- Guardando
con nuova attenzione le pagine di Lu Hsün si ha l’impressione
che, nonostante la sua formazione culturale e i contatti
con determinate correnti di pensiero – in cui sono
ravvisabili tre influenze principali: evoluzionismo,
romanticismo illuministico, istanza individualistica
sociale – ogni elemento intellettuale, ogni tema,
vengano in sostanza usati da una individualità che
appartiene a tutt’altra tradizione e a tutt’altro
mondo che quelli in cui quei temi sono sorti. E questo
può giovare a comprendere l’evoluzione dell’anima
cinese a contatto da prima con il mondo del positivismo e
del razionalismo, che hanno origini essenzialmente
occidentali, e subito dopo con elementi vividi e
sconvolgenti di una realtà sociale-politica che, nata
come astratto pensiero in Occidente, diviene poi fenomeno
e problema mondiale.
- Giustamente
Martin Benedikter ha osservato(1)
che nonostante si sia voluto vedere in Lu Hsün il
caposcuola letterario del “realismo critico”, tuttavia
la sua individualità autentica sorpassa tale “distinzione
lineare”. «Al di là di tale criterio, interessa
anzitutto l’uomo-poeta che nella rivoluzione intende il
rinnovamento del singolo verso la società, col senso dell’umano
che informa le opere degli scrittori da Gogol sino a
Gorki»(2).
- L’elaborazione
cosciente dei temi illuministici e positivistici, il
chiarimento ideale e dottrinario, non sono che mezzi per
uno spirito che ha già in sé una direzione: e questa in
Lu Hsün è simultaneamente un impulso segreto e qualcosa
che si manifesta in forma ogni volta inaspettata.
- Nella
sua visione del mondo, nella sua attività estetica, la
direzione si precisa ed è l’aspirazione alla libertà:
quella libertà, che si contesse in ogni momento con la
storia di un popolo, perché mai veramente compiuta, ma
sempre di nuovo risorgente oltre gli equivoci umani, oltre
le contraffazioni intellettuali, per cui, una volta sulla
strada della distruzione degli idoli, l’uomo veramente
libero dovrà scoprire se qualcuno ne rimanga che li
ricomprenda tutti. Preoccupazione questa sempre desta in
Lu Hsün, rivoluzionario e poeta-narratore. E la
preoccupazione si fa arte, diviene anche azione politica,
lotta, dolore, invettiva, ma ogni volta può placarsi
soltanto in quella manifestazione che sa assumere, senza
deformarle, le segrete intuizioni dello spirito: la
poesia.
- L’opera
di Lu Hsün risulta perciò traducibile in un’istanza
ideale: anzi, essa non sarebbe quello che è, se non
urgesse tutta verso un rivolgimento dei valori e delle
idee: in cui si indovina il tentativo di dare epilogo
positivo ad una concezione della storia costretta a
constatare la crisi del cristianesimo storico cosí come
quella della nuova civiltà anticristiana. E questo
tentativo non può non vedersi in relazione con una
religiosità sostanziale che nel profondo è la stessa humanitas
dolorante di Lu Hsün. Sembra riaffiorare come un
cristianesimo liberato, che per ora appena s’intravede:
un cristianesimo immanente che vuole portarsi oltre tutte
le formule, che appartiene al futuro, in quanto per ora si
affaccia soltanto nell’anima di isolati asceti e di
poeti.
- È
possibile che la funzione storica del cristianesimo
ascetico e trascendente sia stata ravvisare l’elemento
sovrannaturale sopravvivente nella sola forma, nell’involversi
di talune civiltà precristiane. Esaurita questa funzione,
si avrebbe proprio una ripresa dell’elemento cristiano
originario, portatore della libertà e della potenza della
individualità, il cui senso ultimo dovrebbe però essere
non anticristiano, ma supercristiano: il Superuomo, o “Uomo-Dio”,
che, avendo raggiunto il punto critico del suo processo,
non crolla, ma va di là dall’abisso, innalzandosi: ciò
significa ripresa di contatto con i valori viventi nella
storia e nell’esistenza, fuori delle chiese e dei dogmi.
