Questione sociale

Tra i sette colli di Roma, l’Aventino ha sempre conservato un suo carattere di extraterritorialità, trovandosi fuori del pomerio, il recinto sacro tracciato da Romolo per delimitare l’Urbe quadrata che andava sorgendo sul Palatino. Era definito, in epoca arcaica, Mons Murcius, per via dei mirti che ricoprivano le sue pendici e la sottostante Valle Murcia, divenuta poi Circo Massimo, che lo separava dal Palatino.
Vera isola del tempo, rimane fuori anche dagli itinerari canonici del turismo organizzato. Solo qualche visitatore alla ricerca di peculiarità storiche, letterarie e paesaggistiche si spinge fin sulla sommità della sua breve orografia. Qui, nella piazza dove risiede il Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, attraverso il buco della serratura del portale di Santa Maria del Priorato, al civico 4, è possibile ammirare il cupolone di San Pietro ingigantito per uno strano effetto ottico. Sempre attraverso un’esigua finestrella, a Santa Sabina, poco distante, è possibile intravedere nell’orto dei domenicani l’arancio piantato, si dice, da San Domenico nel lontano 1222, mentre nella cripta di Sant’Alessio riposano alcune reliquie di San Tommaso di Canterbury (Thomas Becket) il vescovo martirizzato da Enrico II d’Inghilterra il 29 dicembre 1170.
A rinverdire le memorie di amenità agresti, a ogni maggio un roseto dispiega meraviglie di rarità floreali. Un luogo idilliaco, dunque, un’oasi di silenzio e di pace.
Non certo però quel giorno di tanti secoli fa. Era il 5 dicembre del 494 a.C., il primo delle none del mese. Dopo l’armilustrium celebrato come ogni anno il 18 di ottobre, e che chiudeva la campagna militare, la plebe aveva abbandonato la città rifugiandosi sull’Aventino. Si trattava di un luogo che nel tempo aveva finito col rappresentare il simbolo dell’emarginazione sociale e territoriale.
Come si era potuto arrivare a tanto? Nel 499 a.C., i Romani avevano sconfitto i Latini confederati al lago Regillo, uno specchio d’acqua ormai del tutto prosciugato, tra i Colli Albani e la costa. La vittoria, si era detto, era stata conseguita grazie all’intervento soprannaturale e provvidenziale dei divini gemelli, i Dioscuri. In groppa a bianchi destrieri, i due fratelli celesti si erano uniti alle schiere quirite in difficoltà, permettendo loro di aver ragione di avversari dimostratisi valorosi oltre ogni aspettativa. Il Senato aveva deciso di non ridurre in schiavitú i vinti, come di solito avveniva. Li aveva fatti insediare sull’Aventino in regime di libertà, permettendo loro di coltivare la terra e di commerciare. Uguale trattamento era stato riservato ai Sabini, dopo la loro sconfitta nel 502 a.C., allocati invece sul Quirinale.
Quei gesti di clemenza e magnanimità si giustificavano ufficialmente per la consanguineità dei Romani con le popolazioni laziali sconfitte. In realtà, l’inusitata munificenza nascondeva un progetto a lunga scadenza vagheggiato dal patriziato romano, che costituiva per la gran parte il Senato e che doveva potere e ricchezza allo sfruttamento del latifondo. Le terre intorno alla città e quelle delle popolazioni di volta in volta conquistate, richiedevano braccia valide e soprattutto esperienza nelle pratiche di coltivazione. Requisiti in possesso per eccellenza delle genti sabine e latine, dedite da sempre e con profitto all’agricoltura, alla pastorizia e all’utilizzo delle risorse boschive. Popolazioni inoltre laboriose e frugali, devote agli Dei, dai costumi familiari e sociali specchiati. Elementi quindi affidabili e, data la loro subordinazione, facilmente ricattabili e soprattutto non remunerati. Una forza di lavoro ideale, per chi intendeva trarre il massimo di profitto dalla terra e dalle attività connesse, con il minimo di spesa e con pochi o nulli problemi gestionali.
