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Della crisi di questa civiltà si sono avuti non pochi interpreti, ai quali non si può non riconoscere il merito di aver descritto all’uomo moderno, con tagliente evidenza, gli aspetti del suo decadere. Su un motivo quasi tutti questi pensatori, sotto forme dialetticamente diverse, si trovano concordi: sulla deficienza di spiritualità e sulla conseguente perdita di una direzione morale. Quale dunque il rimedio? Respiritualizzare la vita, immettere nuovamente lo spirito nella vita: tale il concorde riconoscimento. Ma, in riferimento ad esso, fioriscono innumeri gli equivoci di diversi tipi di intellettualisti della religione o della filosofia, che credono di poter salvare il mondo con formule tradizionaliste o soggettive, comunque attinte alla stessa inanimata cultura che essi intendono rivoluzionare e rinnovellare.
Ora, il mondo moderno va veramente salvato? È stato realmente compreso il senso di quello che ci appare come un suo decadere? Non è forse possibile che esista un retroscena di questo immane dramma, ancora piú occulto di quello identificato dai maggiori esponenti dell’indagine anti-moderna? Ci sembra ora di porre questi interrogativi, perché, se ad una soluzione è urgente lavorare, occorre far sí che essa possa scaturire al di fuori di tutti i sistemi, le correnti e le culture che sino ad oggi hanno mostrato nient’altro che la loro impotenza: il che significa che occorre giovarsi di una conoscenza anzitutto capace di condurre al superamento di quella logica formale ed esterioristica, attraverso cui sono stati accettati come verità i maggiori errori del pensiero astratto in ogni campo.
All’epoca delle grandi civiltà pre-cristiane di tipo “tradizionale”, allorché la costituzione interiore dell’uomo era tale che il piano psichico si trovava spontaneamente aperto a una diretta comunione con il piano spirituale (due piani che, per poter chiarire il problema interiore dell’uomo, occorre distinguere come lo distinsero le antiche tradizioni, il Cristianesimo primitivo e attualmente la Scienza spirituale), l’anima dell’uomo era ricettiva alle verità d’ordine metafisico e accettava, in adesione perfetta ad esse – mediata da quegli uomini piú eletti che erano i sapienti e i sacerdoti – la possibilità di un sistema di certa conoscenza che finiva con il tradursi in ordine sociale. In quanto ciò avveniva attraverso una comunione spontanea della “psiche” (anima), non era necessario che il bene morale e sociale dell’uomo costituisse un problema e fosse oggetto di indagine razionale: lo spirito agiva attraverso l’interiorità dell’uomo, esprimendo in esso un ordine che si manifestava nella vita come ordine morale.
L’epoca di tale comunione spontanea con lo Spirituale si conclude con il periodo che a noi si presenta come la proto-storia della civiltà mediterranea: è il periodo della conoscenza riflessa nel mito attraverso la cosmogonia e l’epos, nel quale si verifica il compimento di un processo millenario: una sorta di distacco (il termine, si badi, ha un valore puramente simbolico e analogico, in quanto lo spirito assume valori spaziali semplicemente dal punto di vista di uno tra i suoi infiniti modi di essere, che è la materia) del piano animico, o psichico, dal piano puramente spirituale, distacco che naturalmente appare come un regresso, o caduta, dell’uomo in uno stato inferiore. In seguito a tale evento, l’uomo è costretto a elaborare la sua conoscenza entro i limiti della sua individualità psichica, la cui massima possibilità comincia con l’essere la capacità razionale: lo spirituale con cui prima l’interiorità dell’uomo costituiva un tutto e dal quale essa traeva ogni motivo di perfezione, limitandosi ad essere impersonalmente conforme alla sua legge, diviene un mondo estraneo a quello umano; onde l’uomo, considerandolo qualcosa di separato da sé e non piú essendone posseduto ed ispirato, è costretto a rivolgersi ad esso come ad un oggetto della sua indagine; e ad esso, temporaneamente, non può giungere se non con mezzi di cui dispone e che appartengono al piano psichico: la conoscenza razionale mediata dalla percezione sensibile. È questa la fase che segna l’inizio dell’esperienza filosofica e del pensare scientifico.
I primi filosofi provarono nella loro indagine la sensazione che il pensiero razionale cui dovevano la loro possibilità di speculare sull’origine del creato fosse una sorta di capacità nuova, oltre quella di rappresentarsi il mondo sotto forma immaginativa e quella stessa dovuta ai sensi. La distinzione di tale valore, sotto il riguardo logico e psicologico, si dové a Socrate il quale, ricercando l’elemento generale oggettivo del sapere che rendesse possibile la comunione soggettiva, giunse al concetto. Ma l’identificazione decisiva del significato del pensiero razionale viene compiuta da Aristotile, già forte della esperienza socratica e platonica.