È la “resurrezione” dopo una vicenda di “morte”.
Se, come schema, un simile compito può essere intravisto
nella poetica di Lu Hsün, rimangono tuttavia indecisi i
mezzi attraverso i quali potrebbe effettuarsi la sintesi,
o la “trasformazione”, di tutto ciò che l’uomo ha
creato e sta creando dopo aver “ucciso il primo Dio” e
aver cosí rievocato il mito dionisiaco e titanico.
- Di
questo elemento titanico-dionisiaco non è facile
liberarsi, quando si voglia raggiungere l’opposta
sponda: ma esso stesso è una prova necessaria al
superamento sia dell’antico mondo del dogmatismo e del
tradizionalismo, sia della nuova dignificazione di quelle
forze mondane che Herman von Keyserling chiama “telluriche”.
Perché effettivamente, la posizione di Lu Hsün tende ad
essere oltre questa dualità. Ma vi riesce egli? Nel Diario
di un pazzo, nella Biografia di Ah Q e nei
brani di Yeh-ts’ao, si possono cogliere i due
motivi ricorrenti della sua opera: la critica dei valori
di un mondo fondato sulla fossilizzazione delle
tradizioni, da una parte, e l’ansia di un mondo nuovo,
libero, luminoso, la cui sostanza non sia la retorica
socialitaria ma la vitalità pura e perennemente
rinnovellantesi del cosmo. La critica si rivolge a quel
passato che, per voler essere presente, nella sua
astrattezza è il male vero dell’uomo: si rivolge
perciò anche a ciò che, pur essendo superato, per
sopravvivere assume la mentita spoglia della novità e
dell’attualità. Nell’assolutezza della visione, a Lu
Hsün non sfugge la funzione deformatrice dei falsi
rivoluzionari, dei portatori di una nuova retorica.
- Non è
sufficiente distruggere, né creare nuovi programmi: un
nuovo mondo chiede di essere contemplato dall’uomo, ma
Lu Hsün sente quali tremendi equivoci siano legati alla
presunzione umana di trasformare e di redimere, senza che
siano presenti le forze corrispondenti, senza che sia in
atto una purificazione profonda, senza che vi sia dignità
individuale. E perché la sua opera possa giovare a coloro
che lottano, egli non precisa dottrinariamente le sue idee
– la formulazione discorsiva si rivolge sempre al
cervello, ossia all’intelletto deformatore – ma, oltre
l’esperienza della lotta politica, si ritira nel mondo
delle immagini intuite nella purità di un tipo nuovo di
ascesi: e questa ascesi – espressa poeticamente in Yeh-ts’ao
– egli addita come condizione inevitabile per la
rinnovazione. Il nuovo asceta è colui che si è liberato
dall’antico dio e in tal senso è l’eroe
«trasmutatore del mondo, che reca in sé la somma di
dolore di vivi, morti e nascituri»(3).
- Il
linguaggio di Lu Hsün a questo punto non può non essere
riconosciuto analogo a quello di talune individualità che
giunsero al limite del significato finale della vicenda
umana moderna: Tolstoi, Dostojevskij, Michelstaedter, Otto
Braun, Cesare Pavese, per citare i primi nomi che ci si
presentano alla memoria. Carattere comune a questi
poeti-pensatori è la direzione verso l’altra sponda,
ossia non soltanto la ricerca della libertà ma anche il
tentativo di liberazione dall’antico mondo, di quel
mondo cadaverico eppur ferreamente organizzato che, come
si è accennato, in quanto veicolo di forze luciferiche ed
arimaniche, può riprendere l’eroe sotto una diversa
forma: è il titanismo, la lotta che non si conduce contro
dèmoni o dèi – come sarebbe necessario – ma contro
uomini: e questo è l’errore, perché si ricade nel male
che si pretende combattere, perché in nome dei diritti
della persona umana si lotta contro altre persone umane,
ignorando l’amore che è inscindibile dalla libertà: si
può concepire, infatti, un atto di amore che non sia
libero, o una libertà che, attuata, non conduca al
rispetto della libertà altrui?
