L’Archetipo Anno III n. 13, Novembre 1998

 

Il racconto

LA FORZA DEL SAMURAI

Umétsu Chubei era un giovane samurai di grande forza e coraggio. Era al servizio del Signore Tomura Judayu, il cui castello si ergeva su un'altura nelle vicinanze di Yokoté, nella provincia di Dewa. Le abitazioni dei dipendenti del signore formavano un piccolo centro ai piedi dell'altura. 
Umétsu era di quelli scelti per la guardia notturna alle porte del castello. I turni erano due: il primo cominciava al tramonto e finiva a mezzanotte; il secondo cominciava a mezzanotte e finiva al sorgere del sole. 
Una volta, quando si trovava a fare il secondo turno, Umétsu ebbe una strana avventura. Mentre saliva la collina a mezzanotte, per prendere il suo posto di guardia, scorse una donna in cima all'ultima svolta della strada serpeggiante che portava al castello. Sembrava avesse una creatura fra le braccia, come in attesa di qualcuno. Solo le piú straordinarie circostanze potevano giustificare la presenza di una donna in quel luogo solitario a un'ora cosí tarda, e Umétsu ricordò che i folletti erano soliti assumere sembiante femminile, scesa la notte, al fine d'ingannare e distruggere gli uomini. Pertanto dubitò che la parvenza di donna davanti a lui fosse realmente un essere umano, e quando la vide corrergli incontro, come per parlargli, era intenzionato a passarle accanto senza una parola. Ma fu troppo sorpreso per farlo allorché la donna lo chiamò per nome e gli disse con voce dolcissima:
«Buon Signore Umétsu, stanotte sono in guai seri e ho un compito penosissimo da svolgere: volete essere cosí gentile da aiutarmi a tenere il bambino solo per un breve istante?» e gli porse il piccolo. 
Umétsu non riconobbe la donna, che sembrava molto giovane: sospettava del fascino di quella strana voce, sospettava un'insidia soprannaturale, sospettò di tutto, ma era di natura gentile e capí che sarebbe stato vile frenare uno slancio benevolo per paura dei folletti. Senza rispondere, prese il bambino. 
«Vi prego di tenerlo fino al mio ritorno – disse la donna. – Sarò qui fra pochissimo». 
«Lo terrò» rispose Umétsu.  
    Immediatamente la donna si girò e, lasciata la strada, si lanciò senza un rumore giú per la collina, cosí rapida e leggera che Umétsu non credeva ai suoi occhi. In pochi secondi era sparita. 
Allora Umétsu guardò per la prima volta il bimbo. Era molto piccino e sembrava appena nato. Se ne stava immobile fra le sue mani e non piangeva affatto. Di colpo parve diventare piú grande. Umétsu tornò a guardarlo... No: era sempre la stessa creaturina, e non si era neanche mossa. Perché si era immaginato che diventasse piú grande? Un attimo dopo capí perché, e si sentí corso da un brivido gelato. Non è che il bimbo diventasse piú grande, ma stava diventando piú pesante... All'inizio era parso pesare solo sette o otto libbre: poi il suo peso era gradualmente raddoppiato, triplicato, quadruplicato. Ora non doveva pesare meno di cinquanta libbre, e seguitava a farsi sempre piú pesante... Cento libbre! centocinquanta! duecento! ... Umétsu capí che era stato ingannato: che non aveva parlato con una donna mortale, che il bambino non era un essere umano. Ma aveva fatto una promessa, e un samurai è vincolato alla sua promessa. Per cui tenne l'infante tra le braccia, e quello continuava a diventare sempre piú pesante... duecentocinquanta! Trecento! Quattrocento libbre!... Non riusciva a immaginare cosa sarebbe successo, ma decise di non aver paura e di non lasciar cadere il piccolo finché gli rimanesse un po' di forza... Cinquecento! Cinquecentocinquanta! Seicento libbre! Tutti i suoi muscoli cominciarono a tremare per lo sforzo, e ancora il peso aumentava...«Namu Amida Butsu! – gemette – Namu Amida Butsu! Namu Amida Butsu!».  
    Mentre pronunciava la sacra invocazione per la terza volta, il peso si staccò da lui con uno scossone; ed egli si ritrovò esterrefatto, con le mani vuote, perché il bambino era scomparso. Ma quasi nello stesso istante vide la misteriosa donna tornare rapida come era partita. Ancora ansante lo raggiunse, e allora egli si avvide per la prima volta che era molto bella, ma aveva la fronte grondante di sudore e le maniche erano trattenute da corde tasuki, come se avesse lavorato duro. 
    «Gentile Signor Umétsu – disse – non sapete quale grande servigio mi abbiate reso! Io sono l'Ujigami [nume tutelare] del luogo, e stanotte una mia Ujiko [devota] ha avuto le doglie del parto e ha invocato il mio aiuto. Ma il travaglio si è rivelato difficilissimo, e mi sono accorta presto che soltanto con il mio potere non sarei stata in grado di salvarla; perciò ho chiesto l'aiuto della vostra forza e del vostro coraggio. La creatura che ho lasciato nelle vostre mani era il bambino non ancora nato, e quando avete dapprima sentito che il bambino diventava sempre piú pesante, il rischio era grandissimo: perché le Porte della Nascita erano chiuse. E quando avete sentito il bimbo diventare cosí pesante che disperavate di riuscire a reggerne ancora per molto il peso, in quello stesso istante la madre sembrava essere morta e la famiglia piangeva per lei. Allora voi avete ripetuto tre volte la preghiera Namu Amida Butsu! e la terza volta che l'avete pronunciata il potere del Signore Buddha è venuto in nostro aiuto e le Porte della Nascita si sono aperte... Per quel che avete fatto sarete ricompensato come si conviene. Per un prode samurai non v'è dono piú utile della forza: perciò non solo a voi, ma del pari ai vostri figli e ai figli dei vostri figli, verrà data grande forza». E con quella promessa la divinità scomparve. 
Umétsu Chubei, sommamente stupito, riprese il cammino verso il castello. Al sorgere del sole, terminato il turno, andò a lavarsi la faccia e le mani prima di dire la preghiera mattutina. Ma quando si provò a strizzare l'asciugamano che aveva adoperato, fu sorpreso nel sentire il ruvido panno sbrindellarsi sotto le sue mani. Cercò di annodare i pezzi strappati, e di nuovo la stoffa si lacerò, come fosse carta bagnata. Cercò di torcere i quattro strati, con lo stesso risultato. Di lí a poco, dopo aver maneggiato vari oggetti di bronzo e di ferro che cedevano al suo tocco come argilla, capí che era entrato in pieno possesso della grande forza promessagli, e che d'ora in avanti avrebbe dovuto stare molto attento quando toccava le cose, per tema che gli si sbriciolassero tra le dita. 
Tornato a casa, s'informò se qualche bambino fosse nato nell'abitato durante la notte. Venne allora a sapere che c'era stata una nascita proprio al momento della sua avventura, e che i fatti si erano svolti in tutto e per tutto come riferitogli dall'Ujigami. I figli di Umétsu Chubei ereditarono la forza del padre. Vari loro discendenti, tutti uomini straordinariamente possenti, vivevano ancora nella provincia di Dewa all'epoca in cui fu scritta questa storia.

Lafcadio Hearn

L. Hearn, "La storia di Umétsu Chubei" in Ombre giapponesi
Ed. Theoria, Roma-Napoli 1992

 

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