L’Archetipo Anno IV n. 11, Settembre 1999

MITI

 

Simbolo del passaggio da una dimensione reale a un’altra, da una materiale a una metafisica, possibilità di superare abissi veri e immaginari, guadare fiumi tumultuosi nella contingenza geografica o infernali nel dominio escatologico, ausilio alle anime nel transito dal mondo terreno all’aldilà, il ponte costituisce da sempre una dominante nelle mitologie e teologie dei popoli.
Nell’antica Roma, quando si accingevano a costruire un ponte, in specie sul Tevere, il Pontifex Maximus celebrava un sacrificio imponente al quale assisteva tutta la comunità. Durante il rito, le vestali gettavano nella corrente bamboline di giunco.
Per gli Aztechi l’arcobaleno rappresentava un ponte celeste, cosí come quell’arco iridescente ristabilí il rapporto tra il Creatore e Noè salvato dal diluvio, attraverso un patto simbiotico tra l’uomo e il divino non piú distanti, separati dai ruoli e dalle essenze, ma cooperanti all’Opera del mondo. Un ponte è anche il percorso sidereo della Via Lattea presso gli islamici, mezzo di collegamento tra la terra e il paradiso delle Urí, affilato come il taglio di una spada, da percorrere con devozione, zelo e discipline rigorose. L’esiguità di un capello ha anche il ponte che, presso i seguaci di Zoroastro, unisce cielo e terra.
La tradizione vedico-induista ci parla di un ponte fatale nel Ramayana, il grande poema epico che narra le imprese di Rama, settimo avatar di Vishnu, per liberare la sua amata Sita catturata dal re dei dèmoni Ravana. Costui, dotato di dieci teste e venti braccia, regnava sull’isola di Lanka, la Ceylon dell’epoca coloniale, poi ribattezzata Sri Lanka dopo l’indipendenza dalla corona britannica. Leggendaria città-fortezza, Lanka era stata ideata dall’architetto Visvakarma per il dio della ricchezza Kubera. Costruita interamente in oro, era circondata da sette cerchie di mura formate da metallo e pietra. Qui l’arcidèmone Ravana, invincibile da Dei e uomini, rinchiuse Sita nel suo gineceo. Per liberarla Rama si alleò con il re delle scimmie Sugriva e con il suo consigliere, il generale Hanuman. Armato un esercito di scimmie, essi mossero dal continente indiano verso l’isola stregata. Arrivati alla punta estrema della penisola dovettero superare il mare, impresa che sembrava impossibile, date le correnti e le insidie dei mostri al servizio di Ravana che popolavano quelle acque. Le scimmie, guidate dal loro mago-architetto Nala, riuscirono a costruire un ponte verso l’isola utilizzando isolotti galleggianti uniti uno all’altro, i cui resti tuttora affiorano dal mare: le carte geografiche li segnalano col nome di Nala-setu. Fu quindi per mezzo di quell’incredibile ponte che l’esercito di Sugriva, alleato di Rama, varcò lo stretto e raggiunse Lanka, dove Ravana e i suoi rakshasa furono annientati e la bella Sita venne finalmente liberata.
Nello shintoismo giapponese lo shinkyô, il ponte sacro, rappresentava il collegamento tra il mondo terreno e quello divino, cosí come nel giardino Zen il ponte costituiva l’elemento di raccordo con la dimensione eterica: il maestro che vi transitava, spariva alla vista del discepolo prima di giungere all’altra sponda.
Allo stesso modo, nel giorno del giudizio, secondo una concezione medioevale, su un ponte sorvegliato da angeli transiteranno le anime dirette alla salvazione o alla dannazione finali.
Nell’escatologia iranica il ponte Cinvat conduce al Monte della Salvezza. Regge il peso delle anime buone e illuminate dalla grazia, mentre cede sotto il peso di quello gravate dai peccati e dai tormenti delle passioni irrisolte.
In quest’ambito allegorico si colloca, nella tradizione letteraria piú recente, il ponte di giunchi e assi di legno, costruito dagli Incas nel XVI secolo per far superare alla strada maestra che collegava Lima a Cuzco l’abisso aperto a strapiombo su un fiume impetuoso. Il 20 luglio 1714, a mezzogiorno, l’antico ponte si spezzò, facendo precipitare nel vuoto le cinque persone che in quel momento lo stavano attraversando. Il romanziere americano Thornton Wilder (1897-1975), con il suo libro Il ponte di San Luis Rey, imbastisce sull’accaduto una trama di fantasia, speculando sui destini coincidenti delle cinque vittime del disastro. I fili della loro esistenza s’intersecano, corrono paralleli, fino ad annodarsi in quell’ultimo episodio che li accomuna. I cinque personaggi avviati a incontrare il proprio destino su quell’esile ponte, portano dentro di sé dolori, dubbi, rimorsi, rimpianti. Tutti si allontanano da una vita che li ha delusi e traditi. In realtà corrono quasi consenzienti alla rovina estrema, animati da un sentimento di cupio dissolvi, e nulla fanno per salvarsi. La fatalità rappresenta una via di fuga e una catarsi per le loro anime.
Il traguardo dell’uomo non è certo il ponte di San Luis Rey. Il cammino spirituale che egli deve percorrere conduce al Mont Salvat della tradizione catara. Vi giungerà quando avrà finalmente trasformato la materia in luce, il male in bene, e sarà creatura angelica egli stesso. Ma prima di arrivare alla meta dovrà guadare fiumi tumultuosi, superare ponti sottili quanto un capello, e la Tentazione gli tenderà agguati, appronterà seduzioni e inganni, farà di tutto per farlo precipitare nel baratro della perdizione. Per evitare ciò l’uomo dovrà farsi leggero, sublimando la propria sostanza fisica e animica, trasformando il fuoco distruttivo delle passioni in forza propulsiva ascendente. Egli passerà cosí il “Ponte Periglioso” che scavalca il fiume della non conoscenza, vincerà la morte e la sua essenza purificata verrà assimilata a quella divina. Secondo la promessa fattagli dal Cristo mentre era uomo tra gli uomini.

Ovidio Tufelli

 
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