- L’accusa
contro la civiltà della macchina non costituisce un motivo
nuovo nella cultura attuale, per quanto sia connessa alla
posizione assunta da una minoranza di pensatori moderni che
non sono certo tra i meno significativi. Ora, poiché tale
accusa viene mossa quasi sempre in nome di un’idea o di
una tradizione, onde essa varia secondo il modo di vedere,
la scuola o la nazionalità del pensatore che accusa, noi
riteniamo che, per quanto riguarda la nostra etica, meglio
che volgere ad una sistematizzazione dialettica di princípi
e di corollari, sia opportuno mettere in rilievo qualcuno
dei virtuali rapporti o contrasti dell’uomo con il mondo
meccanico.
- Noi
crediamo che per realizzare una coerenza dei princípi
rinnovatori con cui si tende ad operare nel piano della
politica, con le attitudini piú profonde dello Spirito, nei
confronti della cultura meccanicistica, ossia della forma
mentis meccanicistica, debba venir assunto un
atteggiamento di controllo e di superiore arbitrio, non per
opporsi allo sviluppo e all’applicazione delle scienze
meccaniche, ma per star fermi, irriducibili, di contro al mito
generatosi con la macchina.
- Qualche
letterato nega l’esistenza di un “mito” meccanico.
Certo, il mito non si afferra né si palpa; tuttavia esso
può influire su nostre azioni il cui aspetto esteriore è
poi ben lungi dal far ritenere che la causa originaria sia
una suggestione iniziale, un’idea irrazionale dominante,
un’entità incorporea in cerca di corpo, un mito.
Anche colui che agisce in funzione di suggestioni
post-ipnotiche, si illude di essere autore della propria
azione e di affermare in quel dato momento la propria
personalità, mentre è docile e inconsapevole strumento d’un
altrui volere.
- Ora, il
mito per noi non è la macchina, o l’affezione alla
macchina, ma quella mentalità materialistica, utilitaria,
agnostica, cinica, della vita moderna, a cui la macchina
corrisponde esattamente come simbolo. Noi sappiamo che la
macchina è un oggetto utile: di essa può giovarsi anche il
saggio senza per questo deviare dal suo sentiero: è il modo
di vivere di cui la macchina è simbolo, che noi intendiamo
combattere, in quanto lo riconosciamo in contrasto con la
libera e pura virilità dell’anima.
- Occorre
tener presente che, quando l’individuo acquista la
dignità della propria personalità e il senso della propria
missione, non può concepire piú il bisogno di attribuire a
entità fuori di sé o a entità materiali, il motivo di
essere e di agire, ma lo ritroverà in sé, nel suo cuore e
nella sua anima, proiettandolo all’esterno soltanto
attraverso la coscienza di tale missione.
- La
liberazione dal mito tende soprattutto a suscitare la
liberazione dell’atto, ovvero lo svincolarsi dello Spirito
da tutto ciò che è retorica, da tutto ciò che s’interpone
fra potenza interiore e attuazione, sia esso costituito da
“letteratura” o da sentimentalismo o da mistica
immobilità. Qui si rischiara il concetto di un “ritorno
all’azione”, giacché la liberazione dal mito non è
altro che la liberazione dalla retorica.
- Un
inizio di tale liberazione si può riconoscere in ogni
posizione di difesa che sia possibile rispetto alle
influenze di mentalità meccaniche caratterizzate da
internazionalismo capitalistico e da collettivismo
democratico. È interessante a questo proposito constatare
come lo sviluppo della mentalità meccanico-materialistica
sia in diretto rapporto con il dominio d’idee e di forme
politiche a carattere internazionalistico: spirito
collettivistico e regno della mitica meccanica costituiscono
un binomio indissolubile nel mondo moderno.
- Le piú
svariate forme di internazionalizzazione non sono che
relazioni astratte fra gli uomini, costruzioni mitiche,
comuni a masse informi, nelle quali si è cancellato il
segno dell’individualità, giacché l’“Io” si è
decentrato per esteriorizzarsi e perdersi nella
collettività, si è concesso passivamente a entità senza
luce, senza volto, a grandi organismi acefali, rinunciando
definitivamente a quella sua cosciente collaborazione che
sarebbe stata invece richiesta in un regime di ordine. È l’annientamento
dell’individuo nella grande folla, la rinuncia dell’uomo
alla dignità di potenza, donde l’infiacchirsi della
compagine dello Stato e il venir meno della possibilità di
uomini atti al comando, di creatori, di capi.
- La
civiltà meccanica, se non sia giustificata da una
ispirazione d’ordine altamente morale e sovrammateriale,
risulta come qualcosa che uniforma gli uomini e la loro
mentalità, contravviene alla effettiva coesione sociale in
nome di princípi eterni, dissolvendo il senso stesso di
nazionalità. Questo succedersi di rivoluzioni, di
carnasciali giacobini, di baccanali di sangue, di
scatenamenti della cieca brutalità umana, è un segno
evidente di talune saturazioni di spirito eversivo, ossia di
materialismo meccanico della massa: è la ribellione della
materia contro lo Spirito che tenderebbe a redimerla. Ecco
perché durante tali scatenamenti, le orde imbestialite
inveiscono soprattutto contro simboli e forme di ordine:
Stato, religione, cultura.
