L’Archetipo Anno IV n. 3, Gennaio 1999

SITI E MITI

 
BABELE E TITANIC
O dell’orgoglio


Ricostruzione di P. Kircher, incisione del 1679

Gli antichi la definivano "Terra tra i due fiumi", o anche "Fertile mezzaluna", persino "Porta del Cielo": è la Mesopotamia, che si estende dai monti del Tauro e del Kurdistan fino alle paludi dello Shatt-el-Arab. In un periodo remoto, il mare vi penetrava, formando una profonda ansa dalle rive sabbiose. Qui si insediarono i Sumeri in un’epoca non databile, provenienti da un luogo tuttora ignoto agli storici. Fondarono città come Ur, Lagash, Uruk, poi via via, risalendo le prodighe vene dei due grandi fiumi, il Tigri e l’Eufrate, ne costellarono le rive con altri insediamenti, tra cui Kish, Babilonia e, fin dove la corrente era navigabile, Mari e Ninive. Ebbero grandi re: Nemrod, Gilgamesh, Urnammu, Gudea e Hammurabi. A loro si devono gli Orti di Ninive, i giardini pensili di Babilonia – una delle meraviglie del mondo antico – il primo codice di leggi e l’epopea di Gilgamesh alla ricerca dell’immortalità. Nemrod, in bilico tra leggenda e realtà storica, viene ritenuto il costruttore della Torre di Babele, agli albori della civiltà sumera. Un monarca orgoglioso, "artefice di città e torri", tramandano i testi cuneiformi. La tradizione biblica afferma che innalzando torri si intendeva acquisire fama presso le genti e benevolenza dagli Dei, per cui piú alta era la torre piú vasta e duratura la gloria di chi la costruiva. E a Babilonia, che tra le città sumere era la piú splendida e ricca, in riva all’Eufrate, e dove tutto era colossale – anche la noria a spirale che traeva acqua dal fiume per irrigare i giardini pensili – nulla eguagliava in splendore e grandezza la torre. Questa svettava dal recinto templare dell’Esagila con i suoi sette gradoni sormontati dal sacello sacro, lo Shaharu ricoperto di elettro, preziose maioliche e lapislazzuli: qui ogni elemento era predisposto perché il re, che era anche il patesi, ossia il capo religioso, incontrasse la divinità.
Ci sono episodi, fenomeni e personaggi della storia umana che per la loro peculiarità ed eccezionalità travalicano l’occorrenza cronologica assurgendo ad archetipo esemplare, universale e atemporale, divenendo, piú che semplici fatti e figure transeunti, vere e proprie allegorie paradigmatiche cui si fa riferimento in forma permanente per stabilire paragoni, fissare somiglianze, misurare diversità e grado di unicità nei confronti di altre epoche e situazioni. Talvolta questi leggendari luoghi comuni della storia sono in qualche modo collegati tra loro mediante sottilissimi fili indistinguibili, talaltra lo sono per mezzo di vistose affinità. Ma che tali contatti siano frontali o trasversali, la similarità dichiarata o implicita, che si tratti di mimesi o trasparenza, alla fine ogni cosa converge verso due schieramenti basilari: quello che ammette la Divinità e quello che la nega.
Prendiamo due illustri esempi: la Torre di Babele, appunto, e il Titanic. Qual è il filo invisibile che collega queste due topiche eccellenti della storia umana? Sono tanto distanti tra loro nel tempo, tanto dissimili per aspetti e funzioni, eppure un certo quid accomuna la costruzione antica eretta dai Sumeri e la moderna struttura navale che la notte fra il 14 e il 15 aprile del 1912 affondò nell’Atlantico causando la morte di 1.513 persone, cosí da costituire lo stereotipo del disastro.
"Nomen omen", il nome è presagio, dicevano i latini, e il transatlantico portava nel suo il richiamo ai Titani della mitologia greca, i giganti che, essendosi ribellati alla divina potestà di Zeus, erano stati da questi sprofondati nell’Erebo. Manifestazione, la moderna come l’arcaica, di superbia umana nei confronti del divino: l’iperbolica nave e la freccia che il re Nemrod del racconto biblico scagliò verso l’alto dalla cima della vertiginosa torre di Babele, innalzata a dimostrazione della propria potenza e quale sfida agli Dei.
