L’Archetipo Anno IV n. 10, Agosto 1999

SITI E MITI

 


Il castello di Peles, nelle Alpi transilvane

TRANSILVANIA
Nell’anno 105 d.C., le legioni comandate da Traiano invasero la Dacia per muovere guerra a Decebalo, re di quella regione. Dalla Pannonia, passarono il Danubio alle Porte di Ferro, tagliando, nella parete della stretta gola in cui scorre il fiume, una strada tuttora visibile. L’esercito romano avanzò nella pianura seguendo il corso del Danubio che, dopo le strettoie montuose, si allargava scorrendo verso la Dobrugia, il grande delta palustre affacciato sul Ponto Eusino, il Mar Nero. A settentrione, dove la piana terminava, si ergeva un massiccio ricco di creste dentellate e crinali frastagliati: un baluardo compatto, solo in rari punti valicabile. Sconfitto Decebalo nel 106, Traiano provvide a erigere un vallo che doveva chiudere il varco tra i Carpazi e il Mar Nero, impedendo cosí alle tribú nomadi delle steppe mongoliche e caucasiche di penetrare nel territorio dell’Impero, che con la conquista della Dacia era adesso ancora piú vasto e ricco per le miniere e il legname di cui il paese era dotato. I Romani, ormai padroni del campo, vollero scoprire cosa si celava trans silvam, oltre cioè la selva immensa della catena carpatica, quel bastione estremo dell’Europa latina prima delle sconfinate steppe asiatiche. Fu cosí che, valicate le foreste di querce, abeti, faggi, betulle e ginepri, scoprirono un mondo fiabesco di radure verdeggianti, di pendii erbosi, laghi e rapidi fiumi, un altopiano dove colline dolci si alternavano a picchi slanciati di monti cristallini.
La Transilvania entrava cosí nella storia del mondo, uscendo da un isolamento millenario. Eppure, nonostante la colonizzazione romana della Dacia e le successive invasioni barbariche dall’Asia, questa terra doveva conservare nei secoli la sua precipuità di luogo avulso, liminare, in qualche modo permeato di magia e mistero. Caratteristica sconfinata poi nel dominio del malefico, del metafisico sulfureo, dell’horror vampiresco e demoniaco, grazie a una certa letteratura gotico-simbolista di fine Ottocento. Questa ha voluto forzare alcuni personaggi eminenti della Podgoria, cosí veniva chiamata dagli antichi autoctoni questa terra pedemontana, trasferendoli spesso arbitrariamente dall’ambito delle vicende storiche reali e documentate al dominio favolistico e romanzesco, non di rado caricandoli di connotazioni negative e perverse.
Si inizia dal biblico Nemrod, considerato capostipite tanto dagli Unni quanto dai Romeni, e piú tardi identificato col dio delle foreste Menroth, dominante la tradizione sciamanica geto-dacica. Dall’onomastica biblica le popolazioni locali hanno mutuato altri elementi mitici per stabilire ascendenze e discendenze. Cosí Magog, figlio di Jafet, venne indicato come progenitore degli Ungari, che nel tempo travisarono il nome in Mogor e da qui facilmente in Magyar, definendo l’origine della loro stirpe.
Di padre in figlio si arriva ad Attila, il “flagello di Dio”. Questi fece la sua comparsa sulla scena balcanica intorno al 451 d.C., quasi emergendo dal nulla delle steppe asiatiche e stabilendosi nella regione transilvanica. Guidava un coacervo di tribú unne, amalgamate dal comune desiderio di conquista e saccheggio. Attila è un personaggio che va e viene dalla dimensione leggendaria, giocando a rimpiattino con gli eventi ora reali ora straordinari che circondano le biografie di esseri come lui, sempre in bilico tra esaltazione ed esecrazione, tra sfida al divino e torbidi scambi con le forze demoniache. In ogni caso, la sua figura ha alimentato nei secoli il corredo favolistico e folklorico delle popolazioni slave e germaniche prima, e mediterranee poi.
Come a ogni condottiero fatale, gli venivano attribuite facoltà soprannaturali o subnaturali. Intorno alla sua persona, in simbiosi con occulte potestà, orbitavano oggetti prodigiosi, tra cui una spada sacra, il gladius Martis, che volando nell’aria lo chiamava da una conquista all’altra, e un destriero alato che appariva nei momenti salienti delle sue imprese. Fu proprio questo cavallo che un giorno lo portò via dalla sua reggia in Pannonia, dove si era ritirato in seguito alla sconfitta subita per mano di Ezio ai Campi Catalaunici, nella Francia meridionale, e dopo l’incontro sul Mincio con papa Leone I, che lo aveva dissuaso dal proseguire nelle sue distruzioni. L’alata cavalcatura lo condusse fino alla Via degli Eserciti, come veniva chiamata la Via Lattea dagli antichi popoli nomadi del Gobi. Una vera e propria abduzione nella dimensione oltre, un’occultazione temporanea. Poiché, come tutti gli eroi e condottieri che hanno spinto le masse umane a realizzare grandi destini, Attila, al pari di Artú, Carlo Magno, Alessandro, Romolo, dovrà prima o poi riapparire nella dimensione storica reale. Ecco quindi che nella favolistica germanica e sassone vediamo ritornare Attila quale comprimario dell’Epopea, o Canto, dei Nibelunghi, XI secolo, in cui viene coinvolto nelle vicende di Sigfrido, l’eroe invulnerabile uccisore del drago Faffner custode di immensi tesori. Alla morte di Sigfrido, Attila ne sposa la vedova Grimilde, e insieme a lei compie la vendetta contro i traditori Gunter e Hagen.