La nascita della filosofia greca coincide con il sorgere stesso dell’individualismo, che viene quasi a disorganizzare l’unità collettiva mantenuta interiormente in uno stato di obbediente spontaneità, dall’antica coscienza mitica la quale in sostanza era la condizione di una conoscenza generale oggettiva promanante dai mondi superiori, senza necessità di una mediazione razionale. Allorché tale coscienza viene abbandonata, l’attività razionale si rende necessaria quale connessione della psiche umana con la realtà esteriore; ma essa a quel tempo non ha ancora il valore di organo di conoscenza, in quanto comincia ad esprimersi soltanto come una nuova funzione della interiorità individuale, il cui senso etico è presente nella poesia lirica e gnomica e nella “scienza” dei Sette Savi.
Cosí, fra le dilacerazioni dell’antica fantasia mitica – ultimo residuo di una coscienza cosmico-simbologica – traendosi dalla letteratura teogonica e dalle riforme morali-religiose di tipo orfico e pitagorico, nasce la prima forma di sapere razionale, la filosofia, la quale procede man mano dalla contemplazione interrogativa del cosmo alla elaborazione scientifica dei concetti.
In sostanza, questa necessità di trarre il senso dell’io da un piano inferiore a quello spirituale, pur apparendo una caduta, presenta come ultima finalità una conquista veramente eroica dell’uomo: la ricostruzione della vita spirituale entro il piano animico, con i mezzi che l’individualità dell’uomo, costretta ad essere se stessa e ad assumere coscienza di sé nel mondo finito della realtà materiale, andrà via via creandosi, per recare luce nei piani inferiori della coscienza corporea. Ma tra lo stato di illuminazione metafisica originaria e il conseguimento di una illuminazione cosciente del mondo fisio-psichico, si doveva attraversare una fase intermedia che è stata necessariamente una fase di oscuramento, nella quale l’uomo ancora oggi si trova. L’interiorità individuale si è strappata al piano della trascendenza, per “ri-evocare” – se cosí si può dire – tale trascendenza entro se stessa, con suoi mezzi, grazie all’impulso di quel principio divino che è potenzialmente in essa e che permane attraverso ogni apparente regresso: l’uomo potrà un giorno riprendere contatto cosciente con lo Spirituale e rendere il pensiero cosciente – acquisito attraverso l’apparente discesa in un piano anti-metafisico, positivo, razionalistico – veicolo dell’affermazione di questo Spirituale nel piano che per ora in lui è dominato dall’incosciente e dalla natura animale. Ma il processo di distacco, come si è accennato, implica dapprima un oscuramento e una perdita: con le sole forze della sua individualità, da quel momento, l’uomo deve cominciare a risolvere il proprio problema e, chiuso nei limiti della sua individualità, egli tenderà a rievocare in sé il Divino: egli tenderà a questo, anche attraverso una fase di inconsapevolezza: ma il Divino rimarrà sempre in lui sotto la forma di questo impulso all’auto-superamento.
All’uomo che sia stato capace di attraversare questo processo e ne abbia percorso tutte le tappe, i mezzi che si offrono per portare a compimento la mirabile opera sono dapprima il pensiero e i sensi: soltanto con questi l’uomo può muovere alla conoscenza del mondo e regolare la sua vita: cosí nasce la civiltà meccanica e materialistica. In tale civiltà si riflettono obiettivamente i caratteri del pensiero che l’ha creata: un pensiero matematico, scientifico, nettamente individuato, ma avulso dallo spirituale; un pensiero che non tiene neppure conto del fenomeno “fede” che tuttavia permane in una parte dell’umanità come eredità inconsapevole della comunione spirituale originaria.
Proprio una civiltà del tipo moderno ha il compito di riflettere all’esterno ciò che manca nell’interno dell’uomo: queste creazioni del materialismo meccanico, scaturite dall’uomo dei nuovi tempi, ritornano contro di lui quasi a chiedere che egli integri spiritualmente la loro esistenza. Il mondo moderno è uno specchio nel quale l’uomo può ben vedersi e comprendere al tempo stesso la sua grandezza esteriore e la sua miseria interiore.
Che cosa può imparare l’uomo da questo riconoscersi nella unilateralità del temporaneo mondo che ha creato? Egli può comprendere la sua incapacità di vivere moralmente. Se esamina i rapporti tra la sua interiorità e il mondo esteriore, egli può comprendere che non esiste connessione morale tra il suo pensiero e la vita. Ogni esigenza morale viene vissuta nel piano del pensiero e lí si arresta: da lí è incapace di passare nella vita, di trasformarsi in azione.
Ma perché questo? È semplice spiegarselo, se si tien conto di quanto si è prima accennato. La morale non può essere un concetto, non può essere un semplice schema speculativo, ma principalmente una forza che deve scaturire dai piani spirituali per passare nell’anima e poi tradursi in azione. Tale forza può passare attraverso il vaglio del pensiero cosciente, ma non può nascere esclusivamente dal pensiero. Da secoli, da piú di un filosofo il problema della morale è stato, sotto forme diverse, brillantemente risolto. E poi? Esso è rimasto lettera inanimata nelle pagine di un libro o tutt’al piú esigenza intellettuale di un pensatore, rettorica di una corrente sociologico-politica.
