Mai cosí bianco il dittamo
è fiorito
sulle balze dell’Ida, immacolato
umore verginale, dai suoi petali
dolce rimedio arcano ad ogni pena.
Nel tenebrore, al fondo del mio covo,
so che germoglia, sento rinvenire,
con la linfa divina che lo nutre,
tutte le primavere non vissute.
Qui, crudeltà mortale nel silenzio
di un antro inestricabile, il mio mondo.
Lo separa dagli uomini l’intrico
di un labirinto: progettato fu
per nascondere me, gene deforme,
abortita sostanza o per celare
l’uomo a se stesso, il dedalo prigione,
per impedirgli forse di raggiungermi
e rispecchiarsi nel mio orrore, ambiguo
doppio rimosso e rinnegato, ma
risparmiato, difeso, foraggiato
con l’offerta di vittime fanciulle.
Ossessioni alimenta, inconfessata
natura antropofagica, e il rimorso
d’aver creato mostri dal suo cuore,
l’umana creatura. Qui mi vogliono,
bestia e ricordo, monito e vendetta.
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Ma verrà lei quest’anno,
l’innocente
Arianna, destinata a liberarmi,
insieme al suo Teseo, l’incauto eroe
salvato dall’astuzia di un esiguo
filo di refe. Amore già tradito
le brucia in petto, ma verrà, lo sento,
ispirata e fatale, inarrestabile.
Ascolto i passi dei suoi lievi piedi,
l’ansito di Teseo, la frenesia
che guida la sua anima di prode
votato ad ogni impresa, ma incapace
della pietà cui tutto si rivela
trascendendo la forma e la materia.
Nel suo furore colpirà il mio corpo.
Pure, non morirò per mano sua,
bestiale quanto e piú della sua vittima,
ché sangue chiama sangue e riproduce
mostro da mostro in un perpetuo ciclo.
Mi ucciderà, me consenziente e lieto,
la purezza di lei, quando il suo sguardo
fissandosi nel mio penetrerà
la mia brutale essenza, sublimandola.
E accosterà il suo viso al mio sereno,
nel morente respiro il suo respiro,
soave come il dittamo dell’Ida.
E sarà
mia anche la primavera.
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