L’Archetipo Anno III n. 12, Ottobre 1998

SITI E MITI


Numa Pompilio e la ninfa Egeria (incisione di B. Pinelli)

LA VALLE DELLE CAMENE
Dei numerosi turisti che aerei, pullman e treni scaricano quotidianamente nella capitale italiana, pochi riescono, nei brevi soggiorni del “mordi e fuggi” tutto compreso, a carpire l’anima antica e vera di Roma. Guide frettolose li conducono intruppati a bearsi di ruderi e rovine, che consegnano al corredo delle loro sensazioni l’immagine di una Roma mastodontica e autocelebrativa, prevaricatrice di popoli e, tutto sommato, enfatica e pagana. Del resto, come potrebbe essere altrimenti se la città stessa, nel tempo, ha eletto a proprio simbolo uno dei piú vasti e funzionali mattatoi che mai l’umanità seppe allestire: il Colosseo? Prodigio architettonico, affermano i tecnici, certo, ma qui il sangue di migliaia di gladiatori e animali si è fuso a quello dei martiri cristiani senza che il luogo abbia perduto per questo la sua aura sinistra tuttora viva e ammiccante dalle vuote orbite dei suoi archi corrosi. Il Colosseo copre un lago sacro preesistente, prosciugato per erigervi l’immenso anfiteatro. Sta venendo ora alla luce un reperto di quei tempi sacrali, la meta sudans, ma essa non basta a rivelare la Roma dei misteri e del diuturno contatto con gli Dei e con i loro messaggeri terreni.
Anche il Circo Massimo e l’area delle Terme di Caracalla nascondono un antico sito di fonti sacre, alberi e ruscelli: la Valle delle Camène. Al pari dei turisti, anche le schiere di automobilisti romani che percorrono quotidianamente l’Urbe inseguendo un sempre piú elusivo benessere, si trovano prima o poi a transitare per quella che fu, in un’epoca molto remota, una delle aree sacre della “città quadrata”, forse la piú carica di mistero, di carisma e di immanenza del soprannaturale che la Roma arcaica pur annoverava nella sua ancora scarna topografia di Urbe còndita.
Tra il Palatino, l’Aventino e il Celio si apriva infatti una valle ridente, ricca di sorgenti, laghetti e boschi, che partendo dal fiume si inarcava sul declivio del Velabro, sviluppandosi poi verdeggiante e luminosa fino alla campagna limitata all’orizzonte dalla sagoma viola dei monti Tiburtini. Il luogo recava quindi ogni crisma caratteristico dei siti fatali e favolosi: acque pullulanti, grotte, vegetazione rigogliosa di lauri, querce e mirti.
Quando Numa Pompilio, in virtú della regola d’alternanza tra Romani e Sabini al governo della città, venne quasi di forza insediato sul trono regale, la valle echeggiava ancora delle urla tremende del mitico gigante Caco. Questi, uscito dal suo antro sulle pendici dell’Aventino, assaliva i viandanti e solo grazie all’intervento di Ercole poté essere neutralizzato. Ma si trattava di echi remotissimi, mentre piú chiari e distinti erano quelli delle voci di richiamo del pastore Faustolo e di sua moglie Acca Larenzia, nutrice, forse madre, dei fondatori Romolo e Remo.
Numa era un rabdomante del sacro e del divino: lo coglieva, senza mai sbagliare, nei luoghi e nelle persone. In quella valle individuò subito un genius loci portatore di grande energia cosmica e di potente forza tellurica. Scelse la località per adibirla a Horti, che in seguito non avrebbero necessariamente indicato terreni utilizzati per la coltura di ortaggi e frutta, bensí spazi di svago offerti al popolo per blandirlo e realizzare cosí un’efficace opera di captatio benevolentiae. Non era però questo l’intento di Numa, orientato a inculcare nei sudditi il senso del sacro, indirizzando la vita della comunità romana verso la frugalità, la temperanza e il sentimento profondo della giustizia.