Cosí la pensavano i patrizi capeggiati dal senatore Appio Claudio. Naturalmente tali valutazioni utilitaristiche da parte loro rimanevano inespresse, per cosí dire in pectore. All’esterno, invece, la parola d’ordine era tacciare la massa dei cittadini, di diritto ma nullatenenti, di ogni possibile inadempienza, in maniera da giustificare la loro graduale sostituzione con le fresche e prestanti compagini degli immigrati coatti latini e sabini. In un veemente discorso al Senato, Appio Claudio aveva accusato la plebe romana di vivere parassitariamente a spese dei patrizi, di piatire sportule e denari in continuazione, stigmatizzando con feroce sarcasmo la loro pretesa di eguaglianza sociale, andando in giro a declamare il loro pretenzioso quanto arrogante ritornello «Civis romanus sum!», frase che suonava ormai come un insulto alle orecchie degli aristocratici, possidenti e magistrati, che erano a buon titolo, a loro parere, i soli e veri artefici della ricchezza, del potere e della gloria di Roma.
Il popolo masticava amaro, ma non si ribellava. Molti vivevano con prestiti a usura concessi proprio da chi deteneva denaro e potere, correndo il rischio, se inadempienti nel restituire i prestiti con altissimi interessi, di finire schiavi dei loro creditori. Finché un episodio aveva portato a un punto di rottura. A sancire la benevolenza del Senato e del patriziato nei confronti degli immigrati, il console Spurio Cassio aveva fatto approvare il Foedus Cassianum, una legge che accordava alle popolazioni assimilate benefíci, privilegi e sovvenzioni di cui neppure i cittadini per diritto di appartenenza all’Urbe avevano mai sognato di godere. Fu cosí che artigiani, bottegai, maniscalchi, piccoli commercianti e imprenditori, servi e fullones, scrivani e persino architetti e medici avevano lasciato la città rifugiandosi sull’Aventino, il Saxum Sacrum, altra denominazione del colle dovuta alla sua contiguità con le grotte delle Camène, dalle cui fonti salutari nasceva il torrentello Euripus che, dopo aver attraversato la Valle Murcia, andava a gettarsi nel Tevere. Ma era, quella breve asperità collinare, anche il monte dei perdenti illustri. Vi erano infatti sepolti Remo e Tito Tazio, vittime del vincente Romolo. Era la roccaforte della plebe, contrapposta al dominio aristocratico insediato nelle sontuose dimore del Palatino.
Appio Claudio aveva esultato: la plebe si eliminava in blocco di propria iniziativa. E a chi gli aveva fatto notare che disertando i cives di diritto mancavano i soldati per difendere anche le sue proprietà, egli aveva replicato che avrebbe in quattro e quattr’otto allestito un esercito con gli immigrati, piú integri e resistenti dei cittadini rammolliti dall’ozio e dalla pigrizia di un’esistenza saprofitica. Ma il Senato non era stato tutto dalla sua parte e aveva inviato diverse ambascerie per far recedere la plebe dalla sua intransigente posizione. Tutti i tentativi si erano rivelati però dei fallimenti.
Si arrivò cosí alle none di dicembre, il cinque del mese nel nostro calendario. Questa volta si tentò la carta del sentimento, inviando una compagine di pacificatori moderati e amici del popolo. Tra questi spiccava, per la sua figura nobile e disinteressata, l’ex console Menenio Agrippa, vincitore dei Sabini, uomo onesto e alieno dai giochi di interessi e dagli intrighi di Palazzo. Un vero Padre della Patria. Era l’extrema ratio: se falliva lui non c’era piú nulla da tentare.
