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Il ricercatore può ravvisare nella storia spirituale dell’Oriente, entro l’Era Cristiana, un senso univoco delle diverse correnti metafisiche e religiose: soprattutto nel Buddhismo, da quando il grande Nâgârjuna, prendendo le mosse dal pratîtyasamutpâda, dissolve il mondo delle parvenze sensibili nel “vuoto” che è parimenti al di là da essere e non essere(1), ma pone in pari tempo il pensiero come funzione liberantesi dall’attività concettuale in cui ordinariamente si determina. In realtà non viene negato nulla del Buddhismo delle origini: si può dire anzi che esso venga articolato in forme di conoscenza possibili appunto per la presenza di un impulso nuovo che è la volitiva via verso l’autocoscienza, certamente riconoscibile anche quando si accende il grande contrasto dialettico tra il Buddhismo e le principali scuole dell’Induismo dal VII al IX secolo. Controversia di cui, di là dalle forme dialettiche nelle quali si sviluppa, giova afferrare il valore: che è l’evoluzione di un pensiero individuale rispetto ai dominanti temi, dell’essere e del conoscere. Anche quando questo pensiero giunge a forme di negazione e di scepsi, comunque manifesta l’elemento interiore nuovo a cui si è accennato, e che affiora come evento metafisico compientesi nella interiorità di talune nobili figure del Grande Veicolo, poi che la rivelazione del Buddha è inesauribile nel tempo, manifestandosi egli in «paradisi od empirei ove gli eletti ascendono mentalmente nel raccoglimento dell’estasi»(2). È evidente che tale elemento interiore nuovo converge verso la conoscenza del “vuoto” e si collega poi con il Terzo Veicolo, o Veicolo Adamantino: è la vocazione di Vasubandhu e Asanga. Secondo la loro biografia scritta da Paramârtha(3), i tre fratelli Asanga, Vasubandhu e Virincivasta, appartenevano inizialmente alla scuola Sarvastivadin che è il “realismo” del Piccolo Veicolo, ma questa dottrina non era sufficiente ad Asanga, che si elevò per virtú della meditazione al cielo Tusita, ove ricevette dal Maitreya l’insegnamento che espose poi negli scritti consacrati alla dottrina del “null’altro che coscienza” (vijñaptimâtra). Comunque, allato alle dottrine delle due scuole, Madhyamaka, fondata da Nâgârjuna, e Yogâcâra, fondata da Mâitreya-Asanga, la tradizione gnostica tibetana riferisce che i due gruppi di maestri coltivarono insegnamenti segreti, che successivamente confluirono (nel VII sec., con Indrabuti, re-mago di Uddiyâna) nel Vajrayâna: infatti, sia Nâgârjuna che Asanga vengono regolarmente citati nel sampradâya dei vari testi del Veicolo Adamantino: Asanga è addirittura ritenuto il formulatore inspirato del Guhyasamâja, che in pratica riporta il discorso sopra-terreno del Buddha-archetipo (Âdi-Buddha) alla folla dei Bodhisattva, riflettentesi poi sulla terra come insegnamento del Vajrayâna(4).
A un dato momento i cultori del Tantrismo vedono la tradizione brahmanica e vedica non piú rispondente alle esigenze dei “tempi nuovi”: l’uomo non ha ormai l’immediatezza dell’esperienza sovrasensibile: egli deve poter “risalire la corrente” dello spirito(5) mediante una volontà che operi alle radici delle funzioni vitali. Cosí il Vajrayâna è in sostanza un’ulteriore “rivelazione” della sapienza del Buddha, che tiene conto delle diminuite possibilità interiori dell’uomo(6). Nel Kâlachakratantra si legge che il Buddha, al re Suchandra che gli chiede lo yoga capace di salvare gli uomini dall’“età oscura”, rivela come il cosmo ormai sia racchiuso nel corpo dell’uomo e perciò solo attraverso la penetrazione interiore delle funzioni della natura possa essere ritrovato.
Questi nuovi sentieri hanno quasi sapore di eresia, perché contemplano la possibilità ati-dharmica, ponendo il tema di una iniziativa individuale, poggiante su sé, e pertanto operante alla trasmutazione dell’aspetto contingente della individualità. Il còmpito consiste nello scendere per virtú di indipendenza interiore nelle profondità della natura corporea, assumendone e rettificandone le forze, che sono divergenze della “luce originaria”: la potenza del vuoto sostiene una tale possibilità e la realizza alle radici stesse della vita. In effetti, la tecnica del Vajrayâna ha come presupposto l’esperienza del vuoto: poiché le cose sono vuote e il “vuoto” è il luogo a-dimensionale dello Spirito, il vuoto e il pieno coincidono, Nirvâna e Samsâra sono identici. Ma il senso di tale identità è la possibilità di ridestare nella natura inferiore le piú elevate forze involute come istinti e come passioni. Perciò Aryadeva nel Citta-vishuddhi-prakarâna dice che «la passione rende il mondo cattivo: la passione solo lo libera». Niente di ciò che appare come samsâra o come mâyâ può ancora contrapporsi a costituire dualità: se si scende nel profondo dell’essere, tutto si esaurisce nel vuoto: quel che ordinariamente si presenta come passione o istinto, rinasce come superiore vita, anzi è la sostanza della resurrezione perché, ponendosi come limite, è il limite da estinguere in ogni forma in cui si ripresenti, anche in quella spirituale: questo è attuare il “vuoto” nella sua profondità, che è la sua a-dimensionalità.
