Il
castello di Peles, nelle Alpi transilvane
Nell’anno 105
d.C., le legioni comandate da Traiano invasero la Dacia per muovere guerra
a Decebalo, re di quella regione. Dalla Pannonia, passarono il Danubio
alle Porte di Ferro, tagliando, nella parete della stretta gola in cui
scorre il fiume, una strada tuttora visibile. L’esercito romano avanzò
nella pianura seguendo il corso del Danubio che, dopo le strettoie montuose,
si allargava scorrendo verso la Dobrugia, il grande delta palustre affacciato
sul Ponto Eusino, il Mar Nero. A settentrione, dove la piana terminava,
si ergeva un massiccio ricco di creste dentellate e crinali frastagliati:
un baluardo compatto, solo in rari punti valicabile. Sconfitto Decebalo
nel 106, Traiano provvide a erigere un vallo che doveva chiudere il varco
tra i Carpazi e il Mar Nero, impedendo cosí alle tribú nomadi
delle steppe mongoliche e caucasiche di penetrare nel territorio dell’Impero,
che con la conquista della Dacia era adesso ancora piú vasto e ricco
per le miniere e il legname di cui il paese era dotato. I Romani, ormai
padroni del campo, vollero scoprire cosa si celava trans silvam,
oltre cioè la selva immensa della catena carpatica, quel bastione
estremo dell’Europa latina prima delle sconfinate steppe asiatiche. Fu
cosí che, valicate le foreste di querce, abeti, faggi, betulle e
ginepri, scoprirono un mondo fiabesco di radure verdeggianti, di pendii
erbosi, laghi e rapidi fiumi, un altopiano dove colline dolci si alternavano
a picchi slanciati di monti cristallini.
La Transilvania
entrava cosí nella storia del mondo, uscendo da un isolamento millenario.
Eppure, nonostante la colonizzazione romana della Dacia e le successive
invasioni barbariche dall’Asia, questa terra doveva conservare nei secoli
la sua precipuità di luogo avulso, liminare, in qualche modo permeato
di magia e mistero. Caratteristica sconfinata poi nel dominio del malefico,
del metafisico sulfureo, dell’horror vampiresco e demoniaco, grazie
a una certa letteratura gotico-simbolista di fine Ottocento. Questa ha
voluto forzare alcuni personaggi eminenti della Podgoria, cosí veniva
chiamata dagli antichi autoctoni questa terra pedemontana, trasferendoli
spesso arbitrariamente dall’ambito delle vicende storiche reali e documentate
al dominio favolistico e romanzesco, non di rado caricandoli di connotazioni
negative e perverse.
Si inizia dal
biblico Nemrod, considerato capostipite tanto dagli Unni quanto dai Romeni,
e piú tardi identificato col dio delle foreste Menroth, dominante
la tradizione sciamanica geto-dacica. Dall’onomastica biblica le popolazioni
locali hanno mutuato altri elementi mitici per stabilire ascendenze e discendenze.
Cosí Magog, figlio di Jafet, venne indicato come progenitore degli
Ungari, che nel tempo travisarono il nome in Mogor e da qui facilmente
in Magyar, definendo l’origine della loro stirpe.
Di padre in
figlio si arriva ad Attila, il “flagello di Dio”. Questi fece la sua comparsa
sulla scena balcanica intorno al 451 d.C., quasi emergendo dal nulla delle
steppe asiatiche e stabilendosi nella regione transilvanica. Guidava un
coacervo di tribú unne, amalgamate dal comune desiderio di conquista
e saccheggio. Attila è un personaggio che va e viene dalla dimensione
leggendaria, giocando a rimpiattino con gli eventi ora reali ora straordinari
che circondano le biografie di esseri come lui, sempre in bilico tra esaltazione
ed esecrazione, tra sfida al divino e torbidi scambi con le forze demoniache.
In ogni caso, la sua figura ha alimentato nei secoli il corredo favolistico
e folklorico delle popolazioni slave e germaniche prima, e mediterranee
poi.
