Forse è un luogo
comune, ma poeti possono essere tutti quelli che riescono a trovare la
voce e le parole per dare forma a ciò che, vivendo nel loro tempo,
nell’animo di tutti gli esseri umani, non riesce a trovare lo spazio per
la sua espressione. Troppa è la concretezza degli affari del giorno,
troppo il peso che fingiamo spudoratamente di sopportare, troppo occupati
a proteggere i confini del nostro “stato’’, troppo leggero il silenzio,
che pure cerchiamo sempre, quando l’angoscia o la depressione ci fa sentire
prigionieri nei nostri stessi confini. E i confini sono in realtà
muraglie che ci avvolgono, fatte solo di rumore assordante, il nostro,
un rumore che teme il silenzio, perché teme l’invasione di eserciti
nemici. Perciò, per paura di sentirci deboli e fragili, cerchiamo
sempre di gridare più forte, scambiando il rumore con la forza..
È poeta chi sa pagare il prezzo del silenzio, senza il quale non
si può ascoltare ciò che veramente è vivo negli altri
e nel mondo, e per amore, solo per amore della vita, ripeterlo, ripeterlo
instancabilmente. Ma il prezzo è alto, insostenibile per molti,
poiché la moneta con cui si paga è la “debolezza”. Una moneta
che nessuno Stato è disposto a coniare. Il poeta guarda, ma soprattutto
si osserva. Dolorosa, al suo sguardo silenzioso e nascosto, è la
condizione di quella parte di se stesso che ha bisogno di reagire per sentirsi
esistente. Ed è sempre dura e di freddo metallo questa zona di confine,
stridente, quando cozza con quella degli altri. Anche quando il vestito
esteriore è elegante e di buona fattura, anche quando si è
educati alla buona educazione e alla signorilità, per poco che venga
messo in discussione quello che si crede di essere (“immagine di noi
alla quale siamo avvinghiati, come il naufrago all’ultimo pezzo di legno
della nave distrutta”), un automatismo scatta dentro di noi e al nostro
posto agisce, ferendo per non sentirsi ferito. Per molto tempo, a volte
non basta una vita, il poeta si esercita, abituandosi a lasciarsi ferire,
facendo dell’automedicazione una consuetudine. E finalmente scopre che
il “porgere l’altra guancia” non ha a che fare con la pietà o il
perdono, poiché non c’è niente che debba essere perdonato,
a nessuno. Al contrario, impara la gratitudine verso chi, obbligandolo
a questo gesto interiore, gli fornisce il pretesto e la sostanza per lavorare
su se stesso, misurandosi con il vero nemico, quello che gli impedisce
di vedersi per quello che realmente è. Un nemico invisibile, solo
perché in tutto aderente, come il bozzolo rigido intorno al baco
da seta.
Ma ogni poeta avverte segretamente una farfalla agitare le sue ali in quel
verme sepolto nel buio e ogni vera poesia, come ogni opera d’arte, è
un colpo d’ariete, disperato o gioioso, sempre anelante la Luce. Tra la
vita e la forma egli sceglie la vita, ma conserva la forma come un bene
prezioso, come l’abito buono delle grandi occasioni, da indossare ogni
giorno sulla scena grandiosa del mondo, imparando la parte dell’Uomo.
Piú che una lettera, un proclama, volto
a destare il poeta che è in ognuno di noi. Un invito a una piú
ampia e intima comprensione della vita che ci circonda e di quella che
giace, inesplorata, nella nostra interiorità: due realtà
pronte ogni attimo ad essere avvivate dal nostro lavoro spirituale. E sappiamo
che proprio attraverso la Scienza dello Spirito tutta l’arte, che di poesia
vive, si anima di una nuova luce e di un nuovo linguaggio.
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