Misteri

Secondo gli antichi Egizi, con l’arrivo della primavera l’Uovo cosmico plasmato da Ptah, da lui deposto sulle rive del Nilo e qui covato dall’oca sacra, si apriva e ne usciva Ra, il Sole. Il fiume viveva in simbiosi col dio solare: “Cresce, io cresco; vive, io vivo”, cosí recitava il Libro dei Morti, ma è un verso che, smentendo il contesto letterario da cui è tratto, non celebrava la fine della vita bensí il suo perpetuo rigenerarsi, la resurrezione di tutte le cose caduche. Le lacrime scivolate dagli occhi di Iside nella continua disperata ricerca del suo amato Osiride, finalmente si asciugavano, e cosí il grande fiume addolciva il suo corso. Per festeggiare la fine del dolore di Iside, nel santuario di Abido si mettevano in scena gli episodi del mito di Osiride, culminanti nella resurrezione del dio che avveniva quando dalle zolle alla base del sicomoro sacro iniziavano a spuntare i germogli di grano e orzo. Lungo le sponde del Nilo e nelle oasi, la palma sacra alla dea Hathor, signora del Cielo, metteva nuovi germogli e infiorescenze. Albero cosmico assimilato alla fenice, era quindi considerato simbolo di immortalità, di vittoria sulla morte, di rinascita dalla distruzione. Per onorare la dea, nel mammisi del grande tempio di Dendera si inscenava la liturgia di Hathor che partoriva il sole nuovo. Con tale atto ella diventava la stella Sopt, madre della Luce, e dalla sua essenza l’ordine creato ogni anno si rinnovava. A Eliopoli, dove la dea era venerata come Nut, l’entità preposta a reggere il Cielo e coordinare il moto degli astri, una solenne processione recava al suo simulacro nel tempio germogli di grano e di palma. Nel suo nome la radice nu indica l’inizio, l’apertura, il passaggio attraverso cui la vita riprende a fluire feconda.
Risalendo le sponde del Mediterraneo, seguiamo l’immaginario percorso equinoziale di primavera. In Palestina, il 14° giorno del mese di Nisan, il popolo ebraico celebrava la Pesah, che vuol dire passaggio, transito. Dalle temperie invernali ai piú miti e luminosi umori della primavera, ma per il Popolo Eletto voleva ricordare il passaggio veloce e silenzioso dell’angelo giustiziere che in quella fatidica notte, prima dell’esodo dall’Egitto, aveva recato morte nelle case egizie risparmiando le dimore degli Ebrei marcate col sangue dell’agnello. Pesah è anche il frusciare delle ali divine di quell’angelo, il mare che si apre e lascia passare il popolo in fuga, l’aridità del Negev vinta dalla fede, la fine dell’esodo e la conquista della fertilità nella terra di Canaan, ricca di palme e di viti. Lí prosperava l’ulivo, albero cosmico simbolo di forza vitale, sacralità, potere di dare luce col suo olio, adatto a ungere i re e i sacerdoti. Pegno della tregua tra Dio e gli uomini dopo il diluvio, e quindi di pace, di ritorno al ciclo normale della vita sulla terra rinnovata e purificata dal male.
In Siria e Fenicia con l’arrivo della primavera i venti dal Tauro e dalle alture piú prossime dell’Antilibano perdevano gli acri odori di neve per intridersi dei profumi di narcisi, anemoni, rose, delle precoci viole di bosco. Era il tempo in cui il fiume che attraversava la città di Biblo si tingeva di rosso: segnale che il sacrificio di Adone si compiva e che il bellissimo pastore amato da Astarte rinasceva alla vita. Le donne deponevano l’effigie del dio Adon su un letto di fiori, il cosiddetto “giardino di Adon”, e tripudiavano per il suo ritorno.
In Frigia il pastore Adon era Attis, amato da Cibele, la Madre-Terra, e tramutato in pino dalla dea per il suo tradimento con una ninfa. A ogni primavera, dal tronco in cui era racchiuso Adon-Attis stillavano resine che si trasformavano, una volta nelle zolle, in odorose violette.
Di là dal mare, a Eleusi, Demetra riabbracciava la figlia Persefone-Core dopo i lunghi mesi di separazione, e la terra rifioriva per incanto. Dioniso prendeva parte alla loro gioia inghirlandato di edera. Egli precedeva il corteo insieme a Pan, seguito da uno stuolo di ninfe e satiri danzanti. Si celebravano le Antesterie, le feste dei fiori, in onore delle tre divinità che erano al nucleo segreto dei Misteri di Eleusi. Mirto, grano in germoglio, pampini acerbi e festoni di edera venivano loro offerti. Gli echi della festa e delle celebrazioni varcavano l’Egeo e giungevano a Roma. Qui Dioniso diveniva Liber, e Persefone Libera, mentre Demetra si trasformava nella Cerere provvida e benigna delle popolazioni laziali. A questa triade era