Sessantasei anni fa, all’alba del 17 settembre 1921, cadeva fucilato
a Novonikolajevsk, secondo altri a Verkhne-Udinsk, presso il confine mongolo,
il comandante della divisione asiatica di cavalleria, barone Román
Fiodórovic von Ungern-Sternberg, ultimo difensore della Mongolia
“esterna” indipendente e della Siberia “bianca”. Con la morte del “Barone
pazzo” nulla piú si opponeva al dilagare dell’esercito bolscevico
di Blücher nell’Estremo Oriente siberiano e la fase guerreggiata della
Rivoluzione si concludeva.
L’effimera meteora del Barone e le disperate imprese della sua divisione
non ebbero, in fondo, un effetto determinante su quest’ultimo scorcio della
Guerra Civile, specialmente dopo il crollo dell’esercito bianco di Kolcak
che, battuto il 14 novembre 1919 ad Omsk, aveva praticamente cessato di
esistere. Invece, l’importanza del barone Ungern e del suo variopinto esercito,
formato da Cosacchi della Trans-baikalia, da Buriati, Mongoli, volontari
Tibetani e Guardie Bianche di ogni provenienza, era soprattutto di natura
spirituale. Il Barone, religiosamente affiliato ad una corrente tantrica
facente capo allo Hutuktu di Ta-Kuré e suo braccio militare durante
l’anno in cui fu padrone della Mongolia esterna, aveva sin dal principio,
cioè sin dalla conferenza panmongola di Cita del 25 febbraio 1919,
dichiarato la sua intenzione di ristabilire la teocrazia lamaista nel cuore
dell’Asia, «affinché da lí partisse la vasta liberazione
del mondo». La controrivoluzione era per lui solo un pretesto per
evocare sul piano terreno una gerarchia già attuata su quello invisibile.
Questa gerarchia doveva proiettarsi su un mandala, un mesocosmo
simbolico, il cui centro sarebbe stata la “Grande Mongolia”, comprendente,
oltre alle sue due parti geografiche, l’immenso spazio che dal Baikal giunge
allo Hsin-Kiang e al Tibet. Ivi, pensava, si sarebbe attuata la rigenerazione
del mondo sotto il segno del Sovrano dell’agarttha (“inafferrabile”)
Sambhala, la “Terra degli Iniziati”, ove Zla-ba Bzan-po e i suoi
24 successivi eredi perpetuavano il segreto insegnamento del Kalacakra,
la “Ruota del Tempo”, loro impartito dal Risvegliato 2500 anni fa.
2500 anni è esattamente la metà del ciclo di 5000 che,
secondo la tradizione, separa l’apparizione dell’ultimo Buddha terrestre,
Gautama Sakyamuni, dall’avvento del successivo Maitreya, figura probabilmente
mutuata dallo zoroastriano Mithra Saosyant, “Mithra il Salvatore” (difatti
l’iconografia buddhista lo rappresenta tradizionalmente come un principe
“seduto al modo barbarico”, cioè assiso all’europea). Lo stesso
Hutuktu di Urga, che Ungern, liberandolo dai Cinesi, aveva ristabilito
sul trono, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai
Lama di Lhasa e il Panc’en Lama di Tashi-lhumpo, era teologicamente considerato
quale proiezione fisica (sprul-sku) di Maitreya, prefigurazione,
quindi, del Buddha venturo.
Ungern, consapevole nonostante questa vittoria della sua fine imminente,
si rendeva conto di trovarsi in un istante “apicale” del divenire della
storia, come se fosse nel cavo fra due onde, un attimo prima che rovinino
in basso. Pertanto, nel suo breve periodo di governo ad Urga (dal 2 febbraio
all’11 luglio 1921) cercò di tramutare questo istante in un “periodo
senza tempo” che permettesse allo Hutuktu di compiere la sua opera spirituale,
liberandolo dalla pressione esterna dei due poteri che incombevano: la
Cina dei “Signori della Guerra” dal Sud, e la valanga bolscevica che muoveva
inarrestabile dal Nord, dalla Siberia.
