Simbolo
del passaggio da una dimensione reale a un’altra, da una materiale a una
metafisica, possibilità di superare abissi veri e immaginari, guadare
fiumi tumultuosi nella contingenza geografica o infernali nel dominio escatologico,
ausilio alle anime nel transito dal mondo terreno all’aldilà, il
ponte costituisce da sempre una dominante nelle mitologie e teologie dei
popoli.
Nell’antica
Roma, quando si accingevano a costruire un ponte, in specie sul Tevere,
il Pontifex Maximus celebrava un sacrificio imponente al quale assisteva
tutta la comunità. Durante il rito, le vestali gettavano nella corrente
bamboline di giunco.
Per
gli Aztechi l’arcobaleno rappresentava un ponte celeste, cosí come
quell’arco iridescente ristabilí il rapporto tra il Creatore e Noè
salvato dal diluvio, attraverso un patto simbiotico tra l’uomo e il divino
non piú distanti, separati dai ruoli e dalle essenze, ma cooperanti
all’Opera del mondo. Un ponte è anche il percorso sidereo della
Via Lattea presso gli islamici, mezzo di collegamento tra la terra e il
paradiso delle Urí, affilato come il taglio di una spada, da percorrere
con devozione, zelo e discipline rigorose. L’esiguità di un capello
ha anche il ponte che, presso i seguaci di Zoroastro, unisce cielo e terra.
La
tradizione vedico-induista ci parla di un ponte fatale nel Ramayana, il
grande poema epico che narra le imprese di Rama, settimo avatar di Vishnu,
per liberare la sua amata Sita catturata dal re dei dèmoni Ravana.
Costui, dotato di dieci teste e venti braccia, regnava sull’isola di Lanka,
la Ceylon dell’epoca coloniale, poi ribattezzata Sri Lanka dopo l’indipendenza
dalla corona britannica.
Leggendaria città-fortezza, Lanka era stata ideata dall’architetto
Visvakarma per il dio della ricchezza Kubera. Costruita interamente in
oro, era circondata da sette cerchie di mura formate da metallo e pietra.
Qui l’arcidèmone Ravana, invincibile da Dei e uomini, rinchiuse
Sita nel suo gineceo. Per liberarla Rama si alleò con il re delle
scimmie Sugriva e con il suo consigliere, il generale Hanuman. Armato un
esercito di scimmie, essi mossero dal continente indiano verso l’isola
stregata. Arrivati alla punta estrema della penisola dovettero superare
il mare, impresa che sembrava impossibile, date le correnti e le insidie
dei mostri al servizio di Ravana che popolavano quelle acque. Le scimmie,
guidate dal loro mago-architetto Nala, riuscirono a costruire un ponte
verso l’isola utilizzando isolotti galleggianti uniti uno all’altro, i
cui resti tuttora affiorano dal mare: le carte geografiche li segnalano
col nome di Nala-setu. Fu quindi per mezzo di quell’incredibile ponte che
l’esercito di Sugriva, alleato di Rama, varcò lo stretto e raggiunse
Lanka, dove Ravana e i suoi rakshasa furono annientati e la bella Sita
venne finalmente liberata.
Nello
shintoismo giapponese lo shinkyô, il ponte sacro, rappresentava
il collegamento tra il mondo terreno e quello divino, cosí come
nel giardino Zen il ponte costituiva l’elemento di raccordo con la dimensione
eterica: il maestro che vi transitava, spariva alla vista del discepolo
prima di giungere all’altra sponda.
Allo
stesso modo, nel giorno del giudizio, secondo una concezione medioevale,
su un ponte sorvegliato da angeli transiteranno le anime dirette alla salvazione
o alla dannazione finali.
Nell’escatologia
iranica il ponte Cinvat conduce al Monte della Salvezza. Regge il peso
delle anime buone e illuminate dalla grazia, mentre cede sotto il peso
di quello gravate dai peccati e dai tormenti delle passioni irrisolte.
In
quest’ambito allegorico si colloca, nella tradizione letteraria piú
recente, il ponte di giunchi e assi di legno, costruito dagli Incas nel
XVI secolo per far superare alla strada maestra che collegava Lima a Cuzco
l’abisso aperto a strapiombo su un fiume impetuoso. Il 20 luglio 1714,
a mezzogiorno, l’antico ponte si spezzò, facendo precipitare nel
vuoto le cinque persone che in quel momento lo stavano attraversando. Il
romanziere americano Thornton Wilder (1897-1975), con il suo libro Il
ponte di San Luis Rey, imbastisce sull’accaduto una trama di fantasia,
speculando sui destini coincidenti delle cinque vittime del disastro. I
fili della loro esistenza s’intersecano, corrono paralleli, fino ad annodarsi
in quell’ultimo episodio che li accomuna. I cinque personaggi avviati a
incontrare il proprio destino su quell’esile ponte, portano dentro di sé
dolori, dubbi, rimorsi, rimpianti. Tutti si allontanano da una vita che
li ha delusi e traditi. In realtà corrono quasi consenzienti alla
rovina estrema, animati da un sentimento di cupio dissolvi, e nulla
fanno per salvarsi. La fatalità rappresenta una via di fuga e una
catarsi per le loro anime.
Il
traguardo dell’uomo non è certo il ponte di San Luis Rey. Il cammino
spirituale che egli deve percorrere conduce al Mont Salvat della tradizione
catara. Vi giungerà quando avrà finalmente trasformato la
materia in luce, il male in bene, e sarà creatura angelica egli
stesso. Ma prima di arrivare alla meta dovrà guadare fiumi tumultuosi,
superare ponti sottili quanto un capello, e la Tentazione gli tenderà
agguati, appronterà seduzioni e inganni, farà di tutto per
farlo precipitare nel baratro della perdizione. Per evitare ciò
l’uomo dovrà farsi leggero, sublimando la propria sostanza fisica
e animica, trasformando il fuoco distruttivo delle passioni in forza propulsiva
ascendente. Egli passerà cosí il “Ponte Periglioso” che scavalca
il fiume della non conoscenza, vincerà la morte e la sua essenza
purificata verrà assimilata a quella divina. Secondo la promessa
fattagli dal Cristo mentre era uomo tra gli uomini.
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