Negli antichi tempi,
quando l’Italia era giovine e bella, ma non era ancora l’Italia unita e
forte che abbiamo imparato ad amare, dominava in Sicilia Federigo II, un
imperatore potente che discendeva da una stirpe del settentrione, ma essendo
nato fra noi amava le opere belle e le magnanime imprese. Allora San Francesco,
il Santo d’Italia, il serafico sole della bontà, aveva già
fondato i tre ordini dei suoi frati poverelli: tre ordini di monaci che
facevano tre voti: voto di castità, di obbedienza e di povertà;
perché tre sono in cielo i divini cori degli angioli, tre sono i
regni della natura, e tre San Francesco volle che fossero anche gli ordini
dei suoi fraticelli sulla terra. Dopo aver fatto questa e tante altre opere
di bontà e di bellezza, San Francesco era poi risalito in Paradiso,
a pregare il Signore di voler far nascere in Italia, da allora in poi,
le anime dei grandi poeti, pittori, musici, guerrieri, esploratori e filosofi,
che dalla patria nostra avrebbero irraggiato in tutto il mondo quello splendore
di gloria che si chiama Rinascimento. E piú tardi il Signore esaudí
la preghiera di San Francesco in Paradiso.
Ma già fin da
allora Federigo II, nel suo palazzo imperiale di Palermo, pareva ardesse
nel presentimento di quella futura gloria d’Italia, e adunava alla sua
corte i piú illustri sapienti, poeti e musicisti dell’epoca sua,
sia dal nord, sia dall’Italia, sia dall’Oriente, e disputava con essi,
e gareggiava in fiorito ardore, proponendo egli stesso problemi ed enigmi
e componendo poesie.
La fama di quella adunata
d’uomini insigni si sparse pel mondo, e penetrò anche in Oriente,
fin nel cuore dell’Asia primordiale, dove si serbavano le memorie della
piú vetusta civiltà della terra, e dove vivevano, in solitudine
e meditazione, dodici Savi sacerdoti e custodi di quella sapienza che un
tempo gli uomini, ancora fanciulli, ricevevano dagli angeli di Dio. Capo
supremo di quei dodici savi era il piú savio di tutti, il Gran Lama
dell’Asia, il cui nome era Pretejanni, o, come dicono le nostre antiche
cronache, Presto Giovanni; che vuol dire il Grande Giovanni. Presto Giovanni
conosceva tutto ciò che di bene e di male accadeva nel mondo, senza
mai viaggiare, assistendo, per la luce dell’anima sua, all’immenso panorama
di tutta la terra, con la stesa facilità con la quale gli altri,
aprendo un libro, possono leggere quel che c’è scritto. Quando dunque
Presto Giovanni conobbe che Federigo II chiamava a corte i piú illustri
cultori delle arti e delle scienze, per discutere con essi attorno ai misteri
della vita e della morte, pensò: “Ecco un uomo, nella cui anima
freme già un presentimento di quella luce potente che il Signore
vuol dare alla patria di Federigo, per irraggiarla a tutto il mondo, secondo
la preghiera che in Paradiso gli ha fatto Francesco, il Santo d’Italia,
il fondatore serafico in terra dei tre ordini umani e dei tre voti divini.
Orbene, io voglio vedere se Federigo è veramente sapiente e conosce
la virtú del gran Santo e di ciò che sta per venire, ovvero
se è una mente confusa, un ambizioso che si trastulla coi suoni
e con le parole, per passatempo e sollazzo di corte”. E Presto Giovanni
radunò in supremo concilio i suoi dodici Savi ed espose loro il
proposito di mandare un’ambasceria in Sicilia a Federigo II, per mettere
alla prova l’anima sua.
E i primi quattro Savi
dissero:
«Mandiamogli questo
verde smeraldo, caduto dal serto di Lucifero quando nei tempi dei tempi
fu scacciato e precipitato dal cielo. Vedremo se l’imperatore riconosce
che questa gemma ha conferito agli uomini la libertà della sapienza,
per la quale gli uomini hanno potuto fondare sulla terra la prima Città».
E la gemma brillava d’un
verde profondamente raggiante. Poi altri quattro Savi dissero:
«Mandiamogli anche
questo bianco diamante, che è la lacrima di rabbia sgorgata dall’occhio
sinistro di Satana, quand’egli s’accorse che dall’alto del cielo stava
per scendere in terra il Figlio stesso di Dio. Vedremo se Federigo riconosce
che da questa pietra gli uomini hanno potuto creare la Legge, che è
nata dalla divisione degli uomini, ma regola i loro diritti e doveri in
perfetta uguaglianza, poiché soltanto la legge è uguale per
tutti».
E la gemma splendeva
di un fulgore cosí intensamente acuto, che sembrava una stella.
Infine gli ultimi quattro Savi proposero:
«Mandiamogli anche
questo rosso rubino: esso è la prima stilla di sangue che il Signore
sudò l’ultima notte, quando sul Monte degli Ulivi ebbe accettato
e bevuto l’ultimo calice, che il Padre Santo gli pose dinanzi, come patto
della sacra Passione, con la quale tutta la Terra è stata allora
salvata nel suo sangue innocente e divino. Saprà, in questa pietra,
riconoscere l’imperatore Colui che gli dà l’autorità di reggere
tutto l’impero per affratellare i suoi sudditi nella comune fatica d’ogni
giorno? Solo in Colui che regna nell’alto, riposa l’impero del cielo, della
terra e dell’inferno».