Ai concittadini raccolti intorno al tempio di Diana Aricina, Menenio Agrippa si rivolse parlando pacatamente e con toni paterni, esortandoli a far ritorno a Roma. Al termine del suo discorso, enunciò il celeberrimo apologo, raccontando dello stomaco che lavora aiutato dai vari organi del corpo, ciascuno secondo la propria funzione e importanza, dicendo che se gli organi e le membra cessano di cooperare muore lo stomaco con tutto il corpo. L’espediente allegorico funzionò. La plebe si commosse e un’ovazione generale si levò dalla folla, che si disse disposta a terminare la sedizione. L’abilità dialettica di Menenio, non priva di quel tanto di demagogia necessaria a uno come lui, abituato al comando militare e ai discorsi politici, stava risolvendo il conflitto a favore del patriziato. Se ne rese conto Giunio Bruto, un uomo del popolo dotato di coraggio e di una buona capacità oratoria. Egli rivendicò alla plebe quanto essa aveva contribuito alla grandezza dell’Urbe, prima aiutando i patrizi a cacciare l’ultimo re etrusco, Tarquinio il Superbo, e poi, in un susseguirsi di cruente battaglie militari, a debellare le città che minacciavano la crescita di Roma. Giunio Bruto parlò col cuore, e ottenne per la plebe la rappresentanza di magistrati e tribuni nelle sedi giudiziarie e amministrative, oltre alla remissione di tutti i debiti contratti dal popolo nei confronti degli usurai, antica piaga del mondo mai guarita.
Stando alle cronache, in quel fatidico 5 dicembre vinsero un po’ tutti: i patrizi, che vedevano ritornare in città le colonne portanti dell’esercito e dei mestieri; la plebe, che finalmente otteneva rappresentanze politiche e giudiziarie, oltre al condono pecuniario; e i due fautori di quel successo, da una parte Menenio Agrippa ricoperto di onori, dall’altra Giunio Bruto che divenne il primo tribuno della plebe. Vittoria di Pirro, ché la soluzione dei problemi, con rare ed effimere tregue venne rimandata sine die. E ciò perché la controversia tra patrizi e plebei era stata risolta per via legale e non morale, e le concessioni strappate a forza erano di ordine materiale come le richieste: denaro e cariche pubbliche. E allorché gli uomini si accordano in base a princípi puramente materiali, ecco agire in seno ai consessi sociali le forze mai sopite del Grande Guastatore. La materia, nonostante la sua tetragona apparenza, presta il fianco alle sue insidie e le vicende umane si complicano. Roma, benché sapesse trarre da quel fatidico evento una salutare lezione ed emancipasse la plebe fino a renderla apparentemente partecipe della cosa pubblica, e a dispetto di un apparato legislativo che doveva servire da guida e riferimento ad altri popoli per secoli, non riuscí a estirpare il disagio profondo che aveva portato a quella secessione. E non ci sono riusciti i governi dei popoli nelle epoche successive, tant’è che sedizione e secessione hanno guatato con diabolica perseveranza il vivere umano da ogni piega della sociale convivenza, e tuttora minacciano le nazioni e gli ordinamenti che ne regolano i sistemi politici ed economici. Questa impossibilità a individuare la causa vera del malessere che inquina, oggi come ieri, i rapporti tra le varie parti sociali, viene cosí tratteggiata da Rudolf Steiner:
Il tragico errore, riguardo all’incomprensione delle rivendicazioni sociali contemporanee, sta nel fatto che in molti ambienti non si ha il minimo senso di quel che ora, dalle anime di larghe masse umane, affiora alla superficie della vita, e che si è incapaci di dirigere lo sguardo a quanto avviene veramente nell’intimo degli uomini. Pieno di paura, il non-proletario tende l’orecchio alle rivendicazioni che salgono dal proletariato, e sente proclamare che «solo con la socializzazione dei mezzi di produzione egli potrà conseguire un’esistenza degna di un essere umano». Ma non sa formarsi una rappresentazione del fatto che, nel trapasso dal vecchio al nuovo tempo, la sua classe non solo ha chiamato il proletario a lavorare con mezzi di produzione non suoi, ma non ha nemmeno saputo aggiungere al suo lavoro qualcosa che potesse dargli un sostegno per l’anima.