- In
contrapposto a tali invasamenti d’ordine inferiore, la
nostra attuale vicenda rappresenta la rivolta dello Spirito
contro il materialismo, dell’etica virile contro i
rammollimenti disgregatori della sedicente democrazia, la
reazione di esseri indomabili contro ciò che di decadente,
ossia di conforme a una barbarie meccanizzata, presenta il
mondo moderno. Tuttavia reagire contro l’assopimento dei
valori umani sotto il prepotere della civiltà meccanica,
ristabilire un equilibrio morale, preparare le coscienze ad
un risveglio della personalità e del senso virile della
vita, non consiste, come qualche letterato filosofante
potrebbe opinare, in una lotta contro la macchina, bensí
nella restaurazione di una libertà sovrasensibile di contro
alla mentalità meccanicistica odierna. Ora, da una tale
preparazione, tramata di azioni costruttive senza
compromessi, alla liberazione dal mito, la via non è ardua:
anzi si può considerare una transizione immediata.
- Il
compito di una liberazione radicale è ben arduo: «Noi
stessi scegliamo il nostro demonio» asserisce Plotino: e in
questo caso, gli uomini stessi, veramente, creano,
alimentano il mostro che poi li terrà sotto il suo
artiglio, sotto il suo sguardo orrido. Non c’è nulla di
piú demoniaco che l’aspetto di queste forze irrazionali
che assumono proporzioni man mano piú grandi, e che,
create, nutrite dall’uomo, sono quelle che finiscono con
lo schiacciare l’uomo. I moderni sono vittime di questi
“demoni” nascosti sotto ogni forma di civiltà meccanica
e di suggestione demagogica: sotto il collettivismo, lo standard,
il politicantismo, il capitalismo, la moda, e perciò quasi
sotto ogni espressione di attività quotidiana.
- Il mondo
della macchina, assurgendo a ente mitico, è qualche cosa
che, frapponendosi fra noi e la natura, tra noi e la
conquista diretta delle cose, tra noi e le nostre
possibilità creative, si presenta come un immane
avversatore della cultura e di tutte le forme di attività
superiori dello Spirito, stabilendo l’imperio della
quantità sulla qualità, sostituendo al dominio dell’intelletto
il dominio della materia, rendendo sterili i centri
superiori della coscienza. Col meccanizzare sempre piú un’attività
particolare dello Spirito (per esempio la musica), si
distruggono ancor piú le possibilità dell’iniziativa
personale, ovvero dell’artista, e si retrocede nel campo
dell’attività creativa, mentre guadagna terreno, con la
meccanicizzazione, l’abitudine esterioristica.
- Si
tratta dunque di un potenziamento della vita esteriore cui
non si contrappone una piú intensa vita spirituale, ma si
abbandona il nostro essere in adattamenti continui e
dissoluzioni: è l’esasperazione del potere esterno,
meccanico, puramente fisico epperò cadaverico, spoglio del
quale l’uomo si ritrova un piccolo essere, schiavo di
sogni, di passioncelle e disarmato dinanzi a grandi misteri,
quali il dolore e la morte. Ciò costituisce anche un
regresso del corpo, giacché dove la macchina si sostituisce
continuamente all’uomo, questi rinuncia ad un’attività
fisica necessaria allo sviluppo naturale del corpo e dei
muscoli, rispetto a cui l’attività sportiva non
rappresenta che un inadeguato artificio. A ciò sarebbe
facile obiettare che, dopo tutto, il dominio della materia
può benissimo preferirsi a quello dello Spirito, e che si
gode maggiore soddisfazione a trarre partito da tutto ciò
che l’ingegno umano tradotto in macchina può offrire, che
non a creare con il pensiero o a meditare, o a vivere a
contatto con la natura. Anzi, è un luogo comune ormai
esaltare le meraviglie della meccanica, disprezzando le
sovrammateriali affermazioni. Si avrebbe ragione ad assumere
tale atteggiamento, se veramente nella materia fosse la luce
e nella macchina la funzione illuminatrice, se veramente
materia e macchina fossero ricettacoli di princípi eterni,
infiniti, se nella macchina l’uomo potesse ritrovare un
veicolo per l’attuazione dei suoi piú alti ideali, le
condizioni della propria morale e della propria libertà. Ma
la macchina non è nulla di tutto questo; se non si
sorveglia, si arrugginisce e si guasta, e per questo la sua
mitizzazione, che è un abito mentale proprio alla folla
moderna, nonché un modo di vivere alimentato da sistemi
politici e da infezioni letterarie, in realtà non è che
illusione materialistica, o, per usare una felice
espressione di Carlo Michelstaedter, “retorica della
potenza”.
