Numa Pompilio e la ninfa Egeria (incisione di B. Pinelli)
Dei numerosi turisti che aerei, pullman e treni scaricano quotidianamente
nella capitale italiana, pochi riescono, nei brevi soggiorni del “mordi
e fuggi” tutto compreso, a carpire l’anima antica e vera di Roma. Guide
frettolose li conducono intruppati a bearsi di ruderi e rovine, che consegnano
al corredo delle loro sensazioni l’immagine di una Roma mastodontica e
autocelebrativa, prevaricatrice di popoli e, tutto sommato, enfatica e
pagana. Del resto, come potrebbe essere altrimenti se la città stessa,
nel tempo, ha eletto a proprio simbolo uno dei piú vasti e funzionali
mattatoi che mai l’umanità seppe allestire: il Colosseo? Prodigio
architettonico, affermano i tecnici, certo, ma qui il sangue di migliaia
di gladiatori e animali si è fuso a quello dei martiri cristiani
senza che il luogo abbia perduto per questo la sua aura sinistra tuttora
viva e ammiccante dalle vuote orbite dei suoi archi corrosi. Il Colosseo
copre un lago sacro preesistente, prosciugato per erigervi l’immenso anfiteatro.
Sta venendo ora alla luce un reperto di quei tempi sacrali, la meta
sudans, ma essa non basta a rivelare la Roma dei misteri e del diuturno
contatto con gli Dei e con i loro messaggeri terreni.
Anche il Circo Massimo e l’area delle Terme di Caracalla nascondono
un antico sito di fonti sacre, alberi e ruscelli: la Valle delle Camène.
Al pari dei turisti, anche le schiere di automobilisti romani che percorrono
quotidianamente l’Urbe inseguendo un sempre piú elusivo benessere,
si trovano prima o poi a transitare per quella che fu, in un’epoca molto
remota, una delle aree sacre della “città quadrata”, forse la piú
carica di mistero, di carisma e di immanenza del soprannaturale che la
Roma arcaica pur annoverava nella sua ancora scarna topografia di Urbe
còndita.
Tra il Palatino, l’Aventino e il Celio si apriva infatti una valle
ridente, ricca di sorgenti, laghetti e boschi, che partendo dal fiume si
inarcava sul declivio del Velabro, sviluppandosi poi verdeggiante e luminosa
fino alla campagna limitata all’orizzonte dalla sagoma viola dei monti
Tiburtini. Il luogo recava quindi ogni crisma caratteristico dei siti fatali
e favolosi: acque pullulanti, grotte, vegetazione rigogliosa di lauri,
querce e mirti.
Quando Numa Pompilio, in virtú della regola d’alternanza tra
Romani e Sabini al governo della città, venne quasi di forza insediato
sul trono regale, la valle echeggiava ancora delle urla tremende del mitico
gigante Caco. Questi, uscito dal suo antro sulle pendici dell’Aventino,
assaliva i viandanti e solo grazie all’intervento di Ercole poté
essere neutralizzato. Ma si trattava di echi remotissimi, mentre piú
chiari e distinti erano quelli delle voci di richiamo del pastore Faustolo
e di sua moglie Acca Larenzia, nutrice, forse madre, dei fondatori Romolo
e Remo.
Numa era un rabdomante del sacro e del divino: lo coglieva, senza mai
sbagliare, nei luoghi e nelle persone. In quella valle individuò
subito un genius loci portatore di grande energia cosmica e di potente
forza tellurica. Scelse la località per adibirla a Horti, che in
seguito non avrebbero necessariamente indicato terreni utilizzati per la
coltura di ortaggi e frutta, bensí spazi di svago offerti al popolo
per blandirlo e realizzare cosí un’efficace opera di captatio
benevolentiae. Non era però questo l’intento di Numa, orientato
a inculcare nei sudditi il senso del sacro, indirizzando la vita della
comunità romana verso la frugalità, la temperanza e il sentimento
profondo della giustizia.
