Le due facce del disco di Festo
CRETA
E IL DISCO DI FESTO |
Narra la leggenda che un giorno Zeus, aggirandosi dalle parti di Tiro,
in Fenicia, vide sulla spiaggia una fanciulla bellissima, Europa, che passeggiava
in compagnia delle sue amiche. Il re degli Dei se ne invaghí e,
tramutatosi in un toro dalla rara possanza e leggiadria, la rapí.
Con la magnifica preda sul dorso, il toro divino nuotò fino a Creta,
dove si uní alla giovane, dando cosí inizio alla stirpe che
doveva popolare l’isola.
Pur essendo un dio e potendo scegliere un sistema di viaggio diverso,
Zeus optò per quello via mare. Oggi si va a Creta per lo piú
in aereo. Da una a tre ore al massimo dura il volo da una qualunque città
europea. Pochi scelgono, a imitazione di Zeus, la via marittima. È
piú lunga – dal Pireo 15 ore circa – ma senza dubbio piú
suggestiva. La rotta sfiora le Cicladi, il mare turchino lascia fiorire
guizzi ariosi di focene ai lati della prua, il mito entra lentamente nel
sangue e lo trasforma, preparandolo a emozioni forti e sublimi. A chi riesce
ad attuare già alla partenza questa metamorfosi biologica, può
capitare di cogliere nel vento il grido degli antichi marinai quando salpavano
dal continente: «Eehoo!» «A Oriente!». Perché
a Oriente era il mistero: il Vello d’Oro, Troia, Babilonia e i suoi giardini
pensili, Harappa nella Valle del grande fiume Indo.
Ma sia che arrivi a Creta in aereo sia che la raggiunga per mare, il
visitatore, tra un bagno nelle acque cristalline di Vai e un’arrampicata
fino agli altopiani di Lasithi con i suoi mulini a vento, dopo l’escursione
a Cnosso non può mancare la visita al museo di Heraklion, la capitale
(la Candia dei veneziani, che governarono l’isola dal 1204 al 1669). E
una volta entrato nel museo, che contiene quasi tutti i reperti della civiltà
minoica rinvenuti nella regione, non potrà trattenersi dal dirigersi
prima di tutto verso la 3a sala, e lí, contrassegnato con il numero
41, ammirare l’oggetto piú misterioso forse di quanti ne espongono
i musei di tutto il mondo: il disco di Festo. A prima vista, come tanti
famosissimi reperti, risulta inferiore alle aspettative della fantasia.
Ha un diametro di 18 centimetri e uno spessore di 2, sulle due facce reca
241 segni, o caratteri pittografici, che si sviluppano in senso antiorario
dal centro verso il bordo esterno, formando una sequenza a spirale. Alcuni
lo fanno risalire al 2500 a.C., altri al 1600 a.C. Mai reliquia della storia
umana fu piú indagata, interpetrata, analizzata, valutata, inquisita.
E mai congetture e conclusioni in merito a natura e origine furono piú
discordanti, sin da quel 3 luglio del 1908, quando una missione archeologica
greco-europea, di cui facevano parte molti italiani, portò alla
luce nell’area sacra del Palazzo di Festo il disco di argilla, i cui segni
restano a tutt’oggi un enigma.
Il limite dei musei, e non solo di quello di Heraklion, è che
gli oggetti raccontano la storia esteriore, visiva e materica di un popolo,
ma non possono riportarne i valori morali e spirituali. Solo la lingua
lo può, e Creta sull’ultimo punto risulta una civiltà muta,
non essendo ancora stata decifrata la sua scrittura. Quanto alle immagini,
gli affreschi parietali di Cnosso, sempre al museo di Heraklion, ci mostrano
rare e frammentarie visioni di donne e uomini, giovani e fanciulle, impegnati
in azioni e gesti la cui decrittazione sarebbe fedele alla realtà
minoica se ne possedessimo la connotazione scritta che ce ne chiarisse
finalità e meccanismi culturali, sociali e religiosi. Come interpetrare
ad esempio la “taurolapsi”, cioè l’acrobatico volteggio sul dorso
del toro, o l’enigmatica e stilizzata figura del “Principe dei gigli”?