La vicenda di questo re corre sull’esiguo crinale tra la realtà storica e la leggenda. Il versante leggendario gli attribuisce il possesso di oggetti magici e soprannaturali, come il Palladio, lo scudo di Minerva conservato a Troia e portato in Italia da Enea, o, secondo un’altra tesi, piovuto dal cielo nella reggia di Numa per mostrare al popolo la protezione divina per il suo regno felice. Si dice che il re disponesse anche di una stupefacente capanna, minuscola e disadorna come quella abitata dai pastori, ma che spalancava, a chi vi fosse entrato insieme a lui, l’ingresso in vasti saloni dove gli ospiti venivano degnamente ricevuti e rifocillati. Sempre secondo la leggenda, Numa possedeva anche un certo numero di libri magici che gli consentivano di operare prodigi e formulare vaticini. Per contro, il versante della realtà storica gli riconosce iniziative e progetti non meno portentosi e straordinari del filone leggendario che lo riguarda.
Ma che la sua figura si muova nella sfera della leggenda o in quella della realtà storica, egli appare comunque impegnato a realizzare l’armoniosa organizzazione religiosa e civile della nascente città, inserendo con grande saggezza le sue istituzioni nella linea globale delle credenze arcaiche delle popolazioni locali e viciniori. Dagli Etruschi, ad esempio, mutuò le pratiche divinatorie. Agli aruspici, che traevano auspici osservando le viscere degli animali uccisi (haruga-spicio), Numa sostituí gli àuguri che interpretavano i segni dell’aria (voli, intemperie, fulmini ecc.) e quelli tracciati sulla terra (geomanzia). Tra le sue molte iniziative civili si annoverano la distribuzione delle terre tra i plebei, l’ampliamento del perimetro della città per includervi altri colli, tra cui il Quirinale, e l’istituzione delle corporazioni di arti e mestieri. Ma è nell’ambito religioso, che egli considerava il piú importante ai fini della formazione morale e civile del popolo, che Numa raggiunse i suoi piú alti traguardi. Oltre all’aggiornamento del calendario, che portò a dodici mesi facendo coincidere il piú possibile i cicli lunari con quelli solari, istituí i Flàmini, collegio sacerdotale preposto al culto delle varie divinità, e i Salii, custodi degli arredi sacri, in particolare degli scudi ancíli, e che durante le cerimonie effettuavano danze propiziatorie. Fece anche erigere un tempio dedicato a Vesta, ai piedi del Palatino, sul lato del Foro, destinandolo a pubblico focolare, eliminando cosí la necessità di tenere sempre acceso il fuoco nei tanti focolari privati che sotto Romolo erano appartenuti ai vari clan familiari detti fratrie. A vigilare sul sacro fuoco pubblico destinò sei vergini, le Vestali. Su tutto il vasto apparato religioso, Numa pose la figura del Pontefice Massimo, incaricato di controllare il compimento esatto dei rituali e di impedire l’introduzione di culti estranei alla cultura latino-italica. La tesi storica, interpretando alla lettera e molto semplicisticamente la carica di Pontefice e qualificandola alla stregua di un ingegnere edile costruttore di ponti, non ha tenuto conto che potrebbe trattarsi piú verosimilmente di uno ierofante addetto alla costruzione di “ponti” tra la realtà fisica e quella trascendente.