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La vicenda di questo re corre sull’esiguo
crinale tra la realtà storica e la leggenda. Il versante leggendario
gli attribuisce il possesso di oggetti magici e soprannaturali, come il
Palladio, lo scudo di Minerva conservato a Troia e portato in Italia da
Enea, o, secondo un’altra tesi, piovuto dal cielo nella reggia di Numa
per mostrare al popolo la protezione divina per il suo regno felice. Si
dice che il re disponesse anche di una stupefacente capanna, minuscola
e disadorna come quella abitata dai pastori, ma che spalancava, a chi vi
fosse entrato insieme a lui, l’ingresso in vasti saloni dove gli ospiti
venivano degnamente ricevuti e rifocillati. Sempre secondo la leggenda,
Numa possedeva anche un certo numero di libri magici che gli consentivano
di operare prodigi e formulare vaticini. Per contro, il versante della
realtà storica gli riconosce iniziative e progetti non meno portentosi
e straordinari del filone leggendario che lo riguarda.
Ma che la sua figura si muova nella
sfera della leggenda o in quella della realtà storica, egli appare
comunque impegnato a realizzare l’armoniosa organizzazione religiosa e
civile della nascente città, inserendo con grande saggezza le sue
istituzioni nella linea globale delle credenze arcaiche delle popolazioni
locali e viciniori. Dagli Etruschi, ad esempio, mutuò le pratiche
divinatorie. Agli aruspici, che traevano auspici osservando le viscere
degli animali uccisi (haruga-spicio), Numa sostituí gli àuguri
che interpretavano i segni dell’aria (voli, intemperie, fulmini ecc.) e
quelli tracciati sulla terra (geomanzia). Tra le sue molte iniziative civili
si annoverano la distribuzione delle terre tra i plebei, l’ampliamento
del perimetro della città per includervi altri colli, tra cui il
Quirinale, e l’istituzione delle corporazioni di arti e mestieri. Ma è
nell’ambito religioso, che egli considerava il piú importante ai
fini della formazione morale e civile del popolo, che Numa raggiunse i
suoi piú alti traguardi. Oltre all’aggiornamento del calendario,
che portò a dodici mesi facendo coincidere il piú possibile
i cicli lunari con quelli solari, istituí i Flàmini,
collegio sacerdotale preposto al culto delle varie divinità, e i
Salii, custodi degli arredi sacri, in particolare degli scudi ancíli,
e che durante le cerimonie effettuavano danze propiziatorie. Fece anche
erigere un tempio dedicato a Vesta, ai piedi del Palatino, sul lato del
Foro, destinandolo a pubblico focolare, eliminando cosí la necessità
di tenere sempre acceso il fuoco nei tanti focolari privati che sotto Romolo
erano appartenuti ai vari clan familiari detti fratrie. A vigilare sul
sacro fuoco pubblico destinò sei vergini, le Vestali. Su tutto il
vasto apparato religioso, Numa pose la figura del Pontefice Massimo, incaricato
di controllare il compimento esatto dei rituali e di impedire l’introduzione
di culti estranei alla cultura latino-italica. La tesi storica, interpretando
alla lettera e molto semplicisticamente la carica di Pontefice e qualificandola
alla stregua di un ingegnere edile costruttore di ponti, non ha tenuto
conto che potrebbe trattarsi piú verosimilmente di uno ierofante
addetto alla costruzione di “ponti” tra la realtà fisica e quella
trascendente.
