L’Archetipo Anno IV n. 5, Marzo 1999

BOTANIMA

Il biancospino

Nel vasto e vario universo botanico, il biancospino passerebbe quasi inosservato, se non fosse per il ruolo di araldo stagionale che svolge. Esso raggiunge, nel migliore dei casi, le dimensioni di un alberello, ma nella norma si tiene alla categoria degli arbusti, non molto dissimile dai rovi di cui è un lontano parente. Si riscatta però allorquando la sua caratteristica virtú diacronica entra in funzione e le sue foglie dentellate e i suoi aculei si punteggiano di fiorellini bianchi odorosi, raccolti in corimbi prima radi, poi piú fitti con il passare dei giorni. È il segnale della primavera, e quelle delicate infiorescenze ne annunciano la venuta.
Per questa sua proprietà i Greci antichi collegavano il biancospino a Demetra, Dea della terra e della vegetazione, e a sua figlia Persefone, entrambe celebrate nei riti dei Misteri Eleusini. La fioritura dell’arbusto sacro annunciava il ritorno di Persefone Core dagli Inferi, dove regnava con Ades, Plutone. Riabbracciando l’amata figlia, che avrebbe trascorso con lei i sei mesi accordati loro da Giove, Demetra esultava di gioia e per questo tutta la natura rifioriva, riprendeva vita e colori.
Il biancospino presso i Greci rappresentava anche l’amore sacro e quello nuziale. Intorno a templi di Venere veniva largamente coltivato, e ramoscelli fioriti venivano posti sull’altare di Imene, divinità invocata a tutela della fecondità della coppia. Inoltre un rametto dell’arbusto, messo di traverso alla soglia, garantiva agli sposi immunità dai malefíci.
Sull’esempio dei Greci, i Romani consacrarono il biancospino alla Dea Maia, o Bona Dea, piú tardi identificata con Cerere, divinità della fertilità dei campi. Data l’origine selvatica e spinosa dell’arbusto, il biancospino era anche dedicato a Càrdea, protettrice dei cardini delle porte e quindi capace di tutelare la fortuna e la felicità della casa, tenendone lontani i cattivi influssi.
Druidi e Celti attribuivano al biancospino virtú apotropaiche e magiche. Un giuramento scambiato al riparo della pianta recava il carisma della sacralità e della protezione di forze cosmiche positive.
Piú tardi anche la tradizione cristiana, ricollegandosi a quella mitico-misterica del mondo pagano, ha voluto includere il biancospino tra gli elementi che hanno testimoniato nel tempo l’immanenza del divino nelle vicende umane attraverso episodi e fenomeni portentosi. La leggenda vuole che la pianta, tipica dei luoghi aridi, producesse soltanto spine acuminate e bacche dure e legnose. Per questa sua asprezza e ostilità le siepi di biancospino servivano infatti a recintare gli stazzi del bestiame e a demarcare i confini di proprietà, risultando impenetrabili agli intrusi. Quando però i rami del biancospino, durante la Passione, vennero adoperati per ricavare la corona di spine che cinse la testa di Gesú, i suoi fiori si illuminarono di una nivea luce sfolgorante, e gli stami e le bacche si tinsero di un rosso vivo, fissando nella memoria genetica della pianta i colori del martirio del Redentore.
Ed è ancora il biancospino a nutrire la leggenda misterica legata alla figura del Cristo: Giuseppe d’Arimatea, uno dei membri del Sinedrio, che si era rifiutato di condannare il Nazareno riconoscendo in Lui il Messia annunciato dalle Scritture, aveva raccolto il sangue del Salvatore nella coppa dell’Ultima Cena. Col prezioso fardello, aveva lasciato la Palestina insieme ad altri fedelissimi. Al termine di un lungo peregrinare per terra e per mare, dopo una sosta nella Francia meridionale, il drappello era sbarcato sulla costa del Somerset in Inghilterra. Qui Giuseppe aveva iniziato a predicare alla popolazione locale il messaggio evangelico, ma gli abitanti, dediti ai culti e ai riti del druidismo celtico, si dimostrarono restii ad accogliere una dottrina importata da un paese cosí lontano e diffusa per bocca di persone tanto diverse. Una mattina di Natale, mentre Giuseppe si sforzava per l’ennesima volta di condurre gli animi di quella gente verso il Cristo, il suo bastone, ricavato da un tronco di biancospino e portato con sé dalla Terra Santa, prese miracolosamente a fiorire. Quel prodigio sciolse dubbi e diffidenze nei Celti, che si convertirono in massa al cristianesimo. Da quel giorno il biancospino, diventato un folto cespuglio, è fiorito per secoli ad ogni Natale, e un ramo tempestato di quelle candide trine odorose viene regalato in quell’occasione ai reali inglesi quale auspicio per il nuovo anno. Sulla collina di Weary, non lontano da Bristol e da Glastonbury, la Avalon di arturiana memoria e santuario dei Celti (vedi «L’archetipo» n. 11, Settembre 1998), tuttora svetta il tenace alberello di biancospino, sfidando vento e intemperie e nonostante il tentativo di sradicarlo fatto dai puritani di Cromwell nel 1649.
Anche in Italia si avvera un prodigio che ha per protagonista il biancospino. Accade ogni anno a Gualdo Tadino, in Umbria, intorno alla metà di gennaio. Contravvenendo al sincronismo stagionale della sua specie, e anticipando di due mesi la fioritura di marzo, il biancospino di Gualdo mette fiori, perpetuando quanto fecero per la prima volta i suoi antenati nel lontano 15 gennaio del 1324. Quel giorno vi fu la traslazione di frate Angelo, morto in odore di santità in un convento poco fuori le mura, dal cenobio alla cattedrale in città. Narra la tradizione, confortata da provati riscontri storici, che tutti gli arbusti di biancospino che crescevano ai lati della strada percorsa dal corteo funebre, miracolosamente fiorirono. Da allora puntualmente, nonostante la brina e il gelo invernale, con l’approssimarsi della festa di quell’umile frate, ora Beato, le piante si ricoprono di bianchi petali odorosi. Candore e profumo che vogliono ribadire, con la loro acerba e verginale purezza, la potenza di Dio e la capacità che hanno gli uomini di sublimarsi. Gli abitanti di Gualdo celebrano quel prodigio e quella testimonianza di santità con riti religiosi e civili, culminanti in una suggestiva fiaccolata notturna.

Ovidio Tufelli


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