E presto Giovanni disse:
«Sta bene, o miei
Savi. Coi tre colori del rosso, del bianco e del verde sarà fondata
un giorno sulla terra la triplicità dell’Impero Eterno, in tre ordini
uniti ma distinti, per tutti quanti gli uomini viventi».
E mandò un’ambasciata
di tre ambasciatori a Federigo, incaricando ognuno dei tre di presentare
una delle tre pietre ed ascoltare il giudizio ch’egli ne darebbe; e poi
domandare all’imperatore qual era, a suo parere, la cosa piú preziosa
del mondo.
Quando gli ambasciatori
di Presto Giovanni furono giunti a Palermo, Federigo li accolse con grande
letizia, e volle indire feste, conviti e tornei in loro onore, facendo
gran pompa di tutta la corte e del sontuoso tesoro imperiale. Tre giorni
dopo, gli ambasciatori gli offrirono le tre pietre preziose da parte di
Presto Giovanni; e appena Federigo le ebbe degnate di uno sguardo, esclamò:
«Sono belle!»
e le fece tosto riporre nel tesoro, insieme con tutte le altre. Dissero
allora gli ambasciatori:
«Noi veniamo da
Presto Giovanni e domandiamo da parte del nostro sovrano che pensi tu che
sia la cosa piú preziosa del mondo».
Rispose pronto Federigo:
«La Misura o la
Legge, che comanda gli uomini».
E gli ambasciatori ripartirono
verso l’Oriente. Quando Presto Giovanni ebbe ascoltato il racconto dell’ambasciata,
adunò nuovamente i suoi dodici e disse:
«Quell’imperatore,
quel Federigo, che passa per l’uomo piú savio del mondo, in verità
vi dico che è savio soltanto in dispute e in parole, ma niente affatto
in opere e in volere. Delle tre pietre ha detto solamente che sono belle!»
E dissero i dodici Savi:
«È necessario,
o Presto Giovanni, che gli siano ritolti senza indugio i tre tesori della
vita e della morte. Ancora è troppo presto, sulla terra, per il
Triplice Impero Eterno».
E Presto Giovanni mandò
con grandi ricchezze un suo mirabile orafo a Palermo, un orafo segreto,
ch’era anche dotato di grande sapienza, e ben conosceva le celesti virtú
delle tre pietre. L’orafo, giunto a Palermo, riuscí ad aprire una
sua botteguccia nei pressi del palazzo imperiale, e insieme ai suoi garzoni
lavorava gioielli stupendi che vendeva a buonissimo mercato ai signori
di Palermo. Con questa prima fama, a poco a poco, vennero a lui anche i
cavalieri e i baroni di corte, ai quali regalava addirittura i suoi stupendi
lavori. Alfine, dopo tre anni, la fama di questo ottimo artista giunse
alle orecchie di Federigo, il quale, curioso di tutto quanto superasse
la comune natura degli uomini, fece chiamare l’orafo a palazzo. Ma questi,
prima d’andare, preparò la partenza e licenziò segretamente
i suoi aiutanti, dicendo loro di attenderlo da Presto Giovanni, che li
avrebbe raggiunti colà. E poi si recò dall’imperatore, al
quale offrí una preziosissima collana d’oro, d’agate e di zaffiri.
Federigo allora gli chiese che visitasse il tesoro imperiale per calcolarne
il valore. E man mano che faceva sfilare dinanzi a lui le favolose ricchezze,
l’orafo diceva:
«E poi? Hai tu
altro?»
Al che si meravigliò
Federigo ch’egli non lodasse cotali ricchezze; ma rispose l’artista:
«Io cerco qualche
cosa che sia degna di te».
E poiché null’altro
sembrava vi fosse nel tesoro, disse l’orafo:
«Non hai tu altre
pietre preziose?»
Subitamente Federigo
si rammentò delle tre pietre di Presto Giovanni, e ordinò
che fossero mostrate. Quando l’orafo le vide, prese la prima, e disse:
«Questa, Federigo,
vale quanto ogni qualunque città del tuo impero».
Prese la seconda e disse:
«Questa vale quanto
ogni qualunque provincia dell’impero».
Prese la terza e disse:
«Questa poi vale
piú di tutto l’impero».
E con la virtú
di quest’ultima, insieme alle altre due, divenne invisibile, com’è
invisibile l’aria; e, portato alla potenza serafica, discese rapidamente
la scalea del palazzo, uscí nella luce del sole e fu rapito a volo
fino alla remota Asia, colà dove Presto Giovanni attendeva coi suoi
dodici. E allora Federigo II comprese che non gli restava per ora che morire,
in attesa che l’Italia, diventata un giorno una grande Nazione, unita e
potente, potesse ricevere in sé la fondazione della triplicità
dell’Impero Eterno, sotto il segno dei tre sacri colori, per gli uomini
di tutta la terra.
A. Onofri, La leggenda del Natale d’Italia,
racconto per la Croce Rossa Italiana giovanile, 1927
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