- Lu
Hsün inizia la rivoluzione nel proprio mondo di idee:
comincia con lo scoprire l’irrealtà del
tradizionalismo, ma al tempo stesso sente come una nuova
via non possa essere gratuitamente data, ma esiga l’iniziativa
dell’individuo, debba essere intuita e creata dalla
radice. «L’antico dio è entrato in riposo perché l’uomo
agisca». Tutta la sofferenza della vita di Lu Hsün è la
ricerca di questo tipo di azione: l’esigenza
indubbiamente è posta, anche se l’azione corrispondente
non si possa dire compiuta.
- Due
forme dello spirito – abbiamo accennato – tendono
ugualmente a superare la visione di Lu Hsün: il
misticismo che sfugge la terra e l’individualismo che si
affonda come nuovo egoismo nella terra: il primo si può
identificare con il cristianesimo dualistico,
evasionistico, disprezzatore di ogni valore terreno, del
corpo, della stessa concreta personalità: il
cristianesimo del principio della rinuncia, dell’umiltà
del distacco, quello che non è il vero cristianesimo,
perché non riflette la pienezza solare dell’impulso-Cristo.
- Nel
mito, di contro al Cristo, veduto come annunciatore di una
simile dottrina, sta l’Anticristo, come “signore di
questo mondo”: non si tratta di una finzione, ma della
logica conseguenza di un tale dualismo. Occorre, infatti,
un simbolo che raccolga l’opposto mondo dei valori,
tutto quel che il cristianesimo ha voluto negare,
soffocare o disprezzare: un simbolo per il mondo “pagano”
della volontà, della terrestrità, della forza, del
corpo, non della rinuncia, ma della pienezza dionisiaca e
della pura, dura volontà eroica. L’Anticristo
corrisponde, in questi termini, all’Uomo-Dio, al
Superuomo. Di contro a lui, nell’antitesi inferiore, sta
il Cristo, inteso come Dio-Uomo, espiatore e vittima
divina.
- V’è
però un tipo umano che può portarsi oltre questa
dualità, che può realizzare il “vero uomo” (chen-jen)
in quanto non neghi il cielo né si lasci sommergere dalla
terra, ma senta che il suo compito è l’equilibrio e la
sintesi. Tuttavia, per un rivoluzionario autentico,
combattere il vecchio mondo non è difficile: difficile è
discriminare le forze nuove da quelle che rappresentano
non un superamento, ma la polarità opposta al vecchio
mondo: polarità che è parimenti un errore. Il dogmatismo
e il fanatismo, scacciati nella forma tradizionale,
possono riaffacciarsi persino nella veste rivoluzionaria.
- La
direzione di Lu Hsün in piú di un punto è, al
proposito, precisa. In Yeh-ts’ao, l’eroe
ribelle «contempla le vestigia di ciò che è stato:
conosce tutto ciò che è morto, tutto ciò che è appena
nato. Egli ha compreso gli atti del Creatore. Egli sta
levandosi per resuscitare la razza umana…».
- Il
rapporto di Lu Hsün con un “cristianesimo immanente”
potrebbe dunque essere compreso come tentativo di
superamento di due forme parimenti negative dell’esperienza
spirituale, prospettate da Merezkovskij nel suo saggio su
Tolstoi e Dostojevskij(4).
La scoperta della funzione centrale dell’individuo nella
società è soltanto un inizio: essa è per Lu Hsün la
base su cui occorre costruire. Il pensiero occidentale
riguardo a tale insegnamento è stato una sorgente
preziosa. Il vero reale è l’individuo, l’essere
individuale, non la generalità concettuale in cui tenendo
arbitrariamente presenti solo alcuni elementi dell’essere
singolo e arbitrariamente eliminandone altri, vengono
raggruppate le esistenze individuali medesime(5).