Come a ogni
condottiero fatale, gli venivano attribuite facoltà soprannaturali
o subnaturali. Intorno alla sua persona, in simbiosi con occulte potestà,
orbitavano oggetti prodigiosi, tra cui una spada sacra, il gladius Martis,
che volando nell’aria lo chiamava da una conquista all’altra, e un destriero
alato che appariva nei momenti salienti delle sue imprese. Fu proprio questo
cavallo che un giorno lo portò via dalla sua reggia in Pannonia,
dove si era ritirato in seguito alla sconfitta subita per mano di Ezio
ai Campi Catalaunici, nella Francia meridionale, e dopo l’incontro sul
Mincio con papa Leone I, che lo aveva dissuaso dal proseguire nelle sue
distruzioni. L’alata cavalcatura lo condusse fino alla Via degli Eserciti,
come veniva chiamata la Via Lattea dagli antichi popoli nomadi del Gobi.
Una vera e propria abduzione nella dimensione oltre, un’occultazione temporanea.
Poiché, come tutti gli eroi e condottieri che hanno spinto le masse
umane a realizzare grandi destini, Attila, al pari di Artú, Carlo
Magno, Alessandro, Romolo, dovrà prima o poi riapparire nella dimensione
storica reale. Ecco quindi che nella favolistica germanica e sassone vediamo
ritornare Attila quale comprimario dell’Epopea, o Canto, dei Nibelunghi,
XI secolo, in cui viene coinvolto nelle vicende di Sigfrido, l’eroe invulnerabile
uccisore del drago Faffner custode di immensi tesori. Alla morte di Sigfrido,
Attila ne sposa la vedova Grimilde, e insieme a lei compie la vendetta
contro i traditori Gunter e Hagen.
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Papa Leone I ferma Attila
Raffaello, particolari dell’affresco della Stanza
di Eliodoro,
«Incontro di San Leone Magno con Attila»
Ad Attila successe
il figlio Csaba, in nulla somigliante al padre. Non portato alle conquiste
e alle devastazioni, era uno sciamano, un re taumaturgo che leggeva il
futuro e le stelle, e preparava rimedi portentosi. Nella tradizione germanico-slava
è tuttora conosciuto l’“impiastro di Csaba”, un unguento ricavato
dalle piante tipiche delle foreste e brughiere transilvane. Come ogni sciamano
che si rifaceva alla tradizione siberiana e centro-asiatica, Csaba era
in grado di arrampicarsi sull’“albero meraviglioso”, simbolo dell’albero
cosmico, sparendo alla vista degli astanti, secondo un antichissimo rituale
di ascensione che lo innalzava fino all’Akash, il cielo piú alto,
sede del Dio supremo.
Di una ben piú
sinistra immortalità ha goduto nell’immaginario popolare, balcanico
prima ed europeo poi, Vlad III Drakul, voivoda, ossia principe, di Transilvania,
soprannominato dai suoi conterranei “Tepes”, l’Impalatore. Suo padre, Vlad
II era stato insignito da re Stefano I dell’Ordine del Drago, una consorteria
semi-monastica creata per contrastare militarmente lo strapotere degli
Ottomani, che tentavano di invadere l’Europa cristiana da est. Drago in
magiaro si dice drakul, ed ecco spiegato l’epiteto conferito alla casata.
Il piccolo Vlad ebbe un’infanzia felice nel castello di Sighisoara, suo
luogo di nascita. Intorno al castello si estendeva la foresta selvaggia,
solenne, arcana. Vi danzavano elfi e silfidi, naiadi scivolavano nell’acqua
cristallina delle fonti e dei ruscelli. Poi c’erano le fate, dette zane
in lingua romena, nome derivato forse da Diana, dea dei boschi, della
caccia e delle sorgenti.