- Ora, è
fuor di dubbio che il mito della macchina corrisponde in
sede sociale e politica, a quella mentalità moderna delle
masse tra le quali hanno avuto fortuna l’ideale
democratico e l’ideale comunistico della vita: l’anima
meccanicistica riassume esattamente il valore-limite
spirituale del demos inteso nel senso deteriore del
termine, tendente alla continua soddisfazione di ciò che in
essa si esaspera come istintività inesauribile. È la folla
moderna, la grande livellatrice di individualità, la bestia
senza volto, la massa dominata dalla macchina che essa
stessa ha creata, la massa che ha perduto il senso del “sacro”
e le cui culminazioni intellettuali hanno esse stesse una
limitazione macchinistica. Di contro alla conformazione di
tale massa hanno significato le rivoluzioni dei pochi, le
posizioni ascetiche di alcuni irriducibili difensori dei
valori dello Spirito, di alcuni assertori di una
indistruttibile Tradizione ideale.
- Sulla
linea della rivoluzione ideale, capita di incontrare
pensatori i quali accusano tra l’altro quel Secolo
Decimottavo che rigettò definitivamente la concezione dell’
”essere” come principio metafisico di differenziazione e
di gerarchia, per ridurre tutto alla “capacità” nella
pratica, al potere delle convenzioni sociali e dialettiche,
all’opaca morale conformista. L’accusa è forte quanto
giusta. È una decisa rivolta contro la tirannia
razionalistica, contro quella limitatezza della logica
discorsiva, che, portata in ogni piano dell’esistenza dell’uomo,
è andata sempre piú separandolo dalla realtà vivente del
mondo: è, sotto altri aspetti, un superamento ardito di
quella “sintesi a priori” di carattere astrattamente
intellettuale che ha originato la retorica della scienza e
della civiltà materialistica moderna, superamento che tende
a riconfermare una centralità di potenza nello Spirito e
nella sua azione incondizionata.
- Tale è
il contenuto di una novissima filosofia, se cosí può
ancora chiamarsi una forma di pensiero che reagisce
radicalmente a tutti i vecchi sistemi, rifacendosi, se mai,
all’esigenza originaria di essi, ovvero a una ricerca
della saggezza, ad una sapienza, che non separi l’uomo
dalla vita, ma lo sospinga alla riconquista di essa. Tali
pensatori si trovano d’accordo nell’annunciare il crollo
di una civiltà ormai vacillante, ossia di quei sistemi
politici fondati sul principio democratico ed imperniati su
valori di carattere astratto ed eversivo, generati
soprattutto dall’immane materialismo del mondo attuale. La
decadenza si manifesta sotto i piú vari aspetti e
attraverso i fenomeni sociali piú comuni, ma soprattutto
nei dissidi interni e nelle guerre civili. Tutto questo
presenta un che di tragico e di pauroso, dinnanzi a cui,
tuttavia, gli uomini si trovano inetti, incapaci di reagire
in senso virile e restauratore. La maggior parte di questi
pensatori si trova d’accordo nel concludere che l’ultima
fase dell’immane dramma dei popoli moderni si
determinerebbe con la crisi risolutiva di quell’ “età
oscura”, o “età del piombo”, presagita da antiche
tradizioni. Per una ricostruzione, d’altro canto, sarebbe
necessario che l’uomo avesse la forza di riorganizzarsi,
ma la fondamentale difficoltà consiste nel ristabilire un
ordine di valori (una gerarchia) per cui le forze delle
collettività non vadano disperse e i migliori abbiano la
possibilità di guidare e riformare gli altri. Non basta che
si riorganizzi l’individuo; ciò può rappresentare la
parte iniziale del compito di ricostruzione; occorre,
invece, poter ridestare la forza di taluni princípi
superindividuali inerenti a una Tradizione dello Spirito,
che un tempo fu pure una realtà e agí al centro delle piú
luminose civiltà.
- Che tale
posizione ideale costituisca il postulato ad un’azione
restauratrice è evidente anche nei casi in cui non si trovi
un accenno a sviluppi tecnici e pratici di un simile
programma spirituale. Si tratta infatti di un programma: ma
nella forza dei suoi significati esso chiede non già
consensi dialettici o fiancheggiamenti culturali, bensí un
ritorno all’azione, una rinnovazione radicale dell’uomo.
Sulla base di simile forma di intellettualità non retorica,
ma costruttiva, a grandi linee architettoniche, si può
tentare una interpretazione dell’intellettualismo
letterario che si accompagna allo svolgersi del mito
meccanico e che pare tenda a conservare una sua
particolare privilegiata fisionomia anche nei momenti della
grande tragicità, quando coloro che pretendono essere gli
interpreti dello Spirito una sola cosa debbono saper
compiere: il sacrificio di sé.