Erano tempi terribili in cui, piú che dal potere delle armi,
gli eventi sembravano determinati da forze promananti da una sorta di magia
infera. Coloro che furono testimoni degli sconvolgimenti determinati dalla
Rivoluzione di Ottobre ricordano la spaventevole automaticità medianica
con cui le “forze rivoluzionarie” demolivano le strutture della vita civile
cosiddetta “borghese” e le vestigia dell’ordine antico. Le masse si coagulavano
in quegli strati della società in cui maggiormente era assente il
principio dell’“Io” autocosciente, fra i miseri, i vagabondi, gli allucinati
sopravvissuti dai Laghi Masuri e dalle battaglie della Galizia, i fanatici,
i tarati e tutti coloro per i quali la ferocia belluina era alimento quotidiano
dell’anima. Ai rivoluzionari non si scampava: mossa come da un’ispirazione
demoniaca, la “giustizia del popolo” colpiva infallantemente i nemici della
Rivoluzione un momento prima che si muovessero. Il Terrore era guidato
da una occulta saggezza che nulla aveva a che fare con la brillante intelligenza
di coloro (Trockij, Kamenev, Zinoviev ecc.) che lo avevano scatenato e
pensavano di dirigerlo: una saggezza che realmente promanava dall’elemento
preindividuale della “massa”, come le forze fisico-chimiche che provocano
un terremoto o la fuoriuscita della lava da un vulcano.
Ungern chiaramente si rendeva conto di tutto ciò e, dalle sue
conversazioni con l’ingegnere Ossendowski, già ministro delle Finanze
nel governo di Kolcak, risulta evidente come egli cercasse di evocare misticamente
il principio opposto, quello solare, che segnava il suo stendardo, riferendosi
ad una cultura, quella tantrico-buddhista, che da due millenni lo coltivava.
Soltanto che la sua ascesi personale non poteva diventare il mezzo strategico
di vittoria per i suoi cinquemila cosacchi, russi sí, mistici forse,
ma fatalmente appartenenti ad un mondo orientato verso un’esperienza dello
Spirito volta al mondo sensibile esteriore. Nel suo Uomini, Bestie e
Dèi, che è la narrazione della sua fuga dalla Siberia
alla Mongolia, Ossendowski ci ha lasciato un’impressionante descrizione
degli eventi, ma, molto di piú, dell’allucinata atmosfera che regnava
sulla ufficialità che attorniava il Barone e fra le sue truppe,
sottomesse da anni a spaventose fatiche e ad una disciplina rigidissima
e, per giunta, consapevoli del disastro imminente. La narrazione dell’Ossendowski
verrà in seguito aspramente criticata (fra gli altri dallo stesso
Sven Hedin) per la parte riguardante i suoi viaggi fra gli Altai e la Zungaria.
Resta, però, intatta la sua testimonianza sulla figura e sulle avventure
del Barone e, soprattutto, sul senso “magico” del destino che ivi si compiva.
Ricordo perfettamente la straordinaria impressione che suscitò
nell’Europa distratta e frenetica degli anni Venti, anche fra i lettori
piú materialisti e intenti negli affari contingenti, la relazione
sul collegamento mistico fra lo Hutuktu, il Bodhisattva incarnato, il Barone
Ungern e il Re del Mondo, presenza invisibile ma concretamente percepibile
che conferiva un significato trascendente al sacrificio a cui i Cosacchi,
il fiore dei popoli russi, andavano incontro. Questo motivo del “Re del
Mondo” dette fuoco alle polveri di innumerevoli discussioni, specialmente
fra coloro che si accorgevano che non si trattava di una invenzione letteraria.
