Nel vasto e vario universo botanico, il biancospino passerebbe quasi
inosservato, se non fosse per il ruolo di araldo stagionale che svolge.
Esso raggiunge, nel migliore dei casi, le dimensioni di un alberello, ma
nella norma si tiene alla categoria degli arbusti, non molto dissimile
dai rovi di cui è un lontano parente. Si riscatta però allorquando
la sua caratteristica virtú diacronica entra in funzione e le sue
foglie dentellate e i suoi aculei si punteggiano di fiorellini bianchi
odorosi, raccolti in corimbi prima radi, poi piú fitti con il passare
dei giorni. È il segnale della primavera, e quelle delicate infiorescenze
ne annunciano la venuta.
Per questa sua proprietà i Greci antichi collegavano il biancospino
a Demetra, Dea della terra e della vegetazione, e a sua figlia Persefone,
entrambe celebrate nei riti dei Misteri Eleusini. La fioritura dell’arbusto
sacro annunciava il ritorno di Persefone Core dagli Inferi, dove regnava
con Ades, Plutone. Riabbracciando l’amata figlia, che avrebbe trascorso
con lei i sei mesi accordati loro da Giove, Demetra esultava di gioia e
per questo tutta la natura rifioriva, riprendeva vita e colori.
Il biancospino presso i Greci rappresentava anche l’amore sacro e quello
nuziale. Intorno a templi di Venere veniva largamente coltivato, e ramoscelli
fioriti venivano posti sull’altare di Imene, divinità invocata a
tutela della fecondità della coppia. Inoltre un rametto dell’arbusto,
messo di traverso alla soglia, garantiva agli sposi immunità dai
malefíci.
Sull’esempio dei Greci, i Romani consacrarono il biancospino alla Dea
Maia, o Bona Dea, piú tardi identificata con Cerere, divinità
della fertilità dei campi. Data l’origine selvatica e spinosa dell’arbusto,
il biancospino era anche dedicato a Càrdea, protettrice dei cardini
delle porte e quindi capace di tutelare la fortuna e la felicità
della casa, tenendone lontani i cattivi influssi.
Druidi e Celti attribuivano al biancospino virtú apotropaiche
e magiche. Un giuramento scambiato al riparo della pianta recava il carisma
della sacralità e della protezione di forze cosmiche positive.
Piú tardi anche la tradizione cristiana, ricollegandosi a quella
mitico-misterica del mondo pagano, ha voluto includere il biancospino tra
gli elementi che hanno testimoniato nel tempo l’immanenza del divino nelle
vicende umane attraverso episodi e fenomeni portentosi. La leggenda vuole
che la pianta, tipica dei luoghi aridi, producesse soltanto spine acuminate
e bacche dure e legnose. Per questa sua asprezza e ostilità le siepi
di biancospino servivano infatti a recintare gli stazzi del bestiame e
a demarcare i confini di proprietà, risultando impenetrabili agli
intrusi. Quando però i rami del biancospino, durante la Passione,
vennero adoperati per ricavare la corona di spine che cinse la testa di
Gesú, i suoi fiori si illuminarono di una nivea luce sfolgorante,
e gli stami e le bacche si tinsero di un rosso vivo, fissando nella memoria
genetica della pianta i colori del martirio del Redentore.
Ed
è ancora il biancospino a nutrire la leggenda misterica legata alla
figura del Cristo: Giuseppe d’Arimatea, uno dei membri del Sinedrio, che
si era rifiutato di condannare il Nazareno riconoscendo in Lui il Messia
annunciato dalle Scritture, aveva raccolto il sangue del Salvatore nella
coppa dell’Ultima Cena. Col prezioso fardello, aveva lasciato la Palestina
insieme ad altri fedelissimi. Al termine di un lungo peregrinare per terra
e per mare, dopo una sosta nella Francia meridionale, il drappello era
sbarcato sulla costa del Somerset in Inghilterra. Qui Giuseppe aveva iniziato
a predicare alla popolazione locale il messaggio evangelico, ma gli abitanti,
dediti ai culti e ai riti del druidismo celtico, si dimostrarono restii
ad accogliere una dottrina importata da un paese cosí lontano e
diffusa per bocca di persone tanto diverse. Una mattina di Natale, mentre
Giuseppe si sforzava per l’ennesima volta di condurre gli animi di quella
gente verso il Cristo, il suo bastone, ricavato da un tronco di biancospino
e portato con sé dalla Terra Santa, prese miracolosamente a fiorire.
Quel prodigio sciolse dubbi e diffidenze nei Celti, che si convertirono
in massa al cristianesimo. Da quel giorno il biancospino, diventato un
folto cespuglio, è fiorito per secoli ad ogni Natale, e un ramo
tempestato di quelle candide trine odorose viene regalato in quell’occasione
ai reali inglesi quale auspicio per il nuovo anno. Sulla collina di Weary,
non lontano da Bristol e da Glastonbury, la Avalon di arturiana memoria
e santuario dei Celti (vedi «L’archetipo» n. 11, Settembre
1998), tuttora svetta il tenace alberello di biancospino, sfidando vento
e intemperie e nonostante il tentativo di sradicarlo fatto dai puritani
di Cromwell nel 1649.
Anche in Italia si avvera un prodigio che ha per protagonista il biancospino.
Accade ogni anno a Gualdo Tadino, in Umbria, intorno alla metà di
gennaio. Contravvenendo al sincronismo stagionale della sua specie, e anticipando
di due mesi la fioritura di marzo, il biancospino di Gualdo mette fiori,
perpetuando quanto fecero per la prima volta i suoi antenati nel lontano
15 gennaio del 1324. Quel giorno vi fu la traslazione di frate Angelo,
morto in odore di santità in un convento poco fuori le mura, dal
cenobio alla cattedrale in città. Narra la tradizione, confortata
da provati riscontri storici, che tutti gli arbusti di biancospino che
crescevano ai lati della strada percorsa dal corteo funebre, miracolosamente
fiorirono. Da allora puntualmente, nonostante la brina e il gelo invernale,
con l’approssimarsi della festa di quell’umile frate, ora Beato, le piante
si ricoprono di bianchi petali odorosi. Candore e profumo che vogliono
ribadire, con la loro acerba e verginale purezza, la potenza di Dio e la
capacità che hanno gli uomini di sublimarsi. Gli abitanti di Gualdo
celebrano quel prodigio e quella testimonianza di santità con riti
religiosi e civili, culminanti in una suggestiva fiaccolata notturna.
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