Nella evidente confusione
che caratterizza attualmente la vita musicale in tutto il mondo, si avverte
sempre piú l’esigenza di ritrovare un percorso di rinnovata veridicità,
magari cominciando col ripensare anche le sfumature apparentemente insignificanti.
In proposito può risultare interessante soffermarsi sui principali
predicati che vengono comunemente associati al termine musica, inteso nella
sua accezione piú alta, con l’intento di definirne natura e àmbito:
“grande”, “colta”, “seria”, “classica”, “buona”.
Parlare di “grande musica”
è certamente in qualche misura giustificato se costituisce richiamo
verso quanto di alto e nobile è presente nell’esperienza umana,
puerile sarebbe invece ogni riferimento alle dimensioni, generalmente cospicue,
dei generi musicali in questione, esemplarmente rappresentati dall’imponente
9a Sinfonia di Beethoven. Composizioni di limitatissime dimensioni
come i Lieder di Schubert sono autentiche gemme, d’altra parte produzioni
di altro genere spesso si articolano su dimensioni colossali. È
il caso per esempio del “Musical” di Broadway.
La definizione di “musica
colta”, a sua volta, è accettabile limitatamente alla constatazione
che una Fuga di Bach è sicuramente frutto di complessa maestria
e può richiedere da parte dell’ascoltatore anche una certa evoluzione
intellettuale; oppure sotto il profilo storico in considerazione dell’ambito
prevalentemente aristocratico, “di Corte”, in cui per secoli si è
concentrata la vita musicale sotto la protezione di mecenati illuminati.
Meno condivisibile sarebbe invece ancorarla al livello di cultura degli
ascoltatori, spesso riscontrandosi una profonda partecipazione all’esecuzione
anche tra appassionati privi di una formazione accademica; né tanto
meno si potrebbe accettare tra i requisiti qualificanti quello di una scrittura
musicale complessa, “accademica”, essendo anzi la ricerca della massima
essenzialità espressiva meta costante dei massimi compositori, non
di rado coincidente con le pagine piú toccanti.
È poi certamente
lecito parlare di “musica seria”, terminologia probabilmente ereditata
dalla prevalenza iniziale di produzione liturgica, condivisibile laddove
intenda sottolineare l’atmosfera di solennità e contegno che circonda
i brani piú profondi. Sarebbe però, per esempio, del tutto
improponibile nel caso di uno dei massimi capolavori, Il barbiere di
Siviglia di Rossini, caposcuola del genere “buffo”, a meno che non
si voglia escludere un geniale e benefico umorismo, qui magistralmente
interpretato sotto il profilo musicale, dal novero delle qualità
umane piú preziose. E d’altra parte non si può disconoscere
il clima di grave solennità presente in non pochi “spiritual”.
Quanto alla locuzione “musica
classica”, forse la piú ricorrente, possiamo accettarla quale evidenziazione
del carattere di equilibrio formale proprio della Grecia classica, mai
completamente assente nei veri capolavori, non solo in campo musicale.
È invece decisamente da rifiutarsi da un punto di vista strettamente
musicologico, classica definendosi concordemente la produzione del XVIII
secolo, cosí come “romantica” quella del successivo.
Si constata dunque che le
terminologie esaminate non riescono a configurare che parzialmente la natura
della musica in discussione, quando non siano decisamente fuori luogo.
Diverso è il caso
dell’ultima definizione: “buona musica”. Sembra qui esistere una sola spiegazione
veramente accettabile, che per di piú, al contrario delle precedenti,
appare contestualmente idonea a caratterizzare soddisfacentemente la realtà
richiamata. Non si può infatti accettare l’identificazione della
“buona musica” con quella ben scritta, tale requisito essendo riscontrabile
anche in un riuscito brano dichiaratamente commerciale, quale, per esempio,
una sigla pubblicitaria; né tanto meno considerare l’aggettivo “buono”
sinonimo di “bello”, quest’ultimo possedendo sicuramente una sua completa
autonomia; e neppure assimilarlo ad una valutazione di rimarchevole qualità
del prodotto, legittimamente spendibile in tutti i generi musicali.
Occorre capovolgere risolutamente
la direzione dell’indagine, contemporaneamente inserendo un elemento di
dinamicità nel pensare. La coscienza popolare e quella accademica
hanno sempre concordato nel ritenere una ben determinata produzione musicale
“buona”, perché intuiscono che proprio tale musica possiede in sé
la potenzialità di orientare l’ascoltatore verso ciò che
è buono, verso il Bene, di migliorarlo.
E tale è sicuramente
la ricchezza maieutica vivente nella vera arte donataci dai Maestri, da
Palestrina ai grandi del ’900. Ricordiamo in proposito un ammonimento di
Goethe: «Sol quel che è fecondo è vero»*.
*Cit.
in R. Steiner, La concezione goethiana del mondo,
Tilopa, Roma 1991, p. 11
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