Com’erano i Cretesi che dipinsero quegli affreschi e foggiarono quel misterioso
disco di argilla? Al di là di ogni congettura piú o meno
plausibile, quale può essere il valore simbolico ed esoterico di
quel manufatto?
Taurolapsi
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Cosí Rudolf Steiner riporta la leggenda del Minotauro*:
«Minosse, re di Creta, aveva costretto gli Ateniesi a consegnargli
ogni anno sette giovani e sette fanciulle, che venivano gettati in pasto
a un mostro spaventoso, il Minotauro. Quando il triste carico salpò
per la terza volta, lo conduceva Teseo, figlio del re. Sbarcato a Creta,
Arianna, figliola del re Minosse, prese a proteggerlo. Il Minotauro dimorava
nel labirinto, dal quale nessuno che vi fosse entrato sapeva uscire. Ma
Teseo voleva liberare la sua città dal vergognoso tributo e uccidere
il mostro. Occorreva a tal uopo entrare nel labirinto, ove solitamente
veniva gettata la preda. Teseo si sobbarcò all’impresa, vinse il
terribile avversario e riuscí a ritrovare la via grazie a un gomitolo
di refe che Arianna gli aveva dato».
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Narra ancora la leggenda che dopo la fine del Minotauro, nel labirinto
era stato rinchiuso lo stesso architetto suo costruttore, Dedalo, insieme
a suo figlio Icaro. Talmente perfetta era l’opera che lo stesso ideatore
non seppe trovare la via d’uscita. Ma poi, l’ingegno di Dedalo concluse
che se la fuga non era possibile per via di terra si poteva tentare per
via di cielo. Il resto della vicenda è noto. Il padre aveva raccomandato
al figlio di non volare troppo in alto, perché le grandi ali tenute
assieme dalla cera non avrebbero sopportato l’eccessiva vicinanza del sole.
Ma Icaro, inebriato del volo, non aveva resistito alla tentazione di salire
verso l’astro fulgente, ed era miseramente precipitato in mare. In merito
alla saggezza racchiusa nei Misteri e nel mito, dice ancora Steiner:
«Il Mista doveva comprendere per quali vie lo spirito creativo
dell’uomo arriva a intessere un siffatto racconto. E, come il botanico
scruta la pianta per scoprire la legge della sua crescita, cosí
voleva egli scrutare lo Spirito creatore. Dove il popolo aveva posto un
mito, egli cercava una verità, un contenuto di saggezza. Sallustio
ci palesa l’atteggiamento del Mista di fronte al mito. “Tutto il mondo
– egli dice – potrebbe essere chiamato un mito, che racchiude i corpi e
le cose in modo visibile, e in modo invisibile le anime e gli Spiriti.
Se il vero intorno agli Dei venisse insegnato a tutti, gli uomini di scarso
senno non l’apprezzerebbero, perché incapaci di comprenderlo, e
gli altri di maggior capacità lo prenderebbero alla leggera. Presentato
invece sotto il velo del mito, rimane protetto dal disprezzo e stimola
gli uomini a filosofare”. Il Mista che ricercava il contenuto di verità
di un mito, sapeva di aggiungervi qualche cosa che non viveva nella coscienza
popolare. Sapeva di porsi su un gradino a quella superiore, come
il botanico si pone su un gradino superiore a quello della pianta
che cresce. Il Mista diceva tutt’altro di quanto la coscienza mitica aveva
dettato, ma ciò ch’egli diceva era da lui riguardato come una verità
profonda, espressa dal mito in immagine. L’uomo sta di fronte alla sensualità
come di fronte a un mostro nemico, al quale sacrifica i frutti della sua
personalità. La sensualità li divora. E ciò dura finché
in lui non sorga il vincitore (Teseo). La conoscenza fila il gomitolo mercé
il quale, dopo essersi inoltrato nel labirinto dei sensi per uccidere il
nemico, il vincitore ritrova la via. In questa vittoria sulla sensualità
è espresso il mistero della stessa conoscenza umana. Il Mista ben
conosce quel mistero. Esso allude a una forza della personalità
umana. La coscienza comune ignora quella forza, benché operi anche
in lei. In lei essa genera il mito, che ha uguale struttura della
verità mistica. La verità mistica è simboleggiata
nel mito. Qual è, dunque, il contenuto del mito? Esso è una
creazione dello spirito, dell’anima inconsciamente creativa. L’anima è
retta da ben determinate leggi; per creare oltre se stessa deve dunque
agire in una direzione prestabilita. Sul gradino mitologico, essa crea
in immagini, ma queste immagini sono edificate conformemente alle leggi
dell’anima. Si potrebbe anche dire che quando dal gradino della coscienza
mitologica l’anima ascende a verità piú profonde, queste
conservano lo stesso carattere che prima presentavano i miti, perché
una stessa forza li ha generati. Con riferimento ai Sacerdoti-Saggi egiziani,
Plotino, filosofo della scuola neoplatonica (vissuto dal 204 al 269 d.C.)