Diversi sono però gli atteggiamenti del sacrilegio. Mentre Nemrod, indirizzando il suo dardo contro il cielo, apertamente riconosceva l’esistenza di una divinità creatrice del mondo e degli uomini dalla quale egli mediante il suo gesto intendeva affrancarsi, l’ideatore della mastodontica nave, progettata per conto dell’armatrice Whitestar, aveva agito in ossequio a un ideale laico tecnologico che derivava per via diretta dai concetti e precetti illuministici di totale negazione del divino, giudicato in seguito dai materialisti ottocenteschi una favola edulcorante e soporifera per i popoli della Terra. Ogni prodotto che veniva realizzato partendo dall’abolizione del sacro, sostituito dalla dea Ragione, portava infatti il marchio dell’ateismo, anche se non dichiarato, come nel caso del Titanic. Nemrod, antropocentrico e superbo, è l’uomo che sfida il dio An, e tuttavia ne riconosce la potenza e l’immanenza, rivelandosi animatore di un antagonismo che sancisce l’esistenza della divinità sua avversaria. Il Titanic è figlio invece, oltre che del secolo dei Lumi, del positivismo e del conseguente nichilismo. In Umano, troppo umano di Nietsche (1876) troviamo parole lapidarie in proposito: «…ma se cade l’idea di Dio, cade anche il senso del peccato come infrazione alle prescrizioni divine, come macchia in una creatura consacrata a Dio. Allora resta probabilmente ancora quel disagio, molto aderente e affine alla paura del castigo della giustizia umana o del disprezzo degli uomini; il disagio dei rimorsi di coscienza, il pungolo piú acuminato del senso di colpa è comunque infranto quando ci si rende conto che con le proprie azioni si è contravvenuto a tradizioni, a canoni e ordinamenti umani, ma non si è compromessa l’"eterna salvezza dell’anima" e il suo rapporto con la divinità. Se infine l’uomo arriva anche ad acquisire la convinzione filosofica della incondizionata necessità e della totale irresponsabilità di tutte le azioni e ad assimilarla nella carne e nel sangue, sparisce anche quell’ultimo residuo di rimorsi». Ecco quindi ravvisata l’insidia latente nell’attuale negazione del divino, nell’obliterazione del concetto del sacro e del trascendente: viene sancita l’irresponsabilità morale, la rimozione del peccato e dell’espiazione, si celebra il trionfo dell’utilitarismo individuale e collettivo, sola pulsione capace di spingere avanti una civiltà totalmente secolarizzata e materializzata.
Da questa considerazione scaturiscono altre somiglianze tra lo smisurato edificio di Nemrod, "la scala per il cielo", l’Etemenanki sumera, e il famigerato transatlantico britannico. L’idea del nec ultra, del limite estremo che può raggiungere un prodotto umano esente da imperfezioni, che si fa beffe degli imprevisti e dei cedimenti tecnici, attivando in tal modo una legge karmica avversa.
E ancora altre identificazioni negative accomunano l’edificio sumerico e la nave britannica. Ambedue implicano la schiavitú: il primo per il gran numero di operai che furono costretti a lavorare sotto il sole cocente, impastando e assemblando con malta di bitume i milioni di mattoni necessari a gratificare l’orgoglio di Nemrod; il secondo perché trasportava nelle stive piú profonde centinaia di nuovi schiavi dal vecchio continente al nuovo, impegnato a realizzare il suo sogno di egemonia economica e industriale, progetto laico e ateo, i cui frutti ambigui e deleteri sono ormai sotto gli occhi del mondo. In entrambi i casi, si rileva la totale assenza di princípi etici, essendo la morale asservita al potere politico, dinastico, oligarchico e finanziario.