Fra gli altri, lo stesso René Guénon lo sottopose ad una
critica serrata nel suo Le Roi du Monde, dimostrandone la fondatezza,
in un’epoca in cui la Scienza orientalistica praticamente nulla sapeva
del mito di re Chandra-bhadra (tib. Zlâ-ba Bzan-po) depositario di
una sentenza segreta comunicatagli dal Buddha, e soprattutto ignorava la
saga del suo Regnum spirituale, una specie del Castello del Graal,
che storici e geografi si sono in seguito affannati a ricercare in vari
luoghi del Tibet e della valle del Tarim in Asia Centrale: regno visibile
solo agli Eletti, che però si renderà manifesto a tutti sotto
il ventiquattresimo erede di Chandra-bhadra, quando la sapienza del Kalacakra
emergerà per illuminare gli uomini circa la coincidenza della loro
interiorità purificata e l’Universo degli archetipi.
La leggenda di questo Barone baltico, di stirpe germanico-magiara che,
rivestito della tunica gialla del lama sotto il mantello di ufficiale imperiale,
e spiegando davanti agli squadroni lo stendardo mongolo, procede “nella
direzione sbagliata”, verso Ovest anziché verso Est, ove chiaramente
si sarebbe salvato, è tipicamente russa, ricollegandosi al motivo
sacrificale della zértvjennost’ (“l’offrirsi come vittima”)
per l’istaurazione del Figlio della Benedizione sulla Terra Madre, che
in veste poetica era stata enunciata dallo stesso Solovjèv.
Nell’ultimo rapporto ufficiali, tenuto ai princípi di agosto
1921, quando la divisione asiatica di cavalleria si trovava sul fiume Selenga
intenta ad interrompere la Transiberiana fra Cita e Kiakhta, egli impartí
l’ordine apparentemente assurdo di compiere la conversione verso Ovest,
indi verso Sud, avendo come meta gli Altai e la Zungaria. In quella occasione
disse esplicitamente al generale Rjesusín che si proponeva di raggiungere,
attraverso lo Hsin Kiang cinese, niente di meno che la “fortezza spirituale
tibetana”, ove rigenerare se stesso e i laceri resti della sua divisione.
Assassinato il suo amico Borís la sera stessa dagli ufficiali in
rivolta e morti gli ultimi fedeli, egli mosse solitario verso una direzione
che non aveva piú rapporto con la realtà geografica del luogo
e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la
vita, bensí di ricollegarsi prima di morire con il proprio principio
metafisico: il Re del Mondo.
La sua disperata migrazione verso il Sole che tramonta era in realtà
un ultimo atto di culto verso la Luce che aveva sorretto le sue imprese.
Trascorse la sua ultima notte di libertà nella yurta del calmucco
Ja lama. Il Barone si avvide, forse, del significato del nome del suo ospite:
Ja, abbreviazione in dialetto khalka del mongolo Jayagha,
“fato”, “esistenza”, “destino”, karman. E il “fato” lo consegnerà
la mattina seguente alle Guardie Rosse di Shentikín, il fiduciario
di Blücher. Era il 21 agosto. Regolarmente processato nel sovjet di
Novonikolayevsk, senza che gli venissero toccate le spalline e la croce
di San Giorgio, viene accusato di “complotto anti-sovietico per portare
al trono Mikhail Romanov, efferatezze ed assassinio di masse di lavoratori
russi e cinesi”. Condannato, viene fucilato due giorni piú tardi.
Nello stesso tempo, in un angolo della lontanissima Europa, nella Germania
sconquassata del primo dopoguerra, il mito del Re del Mondo giungeva per
vie misteriose a gruppi di giovani intellettuali, corroborando con il suo
simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della Thule-Gesellschaft.
tratto da: P. Filippani Ronconi, Un tempo, un destino,
in «Letteratura - Tradizione», II, 9,
Ed. Veliero, p.za Garibaldi 11, Pesaro
Immagine: Ritratto di “Ungern Khan” del pittore siberiano
Eugenij Vigiljanskij
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