cosí parla del rapporto fra la rappresentazione mitico-allegorica
e la conoscenza, superiore: “Sia sulla base di rigorose ricerche – egli
dice – sia anche istintivamente, per trasmettere le loro dottrine, i Saggi
egizi non si valgono di segni grafici riproducenti voci e parole, ma nei
loro templi disegnano figure che racchiudono in contorni il pensiero
contenuto nelle cose; cosí che ognuna di esse, pur non essendo né
una spiegazione né una discussione, rappresenta un contenuto di
sapienza, un oggetto e una totalità. Si trae poi il contenuto
dall’immagine, esprimendolo in parole e si trovano i motivi per i quali
esso si presenta in quel modo e non altrimenti ”».
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- Le parole di Steiner dicono che la Verità mistica è simboleggiata
nel mito, e dunque il Minotauro non è una figura reale ma simbolica,
il labirinto non è una prigione, ma l’immagine esoterica di un percorso
dell’anima, cosí come la spirale, interpetrata quale percorso dell’anima
nel tragitto perenne attraverso l’esistenza, la morte e la rinascita. Il
Disco di Festo è dunque non “segno grafico riproducente voci e parole”,
per dirla con Plotino, bensí “una figurazione che racchiude in contorni
il pensiero contenuto nelle cose, contenuto di sapienza, un oggetto e una
totalità”. Da esso poi lo ierofante trae il contenuto dell’immagine
pittografica esprimendolo in parole, illustrandone i motivi per i quali
esso si presenta in un certo modo e non altrimenti. Ci piace allora immaginare
la grande spianata cerimoniale della reggia-santuario di Festo, verso il
tramonto. Il sole indora la collina alla sommità della quale sorge
il palazzo con il megaron regale e il sacro recinto. Il re-sacerdote
solleva il disco di argilla che ripete nei simboli e nelle figurazioni
lo stesso percorso iniziatico che, salendo dalla piana di Messara, si avvolge
intorno alle pendici del colle, itinerario reale che ne prefigura uno virtuale
e trascendente. L’anima lo percorre come una figura umana che passi attraverso
prove e illuminazioni, dolore e gioie. La spirale ascende fino alla sacra
fonte, ne ridiscende per un diverso tragitto, e cosí all’infinito.
Perché la realizzazione non è un compimento ma un eterno
divenire, una ininterrotta evoluzione. Due modi sono offerti all’uomo per
uscire dal labirinto passionale e materico in cui la vicenda terrena lo
tiene imprigionato: la sapienza d’amore, il filo d’Arianna della Iside
Sophia, e il cielo, le ali di Dedalo. Purché anche questa sortita
nel sublime e nella liberazione avvenga sotto il controllo del grande Auriga,
l’Io, che domina la mente e l’istinto con la temperanza del cuore, rappresentato
nel disco di Festo dalla rosa a otto petali, simbolo di rigenerazione e
di resurrezione.
*R. Steiner, Il cristianesimo quale fatto mistico e
i Misteri dell’antichità,
Ed. Laterza, Bari 1932, pagg. 92-93
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