Papa Leone I ferma Attila

Raffaello, particolari dell’affresco della Stanza di Eliodoro,
«Incontro di San Leone Magno con Attila»

Ad Attila successe il figlio Csaba, in nulla somigliante al padre. Non portato alle conquiste e alle devastazioni, era uno sciamano, un re taumaturgo che leggeva il futuro e le stelle, e preparava rimedi portentosi. Nella tradizione germanico-slava è tuttora conosciuto l’“impiastro di Csaba”, un unguento ricavato dalle piante tipiche delle foreste e brughiere transilvane. Come ogni sciamano che si rifaceva alla tradizione siberiana e centro-asiatica, Csaba era in grado di arrampicarsi sull’“albero meraviglioso”, simbolo dell’albero cosmico, sparendo alla vista degli astanti, secondo un antichissimo rituale di ascensione che lo innalzava fino all’Akash, il cielo piú alto, sede del Dio supremo.
Di una ben piú sinistra immortalità ha goduto nell’immaginario popolare, balcanico prima ed europeo poi, Vlad III Drakul, voivoda, ossia principe, di Transilvania, soprannominato dai suoi conterranei “Tepes”, l’Impalatore. Suo padre, Vlad II era stato insignito da re Stefano I dell’Ordine del Drago, una consorteria semi-monastica creata per contrastare militarmente lo strapotere degli Ottomani, che tentavano di invadere l’Europa cristiana da est. Drago in magiaro si dice drakul, ed ecco spiegato l’epiteto conferito alla casata. Il piccolo Vlad ebbe un’infanzia felice nel castello di Sighisoara, suo luogo di nascita. Intorno al castello si estendeva la foresta selvaggia, solenne, arcana. Vi danzavano elfi e silfidi, naiadi scivolavano nell’acqua cristallina delle fonti e dei ruscelli. Poi c’erano le fate, dette zane in lingua romena, nome derivato forse da Diana, dea dei boschi, della caccia e delle sorgenti.
Ma questo universo sognante doveva ben presto finire. Catturato adolescente dai Turchi, Vlad imparò a sue spese la crudeltà e l’intrigo. I Turchi impalavano i nemici vinti in battaglia e quando Vlad, liberato grazie a un riscatto, ereditò il trono, li ripagò della stessa moneta. Tempi duri, in cui la fede in Dio correva sul filo acuminato della spada. Voivodina, Serbia, Romania, Bulgaria e Transilvania sono stati per secoli territori posti a baluardo della terra cristiana contro lo sconfinato strapotere islamico. Lo stesso Vlad Drakul, o Dracula, che una certa letteratura sensazionalistica ci ha consegnato solo nei suoi aspetti cruenti, fu all’inizio uno strenuo difensore della causa cristiana. Poi il suicidio dell’amata moglie, avvenuto per un inganno, scatenò in lui la follia sanguinaria che ha alimentato la sua fama di vampiro. Era comunque Vlad un predestinato, un’entità fatale per la storia degli uomini e del loro rapporto con il soprannaturale. Nel giorno della sua elezione al trono, gli astronomi videro nel cielo una lunga scia luminosa che, solo dopo secoli, è stata identificata come la cometa di Halley. Nel 1931 la tomba di Dracula, nella solitaria cappella del monastero di Snagov, presso Bucarest, venne aperta. Vi si trovò lo scheletro di un cavallo. L’assenza delle spoglie mortali del principe fu un ulteriore suggello alla credenza popolare di una sua permanenza nella dimensione sospesa tra la vita e la morte.