Non si può dire che cosa sia la virtú in generale, ma
solo che cosa è la virtú dell’uomo, la virtú della
donna, la virtú del magistrato, la virtú del guerriero:
in ciò Aristotele concorda con i Sofisti, quando dice che
il pretendere di definire la virtú con l’”universale”
o con la “forma” è un ingannare se stessi(6).
L’”universale” è presente nell’uomo in quanto
egli, come individuo, è virtuoso. Ma la ricerca dell’elemento
individuale e della libertà è la via dell’immanenza
assoluta: il pericolo è soltanto – come si è detto –
nel possibile sorgere di un nuovo realismo, di un
dogmatismo sotto nuova spoglia, di un’idolatria sotto il
segno socialitario.
- Fermarsi
a questo punto, è in sostanza non raggiungere l’altra
sponda, cosí evidente nell’aspirazione di Lu Hsün, ma
che egli stesso mostra di non essere riuscito a toccare,
se prima di morire lascia nel testamento al proprio figlio
una direttiva come la seguente: “Evita coloro che ti
consigliano la tolleranza riguardo ai tuoi nemici”. Qui
non si è nel mondo della “pura libertà”, ma ancora
nel mondo della “legge”, nel mondo che è prima dei
Vangeli: in quello dell’ ”occhio per occhio e dente
per dente”. È il riaffiorare dell’antico mondo:
quello contro cui in sostanza Lu Hsün ha sempre preteso
battersi.
- La via
che egli ha additato è una via lungo la quale non ci si
può arrestare a un determinato punto: eppure egli è
costretto ad arrestarsi a metà strada. I suoi eroi in
definitiva non hanno una piena coscienza della loro
funzione: una sorta di problematicismo li arresta e li
devia, la contraddizione impedisce loro, come nella Storia
di Ah Q, la estrinsecazione piena della loro volontà(7).
E appunto qui è ravvisabile la connessione di Lu Hsün
con l’esistenzialismo piú rigoroso: la coscienza si fa
eco continua del contrasto tra l’anima e la vita. La
forza interiore si enuclea e si esaurisce unicamente nella
contraddizione (Diario di un pazzo). Analogamente,
la voce della coscienza per Martin Heidegger è qualcosa
che sorge, qualcosa che ha un posto nel corso delle
esperienze vissute semplicemente-presenti e che fa seguito
all’esperienza vissuta dall’azione: ma né la
chiamata, né l’azione che viene compiuta, né la colpa
di cui ci si macchia sono eventi del carattere della
semplice-presenza, cioè eventi che semplicemente accadono(8).
- V’è
forse una via d’uscita? Lu Hsün la ritrova sempre in
una funzione profonda che è sua e dell’anima della
meravigliosa razza di cui è figlio: la poesia. “Nell’essere-per-la-morte”,
l’essere si rapporta a se stesso come ad un poter essere
specificamente proprio”(9).
Questo “essere”, per Lu Hsün, è in sostanza una
forza magica: in lui agisce, anche se egli in realtà non
la possiede. Può agire in lui come estro, ma egli non la
possiede, perché in taluni momenti decisivi e in quello
conclusivo della sua esistenza, in lui può riaffiorare l’”antico
mondo”: tuttavia egli ha abbastanza sofferto per
lasciare il buon germe a chi potrà riconoscerlo.
- Ma che
cosa è in definitiva l’altra sponda, ossia quel mondo
di nuova humanitas che Lu Hsün sente poeticamente,
ma al quale nella pratica deve rinunciare non solo per le
immediate esigenze e le brute contingenze dell’azione
politica, ma anche perché la giusta intuizione
rivoluzionaria in lui non diviene processo cosciente,
conquista della conoscenza?
- In Vento
caldo egli scrive: “Occorre che crollino i vecchi
idoli perché l’umanità evolva”. In Yeh-ts’ao
il “ribelle” è il “criminale” che annienta
«filantropi, intellettuali, scrittori, genî, saggi»,
ossia tutta la recitazione del vecchio mondo. Allo stesso
modo, “Dio è morto” – aveva annunciato lo
Zarathustra di Nietzsche. «La storia umana si divide in
due periodi: dal gorilla alla uccisione di Dio e dall’uccisione
di Dio alla rigenerazione fisica e spirituale dell’uomo»
– aveva soggiunto Dostojevskij per bocca di Kirillof(10).
