- Quando l’illusorio fondamento
possa essere lasciato, sia pure per brevi momenti, perché
comunque, per il meditare essenziale o per il superamento
del dolore, sorge una forma trasparente del volere, qualcosa
come una sorta di coraggio incorporeo, allora si comincia a
intravedere un altro fondamento, quello originario. E si sa
che occorre volerlo: il trarsi da esso è fluire di volontà
pura, decisione che deve di continuo rinnovellarsi per
essere vera. In realtà non si è stati mai staccati da
esso, ma se ne era smarrita la coscienza: la riconquista di
questa è l’atto del volere.
- La quiete del fondamento si dà
quando sia stata assolutamente voluta oltre ogni
dissipazione egoica, e poi ogni volta di nuovo ricercata,
riconosciuta, attuata, ma non per sé, bensí in quanto
clima inalienabile alla conoscenza. Ritenere che possa
essere fine a se stessa, cercata per essere “sentita” o
goduta – che non potrebbe mai darsi – è errore. Essa è
l’immobile base, scaturigine di ogni movimento: il
congiungersi con essa, l’attingere la sua immobilità che
non è l’immobilità concepibile con il pensiero
condizionato dai sensi, è la possibilità di un operare
strenuo, impetuoso anche se calmo, deciso sino alle basi
della vita: tale da assumere la condizione radicale del
vivere, ossia di quel processo per il quale è inevitabile
la morte.
- Il fondamento che è la “Quiete
delle Gerarchie”, per il discepolo di Chartres è il
volersi nell’essenza. Ma è il momento della libertà che
si attua in quanto si cessa di essere condizionati dal
fondamento fornito dalla natura: momento analogo a quello in
cui, nella metafisica buddhista, il Bodhisattva ascende a un
“altro piano”, grazie alla “rivoluzione del supporto”,
âsraya parâvrtti(1).
Tolto il supporto che è necessità, condizione, sorge il
fondamento; ma sarà evidente che, mentre per le Gerarchie l’operare
secondo il fondamento è spontaneità, per l’uomo non può
essere che autodeterminazione di contro al proprio esistere
e volitiva risoluzione dei “modi” del proprio essere(2).
L’uomo deve fare qualcosa oltre ciò che è, destando in
sé un volere piú possente di quello onde è legato alla
forma del suo esistere, ossia alla necessità della vita cui
è inevitabile la morte. La quale ha diversi modi di
presentarsi già durante la vita.
- Ma la contemplazione della “Quiete
delle Gerarchie” in sostanza sollecita il fondamento,
epperò il riposo nel fondamento, non perché abbia il
potere di attuare ciò che è contemplato come una
possibilità, ma in quanto il carattere sovrasensibile del
suo contenuto, meditativamente percepito, dà per qualche
momento l’indipendenza dal supporto. Occorre distinguere
la realizzazione di quel “grado” dalla contemplazione
di esso che, come momento superiore del pensiero, dà un
senso della indipendenza dal supporto: indipendenza che non
è certo per l’ego ma per l’estinzione dell’ego
e delle sue velleità. È l’iniziale esperienza del vuoto.
Della cui natura si hanno imagini precise e avvincenti in
quelle forme della Tradizione che riflettono l’esigenza
del “vuoto” come di un elemento di risoluzione o
rivoluzione, come di un principio di rinnovamento, richiesto
dalle condizioni del kaliyuga: imagini che sono senz’altro
efficaci a intendere il senso del vuoto, ma che per l’attuale
ricercatore possono essere semplicemente motivi di
meditazione lungo la ricerca: non potrebbero costituire “oggetto”
della ricerca stessa. Comportarsi come se fossero oggetto
della ricerca sarebbe cadere ancora una volta in un “realismo
metafisico” e impedirsi di attuare il loro senso ultimo:
errore di pensiero, ossia mancanza di coscienza del processo
ideativo capace di ideare il vuoto: processo,
perciò, che non è il vuoto, ma, in quanto consapevole di
ciò, vero principio per l’esperienza del vuoto.
- Occorre dire che l’atto del
pensiero-libero-dai-sensi è possibile in quanto l’essenziale
vuoto dell’anima sia già in qualche modo sollecitato
dietro lo schermo della coscienza. Ed è lo spirito. La
possibilità di estinguere lo stesso
pensiero-libero-dai-sensi potrà essere la prima esperienza
cosciente del vuoto.
- Quando si parla del fondamento
metafisico, del fondamento onde si trae la “Quiete delle
Gerarchie”, in sostanza si vuole sempre alludere a un’essenza
in cui ha inizio la realtà del mondo: quella concepibile
soltanto a condizione di estinguere la forma esteriore e il
suo spazio, e il tempo che necessita al suo divenire nell’esperienza
sensibile, e la percezione stessa del sensibile, e ancora il
mondo degli impulsi e dei sentimenti ed infine dei pensieri
che a tale estinzione hanno operato. Estinzione che può
essere conosciuta mediante pensiero puro, quando ancora non
sia possibile realizzarla come un grado superiore della
coscienza: quello che si consegue per virtú della
Iniziazione o della cessazione della vita fisica.