La paura, ciò che è bramato o proibito, e ancora egoicamente limita, è il diaframma che indica il distare della vita interiore dall’essenza che è il vuoto. L’esperienza del vuoto è perciò la stessa via del “diamante-folgore”. Nell’Advayavajra si legge che «il vuoto nucleo di tutte le cose, come diamante, non potrebbe essere abbattuto a colpi di spada, né incrinarsi, né bruciarsi, né distruggersi».
Quanto il Grande Veicolo concepisce come senso del vuoto è chiarito da Candrakîrti nel Prasannapadâ. In sostanza la vacuità, sunyata, è vuota anch’essa. «La vacuità è l’eliminazione di tutte le illusioni provocate dalle opinioni. La cessazione di queste illusioni non è, s’intende, entità reale, a sé stante. A coloro che credono che la vacuità stessa sia una cosa reale, non v’è, per noi, piú modo di rispondere. Essi non potranno mai raggiungere la liberazione, che, secondo il nostro insegnamento, esige appunto l’eliminazione di ogni costruzione mentale. Ammettiamo, infatti, che qualcuno, a chi gli chiede una data merce, risponda: “Io non ti darò nessuna merce”; se colui cui viene cosí risposto, insiste e dice: “Dammi dunque questa merce chiamata nessuna”, non c’è evidentemente piú mezzo per fargli capire che questa merce non è a sua disposizione. La stessa cosa accade nei riguardi del vuoto. Questa credenza, infatti, che anche la vacuità sia una realtà positiva come potrà essere eliminata?»(7).
In sostanza si tende al vuoto quando si tende all’estinzione dell’“ego”: ci si vuota dell’“ego”. Assunto riguardo al quale sembrano concordi molti cercatori di questo tempo, che tuttavia hanno tanto caro l’“ego” da poterlo introdurre come elemento inevitabile e inconsapevolmente limitante nel mondo della loro ricerca: che perciò in definitiva viene adattato alle velleità dell’“ego”, come è in genere evidente nelle moderne e dilettantesche interpretazioni dello Yoga, dello Zen o del Tantrismo, non altrimenti che nell’ortodosso “tradizionalismo” di R. Guénon e di F. Schuon proponente una “conoscenza metafisica” indipendente dall’atto conoscitivo chiamato comunque a tale conoscere, che è il pensare nostro, attuale, fuori del quale nessuna esperienza né fisica né metafisica è possibile.
Chi volesse avere un’idea del vuoto, potrebbe partire dalla rappresentazione del vuoto della fisica e poi imaginare che esso stesso venga tolto sino a uno “spazio negativo”, che a sua volta andrebbe ancora tolto. Giungerebbe cosí all’idea di uno spazio spirituale, annientatore dello spazio e del tempo, epperò condizione radicale di ogni ente esistente nello spazio e nel tempo. Qui il vuoto non è soltanto l’essenza, ma l’essenza dell’essenza, onde l’esistente si presenta come una sua negazione, naturalmente illusoria, che non è sufficiente eliminare come imagine spaziale, ossia come “rappresentazione”, bensí occorrerebbe estinguere, mediante un volere piú alto, anche come imagine temporale; essendo tuttavia l’imagine temporale la sintesi superiore di tutto ciò che è il divenire di un ente nello spazio: per esempio l’imagine della Urpflanze di Goethe(8).
Se si tiene conto di questo duplice grado di inversione della realtà originaria per il suo apparire come realtà esteriore, si può intendere il senso dell’imagine goethiana «tutto l’effimero non è che un simbolo». In ogni cosa, in ogni essere, si può ravvisare il duplice rovesciamento dell’essenza, e, nella sua “forma”, riconoscere il simbolo della duplice negazione del vuoto, per cui si può dire che in quella forma il vuoto si esprime, se si è capaci di contemplare il valore aspaziale e quello intemporale: che non può essere semplicemente rappresentazione ma innanzi tutto percezione, ossia esperienza sovrasensibile: verso la quale è preparatrice la tecnica della “osservazione pura”, o del “pensiero libero dai sensi”.
L’inversione dell’apparire non è certamente un fatto, bensí un atto che tuttavia non può da prima compiersi come tale, ossia direttamente o immediatamente. La mediazione, come si accennava, è il “pensiero puro” che può considerarsi veste fluente di un vuoto in cui lo spirito originario è presente: tale “pensiero”, a un dato momento, sorge come visione di ciò che si cela o si esprime nell’apparire.

Massimo Scaligero (3.)

da: «East and West», anno 1960 pp. 249-257, in inglese; e da «Vie della Tradizione», anno III, Vol. III, N. 11, in italiano.
 
(1) G. Tucci, Storia della Filosofia indiana, Bari, 1957, pp. 80-81.
(2) G. Tucci, Op. cit., p. 69.
(3) J. Takakusu, The Life of Vasubandhu by Paramârtha, ecc. in T’oung Pao, V, (1904), p. 279.
(4) Vedi P. Filippani Ronconi, Il Buddhismo, Napoli, R. Pironti, 1960, p. 61 e segg.
(5) Mahâ-nirvâna-tantra, I, 20-29, 37-50.
(6) Mircea Eliade, Le Yoga, Liberté et Immortalité, Paris, Payot, 1954, p. 209.
(7) Candrakîrti, Prasannapadâ, pp. 247-8, cit. in Civiltà dell’Oriente, Vol. III, da R. Gnoli in «Filosofia dell’India».
(8) R. Steiner, Goethes Naturwissenschaftliche Schriften, Dornach 1938, p. 93 e segg.