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È un fatto che il divino e
il soprannaturale si manifestano in varie epoche e località con
una marcata uniformità di segni e fenomeni. Quindi, cosí
come la Valle delle Camène, similmente ad altri siti misterici del
mondo, risultava ricca di acque sorgive, di grotte e di presenze arcane,
anche Numa, al pari degli Iniziati orientali, aveva la sua Dakini, un’essenza
femminile che gli trasmetteva energie cosmiche, segreti iniziatici e, quando
occorreva, gli dava suggerimenti per l’arte del regnare. Si trattava della
ninfa Egeria, una divinità legata agli elementi naturali, in particolare
ai fiumi e alle sorgenti. La tradizione mitologica la vuole abitante dei
boschi di Ariccia, ma nella vicenda di Numa essa è un’entità
con la quale il re s’incontrava a colloquiare in una grotta della Valle
delle Camène. La ninfa stessa era una Camèna, una vaticinatrice
canora, come la Pizia lo era in versi e la Sibilla Cumana per mezzo di
oracoli tracciati sulle foglie. Fu forse Egeria che suggerí a Numa
di trasformare la valle poco fuori dal Pomerio dell’Urbe in un sacrario
votato alla divinazione? Certo è che gli Orti di Numa e la valle
delle “Muse cantanti” divennero per i Romani luogo d’incontro con il sacro
e il soprannaturale.
L’imperatore Tito, in prossimità
del lato sud-orientale del Circo Massimo (le “carceri”, ossia i cancelli
dai quali partivano le bighe per la corsa), fece erigere uno strano edificio
di sette piani, chiamato Septizonium, per celebrare le sue vittorie
in oriente (la costruzione ricordava infatti uno ziqqurat mesopotamico).
Durante il Medioevo la celebre Jacopa, fedele amica di San Francesco, fu
denominata “de Settesoli” perché abitava presso il Settizonio .
Si trattava di una Dama dotata di spiccati poteri di chiaroveggenza: previde
infatti con anticipo l’imminente morte del Santo e, prima che il messaggero
inviato da Assisi giungesse a Roma, era già partita da due giorni,
arrivando in tempo al capezzale di Francesco per rispondere amorevolmente
al suo richiamo. Il Settizonio, detto anche Settisolio, appare ancora nei
disegni e nelle stampe del Cinquecento, poi non se ne ha piú traccia
in quanto demolito da papa Sisto V, che ne utilizzò i marmi per
la Basilica Vaticana e per la base dell’obelisco di Piazza del Popolo.
Il
Settizonio fu l’ultimo residuo misterico di un luogo alle soglie del metafisico.
Di tanto resta oggi solo la Fonte di Mercurio, assediata dal traffico caotico
e dai rumori della città calata nel piú sordo materialismo.
Eppure, un sottile rigagnolo scorre lungo il breve declivio tra Via dei
Cerchi e il Circo Massimo, formando pozze muschiose tra le rovine ad opus
incertum di una Roma della decadenza dedita ai giochi e non piú
alla devozione. L’esile vena sorgiva nascosta dall’erba alta, rosseggiante
di papaveri alla stagione, o trapuntata dall’oro del tarassaco, si scava
una traccia sul bordo del grande anello del Circo, alimenta canne e giunchi,
fa prosperare campanule, nutre il fico selvatico, discendente forse di
quel “fico ruminale” sotto cui la Lupa allattò i fatali gemelli.
Poi quel filo d’acqua, come misteriosamente è apparso, segretamente
s’insabbia. Raggiunge forse il fiume presso l’isola Tiberina dove anticamente
sorgeva il tempio di Esculapio. Magari proprio nel punto dove la Vestale
Massima Emilia, per provare la sua innocenza, attinse dalla corrente l’acqua
con il “vaglio” e riportò il setaccio ancora colmo fino ai piedi
del Pontefice Massimo nella Casa delle Vestali.
Vuole la leggenda che Roma finirà
quando nella valle del Colosseo riapparirà l’antico lago. Le profezie
vanno ben interpretate: sicuramente, se mai ciò si verificherà,
sarà la fine di una Roma legata alla materia, alla sua conquista
e venerazione, e nascerà, come sempre avviene nell’avvicendarsi
delle cose umane e universali, la Roma dello spirito, l’eterna città
fondata sulla realtà trascendente di cui Numa fu grande sacerdote
e Maestro. E nella valle delle Camène riecheggerà il canto
di Egeria e delle altre profetesse che annunceranno il tempo nuovo in cui
tutto ciò che l’uomo ha vilipeso verrà riconsacrato.
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