Stefano il Grande, che succedette a Dracula, fondò i cinquanta monasteri della Bucovina e molte chiese fortificate, piantando la croce di Cristo ovunque sul territorio che, dopo la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, diventava la Grande Muraglia, reale e immaginaria, preposta a separare il Sacro Romano Impero dalla Sublime Porta.
Personaggi e vicende di questa terra, dove male e bene si sono sempre contrapposti secondo i princípi di un dualismo che finisce col cooperare alla realizzazione, attraverso la sostanza mescolata, dell’Uomo Perfetto, quel “Gesú Splendore” che prenderà il posto dell’Uomo Primordiale nel momento finale in cui la Luce avrà trionfato per sempre sulle Tenebre, non distruggendole bensí trasformandole per assimilazione.
Dopo la morte di Mani nel 277, la diaspora dei Manichei aveva portato adepti in Estremo Oriente, in Occidente e in Africa. In Tracia, poi divenuta Bulgaria nel secolo VIII, si stabilí una forte comunità di seguaci della “Religione della Luce”. Poi, intorno all’anno Mille, in seguito ad aspri contrasti tra cristianesimo romano e bizantino, alle contese tra il potere religioso e quello secolare e alle lotte tra i vari voivodi locali, nella popolazione, sorse la necessità di ritrovare la purezza del dettato evangelico, l’esaltazione di liturgie e devozioni non contaminate dalla materialità e dalla degradazione morale. Il pope Bogomil ripropose allora la dottrina di Mani e da lui originò il bogomilismo, ritenuto una delle eresie piú pericolose sia dalla chiesa ortodossa sia da quella romana. Fu altresí osteggiato dai vari Stati, che vedevano nella rinascita del fervore religioso implicante anche aspetti del sociale, una minaccia per i loro ordinamenti. La Transilvania conobbe, in quegli anni, una riscoperta di antichi rituali, ideali e nuovi aneliti verso armonia e purezza. In quella regione di boschi impenetrabili e oscuri, il Noûs, lo Spirito vivente, alitò una forza nuova di redenzione, sparse un seme che si diffuse in Europa. Anche Bernardo di Chiaravalle e Francesco d’Assisi respirarono quell’aura, la stessa che il Cristo, incarnazione del Noûs, aveva diffuso camminando e predicando per le strade della Palestina.
Crocevia di forze occulte, la Transilvania, come altri luoghi del mondo eletti al superamento del naturale, divenne focolaio di energie misteriche antitetiche, che qui conciliarono i loro princípi e poteri fondanti. Dopo secoli, tuttora riecheggiano le parole di Mani: «Sulla terra nulla è puro bene, nulla puro male, anzi in fondo al male vi è un bene occulto, nel cupo delle tenebre vi sono scintille di luce».

Ovidio Tufelli

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