegli esploratori atlantici accesi dal sacro fuoco dello spirito che va di là da ogni limite, fu anche tra i pochi che conoscessero il mito dell’isola sperduta nell’Oceano, della contrada felice che attendeva il conquistatore: forse nel suo segreto animo egli intendeva giungere infine all’isola, là dove era possibile un nuovo destino e una totale liberazione dall’umana necessità, mentre realizzava da superbo navigatore l’esperienza spirituale di chi, in effetto, superando l’oceano delle forme, raggiunge l’isola della grande speranza e della giovinezza perenne.

Massimo Scaligero

Selezione da: M. Scaligero, Niccoloso da Recco, esploratore atlantico, Ed. Zucchi, Milano 1942

Immagine: Greggi al pascolo sulle alture di Lanzerota, patria dei fieri Guanci, primi abitatori delle isole Canarie. Sullo sfondo l’isola «Graciosa».

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