Ma questo universo
sognante doveva ben presto finire. Catturato adolescente dai Turchi, Vlad
imparò a sue spese la crudeltà e l’intrigo. I Turchi impalavano
i nemici vinti in battaglia e quando Vlad, liberato grazie a un riscatto,
ereditò il trono, li ripagò della stessa moneta. Tempi duri,
in cui la fede in Dio correva sul filo acuminato della spada. Voivodina,
Serbia, Romania, Bulgaria e Transilvania sono stati per secoli territori
posti a baluardo della terra cristiana contro lo sconfinato strapotere
islamico. Lo stesso Vlad Drakul, o Dracula, che una certa letteratura sensazionalistica
ci ha consegnato solo nei suoi aspetti cruenti, fu all’inizio uno strenuo
difensore della causa cristiana. Poi il suicidio dell’amata moglie, avvenuto
per un inganno, scatenò in lui la follia sanguinaria che ha alimentato
la sua fama di vampiro. Era comunque Vlad un predestinato, un’entità
fatale per la storia degli uomini e del loro rapporto con il soprannaturale.
Nel giorno della sua elezione al trono, gli astronomi videro nel cielo
una lunga scia luminosa che, solo dopo secoli, è stata identificata
come la cometa di Halley. Nel 1931 la tomba di Dracula, nella solitaria
cappella del monastero di Snagov, presso Bucarest, venne aperta. Vi si
trovò lo scheletro di un cavallo. L’assenza delle spoglie mortali
del principe fu un ulteriore suggello alla credenza popolare di una sua
permanenza nella dimensione sospesa tra la vita e la morte.
Stefano il Grande,
che succedette a Dracula, fondò i cinquanta monasteri della Bucovina
e molte chiese fortificate, piantando la croce di Cristo ovunque sul territorio
che, dopo la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, diventava
la Grande Muraglia, reale e immaginaria, preposta a separare il Sacro Romano
Impero dalla Sublime Porta.
Personaggi e
vicende di questa terra, dove male e bene si sono sempre contrapposti secondo
i princípi di un dualismo che finisce col cooperare alla realizzazione,
attraverso la sostanza mescolata, dell’Uomo Perfetto, quel “Gesú
Splendore” che prenderà il posto dell’Uomo Primordiale nel momento
finale in cui la Luce avrà trionfato per sempre sulle Tenebre, non
distruggendole bensí trasformandole per assimilazione.
Dopo la morte
di Mani nel 277, la diaspora dei Manichei aveva portato adepti in Estremo
Oriente, in Occidente e in Africa. In Tracia, poi divenuta Bulgaria nel
secolo VIII, si stabilí una forte comunità di seguaci della
“Religione della Luce”. Poi, intorno all’anno Mille, in seguito ad aspri
contrasti tra cristianesimo romano e bizantino, alle contese tra il potere
religioso e quello secolare e alle lotte tra i vari voivodi locali, nella
popolazione, sorse la necessità di ritrovare la purezza del dettato
evangelico, l’esaltazione di liturgie e devozioni non contaminate dalla
materialità e dalla degradazione morale. Il pope Bogomil ripropose
allora la dottrina di Mani e da lui originò il bogomilismo, ritenuto
una delle eresie piú pericolose sia dalla chiesa ortodossa sia da
quella romana. Fu altresí osteggiato dai vari Stati, che vedevano
nella rinascita del fervore religioso implicante anche aspetti del sociale,
una minaccia per i loro ordinamenti. La Transilvania conobbe, in quegli
anni, una riscoperta di antichi rituali, ideali e nuovi aneliti verso armonia
e purezza. In quella regione di boschi impenetrabili e oscuri, il Noûs,
lo Spirito vivente, alitò una forza nuova di redenzione, sparse
un seme che si diffuse in Europa. Anche Bernardo di Chiaravalle e Francesco
d’Assisi respirarono quell’aura, la stessa che il Cristo, incarnazione
del Noûs, aveva diffuso camminando e predicando per le strade
della Palestina.
Crocevia di
forze occulte, la Transilvania, come altri luoghi del mondo eletti al superamento
del naturale, divenne focolaio di energie misteriche antitetiche, che qui
conciliarono i loro princípi e poteri fondanti. Dopo secoli, tuttora
riecheggiano le parole di Mani: «Sulla terra nulla è puro
bene, nulla puro male, anzi in fondo al male vi è un bene occulto,
nel cupo delle tenebre vi sono scintille di luce».
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