- Ma una simile essenza è il “vuoto”:
al quale si allude nei testi tradizionali, con imagini
tecnicamente precise e ricche di contenuto poetico, che
hanno il potere di destare nell’anima del meditante
qualche autentico orientamento, a condizione che egli sia
ben cosciente da intendere che talune risonanze di quelle
imagini non sono l’inizio del “vuoto” ma un moto del
“pensiero puro”, o del pensiero per qualche attimo
svincolantesi grazie al contenuto meditativo, e che quindi l’operazione
andrebbe continuata in quel moto interiore imaginativo, o
pensiero vivente.
- Secondo il Kulârnava-tantra,
il vuoto è piú che un “non-essere”. Insostanziale e
informale, esso è causa di ogni forma: fondamento
metafisico dell’essere, sunya è di essenza
adamantina: perciò viene chiamato vajra. La
equivalenza âtman-brahman delle Upanisad riaffiora
come visione di una identità del principio individuale con
il principio cosmico, nello stato essenziale del vuoto che,
peraltro, come unità trascendente dell’essere, ricorda il
Brahman del Vedânta. Essendo dunque il vuoto l’essenza
della natura e degli enti, il vajrayâna implica la
possibilità di una esperienza folgorante, annientatrice
delle forme illusorie attraverso le quali la natura afferra
l’uomo interiore: che può liberarsi proprio grazie all’esperienza
assoluta e svincolante di ciò che lo vincola.
- La via dello Yoga tantrico che
comporta una liberazione non evadente dal mondo ma
compientesi nel tessuto stesso dell’esistenza, là dove la
potenza originaria assume la veste dell’apparire,
rappresenta una direzione “nuova” e in qualche modo
anti-tradizionale nel vasto quadro delle correnti
esoteriche, di tipo intellettuale o mistico o pragmatico,
comunque soteriologico, dell’Induismo. Diverse somiglianze
con tale via presenterà lo Zen, per la sua possibilità di
evocare la presenza del principio originario nelle varie
forme dell’agire: il non-agire, proprio al vuoto, in quell’apparente
agire che il mondo richiede. Ma è importante osservare come
tali possibilità di ritrovare dall’interno delle
tradizioni e dei sistemi un rapporto dinamico con il mondo
si affaccino nell’èra che segna la fine del mondo antico:
nell’èra in cui qualcosa sembra mutato nell’“aura”
della terra. È l’alba dell’esperienza individualistica,
della quale varie saranno le forme: quella naturalistica e
fisica, quella razionalistica e filosofica, quella
esoterica. In Oriente, il Buddhismo mahayanico, il
Tantrismo, lo Zen, il Vedânta e, nei tempi piú recenti, la
“via” di Ramakrishna che passerà poi per l’esperienza
“moderna” di Vivekananda e avrà un coronamento nell’opera
organica e luminosa di Shrî Aurobindo – certamente non
legata alla tradizione – possono esser veduti come
espressione di un principio eterno che rinasce con senso
nuovo in un mondo il cui splendore metafisico è consunto: e
tale senso è la formazione dell’autocoscienza, ancora non
come “sintesi” ma come costruzione dei termini ond’essa
si trarrà. Parimenti nel mondo occidentale, la via del
Graal, la Scuola di Chartres, la vocazione dei “Fedeli d’Amore”,
la missione dei Templari, la via ermetico-alchemica, allato
alla evoluzione del pensiero convergente verso la filosofia
dell’“Io”, cooperano alla formazione interiore del
tipo umano che affronterà l’esperienza materialistica:
tale formazione, operando metafisicamente attraverso i
centri superiori della coscienza, prepara lo strumento
intellettuale della libertà. Libertà possibile: come
negazione di sé o come affermazione: comunque, possibilità
positiva di un tipo interiore che reca già in sé, sotto
forma di principî dell’autocoscienza, quei conseguimenti
che sono l’oggetto dello Zen, del Vajrayâna e del
Tantrismo. La nozione della reincarnazione e del karma
dovrebbe poter suggerire all’indagatore l’idea secondo
la quale sia concepibile il ripresentarsi del tema
iniziatico in un ulteriore tipo umano in ordine al grado
conseguito, epperò come capacità di un’esperienza
terrestre radicale, pertinente al senso conclusivo del kaliyuga.
- In effetto nell’epoca delle “rivelazioni”
originarie – che piú tardi si rifletteranno nella sruti
– l’uomo ancora non percepisce l’“Io”: la sua
relazione con il sensibile viene suscitata da potenze
trascendenti e, in epoche successive, da guide o asceti,
indi per via di un insegnamento in cui l’originaria
comunione con il sovrasensibile, ormai affidata alla
memoria, smrti, verrà espressa per mezzo di testi,
che l’uomo dovrà studiare, recitare e meditare. In
sostanza l’“Io” va sempre piú assumendo su sé la
relazione con l’essere, con il mondo, in origine affidata
a Dei e a “Maestri”: è la coscienza individuale alla
cui nascita coopererà lo sforzo di tutte le scuole e di
tutte le correnti, sino a che sarà l’evento dell’autocoscienza
in Occidente: per cui, chi contemplasse con ampio sguardo,
potrebbe vedere la preparazione della moderna individualità
non soltanto come un processo che si inizia con la filosofia
greca ma che si elabora parimenti in Asia e in particolare
con la speculazione indiana.