La Bibbia racconta che l’Eterno puní l’empietà di Nemrod fulminandolo all’istante e confondendo le lingue degli addetti ai lavori, attuando cioè una ritorsione in linea col concetto giustizialista che gli antichi avevano della divinità, cui spesso attribuivano vizi e difetti umani. Chi segue la via spirituale sa però che il Creatore si comporta da liberale nei confronti di creature insofferenti e riottose. Egli lascia che esse seguano la loro strada, che agiscano secondo il proprio arbitrio e giudizio, che sperimentino successi e fallimenti mettendo in gioco ogni loro forza e capacità di scelta, attivando autonomamente il proprio karma. All’uomo che lo chiede, esplicitamente o tacitamente, Egli toglie la Sua tutela, staccando dalla creatura volitiva e superba la Sua mano protettiva. Cosí mancano ai direttori dei lavori i cliché archetipici per una costruzione armoniosa e stabile, la torre vacilla, le sabbie del deserto la ghermiscono, finché non arrivano i re distruttori Sennacherib e Serse a cancellarla dalla topografia della storia. E per lo stesso motivo non intervengono gli Angeli a impedire l’impatto con il fatale iceberg, o almeno a ridurne la tragicità, facendo svegliare l’operatore radio che in quella notte di aprile del 1912, a bordo della nave Californian, per la troppa fatica si era addormentato e non poté captare la richiesta di aiuto lanciata dal Titanic, distante meno di 20 miglia. Da molto piú lontano, ma ormai troppo tardi per salvare tutti i superstiti, giunse il Carpatia.
Ineguagliabile torre, inaffondabile naviglio. L’uomo, lasciato solo, cade vittima della sua presunzione, e i sogni della sua ragione producono catastrofi, quando non vengono sublimati dalla luce della trascendenza.
Cosa resta oggi di queste due testimonianze del primigenio e mai superato peccato umano d’orgoglio? Della torre, un fazzoletto di terra battuta riquadrato da un maleodorante canale di scolo, 90 chilometri a sud di Baghdad; del Titanic, un relitto nelle abissali profondità dei Banchi di Terranova: resuscitato dagli amarcord cinematografici, ripropone immagini spettrali, agghiaccianti rievocazioni di feroci egoismi, vanità e cinismi.
Ma forse ogni fenomeno della vicenda umana va letto in chiave virtuale e non reale. Forse sia la torre di Babele sia il titanico vascello, protagonisti di due tra i piú clamorosi fallimenti tecnici di ogni tempo, valgono come segnali dell’anelito umano a emulare la divinità creatrice, anzi a identificarsi con essa, ad assimilarsi alla Sua sostanza perfetta e immortale. Essere Dei, poter durare per sempre, in una vibrante essenza inestinguibile. Ma da Adamo ed Eva in poi scegliamo sempre la via suggerita dal Tentatore: quella del prodigio ottenuto con l’effimera disponibilità e complicità della materia che, come la nota pentola del diavolo, manca sempre dei suoi coperchi e non paga in termini di realizzazioni affidabili e durevoli, sia morali sia materiali.
O forse ancora – ipotesi questa di estrema speranza – torre di Babele e Titanic sono anche la prova di una mai sopita memoria di permanenze edeniche e ancor piú di una mai del tutto dismessa aspettativa di recupero dell’Amore infinito del Padre. Una versione della Genesi ricavata dalle tavolette di argilla mesopotamiche rivela che sulla vetta delle Ziqqurat sumeriche, e tale era la torre di Babilonia, gli uomini incontravano gli Dei. Un giorno però questi, stanchi dell’umanità, si ritirarono nel piú alto cielo di An. La freccia di Nemrod fu forse quindi l’atto di un orfano frustrato dalla privazione del rapporto con il divino. Rapporto che, sul Titanic ormai prossimo a inabissarsi, quelli che non avevano voluto o non erano riusciti ad abbandonare la nave tentarono di ristabilire intonando l’inno «Closer my Lord to Thee», piú vicini a Te, Signore!

Ovidio Tufelli

 

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