dedicato un tempio sull’Aventino, il Colle plebeo di Roma. Onori altrettanto solenni quanto quelli dei Greci di Eleusi venivano loro tributati da parte del popolo minuto dell’Urbe, caloroso, infervorato, alquanto scomposto. Erano i Ludi Ceriales. Sul Colle opposto, il Palatino, quello patrizio, si celebravano invece i Ludi Megalenses, in onore di Cibele e di Attis. A rievocare il sacrificio di Attis, con l’equinozio di primavera si inscenava l’arbor intrat. Veniva tagliato un pino sacro al dio, adornato con cembali e timpani, fasciato con infule candide di lana e ghirlande di viole e portato al tempio. Dopo tre giorni, si celebravano i riti per la resurrezione di Attis, detti hilaria, cerimonie festose che annunciavano la rigenerazione della natura. Prima delle none di aprile, 4 e 5 del mese, si procedeva alla lavatio: la statua di Cibele, rimossa dal suo piedistallo del tempio, veniva portata in processione fuori delle mura meridionali e immersa nel fiume Almone. Purificata dal lavacro rituale, la dea poteva tornare al suo posto nel tempio e assistere ai ludi. Questa ricorrenza voleva ricordare l’arrivo di Cibele a Roma avvenuta il 4 aprile del 204 a.C. Un prodigio aveva contrassegnato quell’avvenimento. La nave che trasportava la statua della dea proveniente da Pergamo, in Frigia, si era incagliata alla foce del Tevere. Ogni sforzo per disincagliarla si era rivelato inutile, finché la giovane patrizia Quinta Claudia, devota al culto della dea, era riuscita da sola a trascinare fuori dalle secche la nave, trainandola con una fune dalla riva.
Presso i popoli nordici, il termine che designa la Pasqua, Oster o Easter, deriva da Ostara o Eostre, la dea della primavera, alla quale i Teutoni e i Celti dell’Europa Centrale, della Gallia e della Britannia tributavano particolare devozione e sacrifici in concomitanza con l’equinozio di primavera, che veniva definito appunto Eostur-monath e che si estendeva per l’intera durata della fase lunare corrispondente. Nei villaggi si spegnevano i vecchi focolari comuni e nuovi fuochi venivano accesi usando pietre focaie di selce e legno di quercia. Il bianco lunare, il rosso del sole e l’uovo simbolo della vita allo stato germinale, erano gli elementi che connotavano i riti di passaggio presso i popoli del Nord.
Nei cromlech di Britannia e Irlanda, e nei nemeton, i santuari druidici, si celebrava il rito di Eistedfod. Mentre i bardi cantavano accompagnandosi con l’arpa, sul Maen Gorsedd, l’altare posto al centro del recinto magico di pietre erette, veniva adagiata una spada chiusa nel suo fodero. Cosí era stata conservata dopo la cerimonia che aveva avuto luogo all’equinozio di autunno. Una volta recitata la formula di rito, il grande sacerdote estraeva la spada dal fodero e con essa tracciava un largo cerchio nel cielo: era il Sole che rinasceva e ridava forza agli uomini e alla terra.
Poco meno di duemila primavere fa, un Uomo, figlio di Dio, venne a Gerusalemme per celebrare la Pesah. Cavalcava un’asina e indossava la tunica inconsutile. Lo seguivano i discepoli, ai quali si uní presto una grande folla che voleva tributare onori al Nazareno, al Messia. Molti agitavano rami novelli di palma per il suo trionfo, altri di olivo, simbolo di pace. Ma l’Uomo-Dio, cosí come all’inizio della Sua predicazione aveva chiuso il Libro («in me si compiono le Scritture»), veniva ora a chiudere tutti gli antichi Misteri. Celebrò la Cena d’addio con i simboli di Cerere e Dioniso, pane e vino; lavò i piedi agli Apostoli come rito lustrale; subí la flagellazione come avveniva in molte cerimonie misteriche; venne inchiodato al legno divino che grondò del Suo prezioso sangue come l’albero di Attis. La Terra ricevette quel dono e rifiorí, si rigenerò, e mai da allora poté essere attaccata dal Male nel profondo: essa, come gli uomini, da quel sacrificio è stata riscattata e votata alla redenzione e alla divinizzazione. Il corpo disanimato del Cristo fatto uomo venne chiuso nel candido guscio del sepolcro, dal quale Egli uscí risorgendo. L’Uovo cosmico si schiudeva facendo rinascere il Sol Invictus. Da quel giorno di quasi duemila anni fa l’uomo seppe di essere immortale in potenza, che la comunione con il divino, cercata fino ad allora nei culti e nei rituali esteriori, andava realizzata nel tabernacolo inviolato della sua anima, dove Dio respira, parla, accende i pensieri e gli aneliti, pone giorno dopo giorno i semi della Vita eterna.

Leonida I. Elliot

Torna al sommario