Queste parole nascondono un senso finale del problema,
qualora nel “Dio”, di cui in esse si tratta, si
concepisca il simbolo dell’antico cristianesimo
ascetico, “mistico”, sprezzatore dell’esperienza
sensibile, il simbolo cioè di una forma di spiritualità
e di religiosità dalla quale l’uomo occidentale, a
partire dalla Rinascenza, si è effettivamente staccato,
per sviluppare gradatamente una civiltà in fondo
anticristiana e “neo-pagana”, ad onta di tutte le
apparenze e di tutte le formali professioni di fede. È
una via, questa, che doveva condurre fatalmente alla
sostituzione di Dio col Superuomo, con l’Uomo-Dio. La
conclusione dell’ateismo e del “paganesimo” è
necessariamente il superuomismo. «Non si può pensare:
Dio non esiste, senza concludere: io stesso sono Dio»
dice il Kirillof di Dostojevskij. Appunto figure come
questa di Kirillof, o come lo stesso Nietzsche,
rappresentano i punti estremi di tale sviluppo: tutto il
cammino storico è percorso, piú in là non si può
andare, vi è solo l’abisso. Le esperienze spirituali
che l’uomo moderno nei vari dominî della civiltà ha
compiute in modo quasi inconsapevole e incompleto, sono
qui portate alle loro ultime conclusioni. Ma il circuito
che si chiude in questi termini è un corto circuito.
Kirillof non trova altro modo di provare la sua “nuova,
terribile libertà”, che il suicidio. Nietzsche, il “Diòniso
crocifisso”, finisce pazzo. «La strada è tutta
percorsa, non vi è dove andare».
- Qualora
ci si arrestasse a questo punto, si avrebbe effettivamente
una civiltà dei dèmoni, una civiltà terribilmente
ordinata da un’autorità bruta in cui l’uomo si
sostituisce a Dio e piú non conosce che discipline e
conquiste terrestri e una selvaggia volontà di piacere e
di potenza. Sarebbe, in termini positivi e non “apocalittici”,
la corrispondenza effettiva dei mitici “tempi dell’Anticristo”.
Lu Hsün riesce spesso a intravvedere gli aspetti della
vita contemporanea, in cui si palesano o preannunciano
significati del genere. Nello stesso ordine politico non v’ha
dubbio che importanti correnti in tanto acquistano forza e
potenza, in quanto, tacitamente, si dà piú o meno a
Cesare quel che è di Dio e in quanto una nuova mistica va
a circonfondere e consacrare valori terrestri e temporali.
- Le
vedute di Merezkovskij, di fronte a una tale situazione
possono chiarire ciò che si è appena rivelato nell’opera
di Lu Hsün, affiorando talora con fugace ma nitida
luminosità nella sua poetica: tali vedute tendono a
scoprire, per cosí dire, i trasformatori mediante i quali
il nuovo mondo “che ha ucciso Dio” possa ritrovarlo
senza negare se stesso, e l’Uomo-Dio, il Superuomo,
possa divenire non l’antitesi, bensí l’integrazione e
quasi l’organo di manifestazione del Dio-Uomo. Questa
sintesi nella quale Merezkovskij ravvisa l’essenza del
“Cristianesimo del Secondo Avvento”,
la religione dell’avvenire, può essere riconosciuta in
sostanza come ciò a cui tende il “rinnovatore” il “ribelle”
di Lu Hsün. Senza essa, mentre da un lato gli ultimi
resti del cristianesimo ascetico e “mistico” non
potrebbero evitare di essere travolti, dall’altro un
buio e tragico destino riprenderebbe la “civiltà dei
dèmoni” spingendola ad esperienze distruttive
ripetenti, in grande, quelle che già stroncarono e
dilacerarono gli eroi dostojevskiani, ma anche lo stesso
Lu Hsün.