Da diversi secoli, dunque, il problema della morale viene esaurientemente pensato, ma non sino in fondo. Se esso venisse pensato fino in fondo, il filosofo morale scoprirebbe che cosa veramente può dare origine a una morale capace di incidere sul piano vitale e su quello fisico: scoprirebbe che la morale non è qualcosa che si possa preparare sul piano “mentale”, ma una forza che la psiche umana deve attingere ad un piano “sopra-mentale”. Còmpito del mentale è di elaborare in forme di coscienza ciò che a lui può scendere dai piani superiori, ove esso sia capace di aprirsi a questi: simultaneo dunque è per l’uomo il còmpito già additato da Aristotile e poi chiarito da Tommaso, di educare il suo intelletto perché si dignifichi sino ad accogliere forze che sono verità metafisiche. Non esiste verità metafisica che non sia una forza trasformatrice: purtroppo, l’uomo da secoli ritiene di poter speculare sul metafisico, essendo distaccato da esso e chiamando tuttavia metafisico quel che egli invece sperimenta attraverso la meccanica – sia pure la piú ideale – dei concetti.
Ora, ciò che in antico l’uomo sperimentava come un vivere morale, ignorando qualsiasi assunzione filosofica di tale esperienza, non era se non un costume esteriore che rifletteva all’esterno il contatto dell’interiore con forze d’ordine metafisico. Allorché la vita interiore dell’uomo, staccata dallo Spirituale, si è ridotta al solo piano del pensiero, essa ha guadagnato in vastità, ma ha perduto in altezza e in profondità: l’altezza è la comunione con il piano sopramentale o metafisico, la profondità è il corrispondente possesso del piano vitale e fisico. La morale, dunque, da effettivo costume di vita risultante dalla immissione di una forza spirituale nell’interiorità dell’uomo, divenne oggetto di indagine del pensiero – nel quale rimaneva come esigenza dialettica – incapace di tradursi in vita. In sostanza l’uomo, per poter compiere lo sviluppo della sua individualità raziocinante, per poter scendere a contatto con gli aspetti attivi del piano fisico e cominciare a crearsi il senso dell’io attraverso l’urto con la realtà materiale, ha dovuto rinunciare a un dono che anticamente gli veniva dal Divino, attraverso gli Dei: la possibilità di vivere spontaneamente in forma morale. Ma tale rinuncia ha soltanto un valore temporaneo e prelude a un bene nuovo dell’uomo, in quanto implica l’azione dello spirito in un piano in cui l’ostacolo della necessità del finito e del materiale rende necessario, attraverso l’urto e il combattimento, lo sviluppo di autocoscienza e di libertà, ossia le uniche forme in cui lo spirituale può consistere consapevolmente nel mondo della realtà fisica. E qui occorre porre in guardia contro un possibile equivoco ricorrente, purtroppo, anche in coloro che si atteggiano a spiritualisti: non si deve intendere, allorché si parla di un “bene nuovo dell’uomo”, che si tratti di qualcosa che si crei di bel nuovo, di contro a possibilità prima non esistenti, ma semplicemente di una delle infinite possibilità dello spirito, che nel caso nostro è quella di essere se stesso ed assumere forme corrispondenti alla sua essenza anche là dove il regno della forma e della materia sembra esserne l’antitesi.
Il problema attuale dell’uomo si può allora riassumere in questi termini: non si tratta per lui di rinnegare quel che egli si è conquistato attraverso qualche millennio di duro travaglio: il pensiero esatto e la coscienza razionale della individualità: rinunciare a questi significherebbe per l’uomo tornare indietro, degradarsi: si tratta invece di ridestare l’antica spiritualità con le forze del nuovo pensiero, con la nuova auto-coscienza: riconquistare il contatto con il piano sopramentale ossia con quello che risponde alla direzione – puramente simbolica – in altezza, cosí che egli possa agire spiritualmente nel piano vitale e fisico rispondente alla direzione in profondità. Allora veramente il pensiero può divenire uno strumento per il vivere morale dell’uomo moderno e agire come un trasformatore delle forze spirituali fluenti verso la realtà sensibile.
Nuovi tempi annunciano questa possibilità: il pensiero è ormai una forza che, avendo svolto la sua missione nella interiorità dell’uomo, si trova spinto dalla sua stessa unilateralità a superare i limiti concettuali abitudinari, per integrare la sua direzione con altre dimensioni dello spirito, o meglio, per divenire veicolo dello Spirituale nel piano che è apparentemente anti-spirituale. Con senso di responsabilità si può a questo punto affermare che esiste una Tradizione metafisica la quale offre all’uomo la possibilità di ricongiungere il suo pensiero con i piani superiori o soprannaturali, senza che esso rinunci alla sua auto-coscienza e a quelle forze cognitive che nei piani inferiori lo hanno messo in condizione di sperimentare con esattezza matematica. Si tratta di condurre queste forze di conoscenza a compiere la loro vera e totale funzione.

Massimo Scaligero

da «La Vita Italiana», XXXII, serie II, fasc. 2-3 (366-367) ottobre-novembre 1944