È un fatto che il divino e il soprannaturale si manifestano in varie epoche e località con una marcata uniformità di segni e fenomeni. Quindi, cosí come la Valle delle Camène, similmente ad altri siti misterici del mondo, risultava ricca di acque sorgive, di grotte e di presenze arcane, anche Numa, al pari degli Iniziati orientali, aveva la sua Dakini, un’essenza femminile che gli trasmetteva energie cosmiche, segreti iniziatici e, quando occorreva, gli dava suggerimenti per l’arte del regnare. Si trattava della ninfa Egeria, una divinità legata agli elementi naturali, in particolare ai fiumi e alle sorgenti. La tradizione mitologica la vuole abitante dei boschi di Ariccia, ma nella vicenda di Numa essa è un’entità con la quale il re s’incontrava a colloquiare in una grotta della Valle delle Camène. La ninfa stessa era una Camèna, una vaticinatrice canora, come la Pizia lo era in versi e la Sibilla Cumana per mezzo di oracoli tracciati sulle foglie. Fu forse Egeria che suggerí a Numa di trasformare la valle poco fuori dal Pomerio dell’Urbe in un sacrario votato alla divinazione? Certo è che gli Orti di Numa e la valle delle “Muse cantanti” divennero per i Romani luogo d’incontro con il sacro e il soprannaturale.
L’imperatore Tito, in prossimità del lato sud-orientale del Circo Massimo (le “carceri”, ossia i cancelli dai quali partivano le bighe per la corsa), fece erigere uno strano edificio di sette piani, chiamato Septizonium, per celebrare le sue vittorie in oriente (la costruzione ricordava infatti uno ziqqurat mesopotamico). Durante il Medioevo la celebre Jacopa, fedele amica di San Francesco, fu denominata “de Settesoli” perché abitava presso il Settizonio . Si trattava di una Dama dotata di spiccati poteri di chiaroveggenza: previde infatti con anticipo l’imminente morte del Santo e, prima che il messaggero inviato da Assisi giungesse a Roma, era già partita da due giorni, arrivando in tempo al capezzale di Francesco per rispondere amorevolmente al suo richiamo. Il Settizonio, detto anche Settisolio, appare ancora nei disegni e nelle stampe del Cinquecento, poi non se ne ha piú traccia in quanto demolito da papa Sisto V, che ne utilizzò i marmi per la Basilica Vaticana e per la base dell’obelisco di Piazza del Popolo.
Il Settizonio fu l’ultimo residuo misterico di un luogo alle soglie del metafisico. Di tanto resta oggi solo la Fonte di Mercurio, assediata dal traffico caotico e dai rumori della città calata nel piú sordo materialismo. Eppure, un sottile rigagnolo scorre lungo il breve declivio tra Via dei Cerchi e il Circo Massimo, formando pozze muschiose tra le rovine ad opus incertum di una Roma della decadenza dedita ai giochi e non piú alla devozione. L’esile vena sorgiva nascosta dall’erba alta, rosseggiante di papaveri alla stagione, o trapuntata dall’oro del tarassaco, si scava una traccia sul bordo del grande anello del Circo, alimenta canne e giunchi, fa prosperare campanule, nutre il fico selvatico, discendente forse di quel “fico ruminale” sotto cui la Lupa allattò i fatali gemelli. Poi quel filo d’acqua, come misteriosamente è apparso, segretamente s’insabbia. Raggiunge forse il fiume presso l’isola Tiberina dove anticamente sorgeva il tempio di Esculapio. Magari proprio nel punto dove la Vestale Massima Emilia, per provare la sua innocenza, attinse dalla corrente l’acqua con il “vaglio” e riportò il setaccio ancora colmo fino ai piedi del Pontefice Massimo nella Casa delle Vestali.
Vuole la leggenda che Roma finirà quando nella valle del Colosseo riapparirà l’antico lago. Le profezie vanno ben interpretate: sicuramente, se mai ciò si verificherà, sarà la fine di una Roma legata alla materia, alla sua conquista e venerazione, e nascerà, come sempre avviene nell’avvicendarsi delle cose umane e universali, la Roma dello spirito, l’eterna città fondata sulla realtà trascendente di cui Numa fu grande sacerdote e Maestro. E nella valle delle Camène riecheggerà il canto di Egeria e delle altre profetesse che annunceranno il tempo nuovo in cui tutto ciò che l’uomo ha vilipeso verrà riconsacrato.
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