Chi, nel modo che abbiamo accennato piú sopra, trascura, sia nella conoscenza sia nell’azione, di tener conto delle vere realtà della vita, potrà obiettare: «Ma, infine, il proletario non vuol altro che pervenire a una posizione sociale pari a quella delle classi dirigenti! Che c’entra qui la questione dell’anima?» Persino al proletario stesso verrà fatto di dire: «Dalle altre classi io non voglio nulla per la mia anima; chiedo soltanto che sia loro impedito di sfruttarmi piú oltre; voglio che le attuali differenze di classe scompaiano!» Tali discorsi non toccano però l’essenza della questione sociale; nulla rivelano del suo vero aspetto. Infatti, nell’anima della popolazione lavoratrice, una coscienza che dalle classi dirigenti avesse ereditato un vero contenuto spirituale proclamerebbe le rivendicazioni sociali in tutt’altro modo da come lo fa il proletariato moderno, che nella vita spirituale ereditata non può veder altro che un’ideologia. Questo proletariato è convinto del carattere ideologico della vita spirituale, ma appunto a causa di questa sua convinzione diventa sempre piú infelice. E gli effetti di questa infelicità della sua anima, di cui egli non è cosciente, pur soffrendone intensamente, hanno un peso infinitamente piú importante, per la situazione sociale del nostro tempo, di tutte le rivendicazioni, pur giustificate nel loro genere, che riguardano il miglioramento delle condizioni materiali della vita.(1)
E Massimo Scaligero, riferendosi all’atteggiamento interiore assunto in epoca attuale dalle due categorie sociali contrapposte, quella operaia e quella intellettuale, cosí si esprime:
V’è una ragione per cui l’operaio fa l’operaio, ed è soddisfatto di esserlo, pur essendo capace di aprirsi a livelli piú elevati di cultura: la sua coscienza è fondata nella sfera del sentire, piuttosto che in quella del pensare: ha la sensazione di esprimere se stesso nell’attività fisica, meglio che in quella concettuale: perciò è portato a vivere il contenuto dell’ideologia, piú realisticamente che l’intellettuale. L’operaio crede, perciò è il capro espiatorio. L’operaio va incontro all’ideologia con una disposizione morale che manca all’intellettuale: ma a tale disposizione morale non può rispondere l’ideologia materialista: potrebbe rispondere solo una visione sovrasensibile della realtà: della quale egli viene privato. D’onde l’infelicità profonda dell’operaio. Il suo problema è solo in parte problema economico: anzi si può dire che per lui in taluni Paesi (Germania, Svezia, Norvegia, Inghilterra ecc.) tale problema non esiste quasi del tutto. Il suo problema è morale e psicologico: alla richiesta del suo sentimento etico – rispondente alla sua costituzione, per cui è operaio e non intellettuale – l’ideologia materialista toglie la speranza di una risposta.
L’ideologo …non riesce a vedere l’importanza della figura spirituale dell’operaio: d’onde l’occulto senso di colpa dell’ideologo, che si ritiene socialista e invece è un cripto-conservatore, per cui tende a riparare ed eleva a entità mistica l’operaio che veramente non ne ha bisogno. L’operaio ha semplicemente bisogno che, come lui fa il suo dovere sul piano esecutivo fisico, cosí l’intellettuale-ideologo faccia il proprio sul piano interiore. Ma è quello che l’attuale ideologo non fa: riesce soltanto a corrompere l’operaio, esaltandone la funzione, di cui invero impedisce il collegamento con la virtú metadialettica originaria. Lo impedisce, perché non è capace di concepirlo(2).

Il mondo, da quella memorabile giornata di 2500 anni fa, non ha ancora risolto i conflitti di classe e di lavoro in maniera capillare e definitiva, proprio per il motivo che i patti sociali e le controversie che ne derivano sono ispirati unicamente da istanze materiali. Se gli uomini agissero secondo princípi morali, e piú ancora spirituali, otterrebbero esiti risolutivi, sia in termini ideali sia in termini pratici, come ci dice lo stesso insegnamento evangelico. Soprattutto, si chiarirebbero loro le forze che agiscono a monte degli eventi, i meccanismi karmici che stabiliscono le sorti, i ruoli, le condizioni degli individui nel gioco vario e misterioso dei loro rapporti e dei loro destini. I subalterni e i diseredati vedrebbero nel loro stato uno strumento di redenzione e riscatto. Consci del fine ultimo del loro cammino terreno esistenziale, non piú reclamerebbero soltanto pane e lavoro bensí anche remunerazioni dell’anima, per una integrale realizzazione del loro Io irrinunciabile. Quanto agli organi dirigenti, non piú assimilabili per aspetti e valori diversi ad Appio Claudio o a Menenio Agrippa, si farebbero carico della tenuta morale di tutta la società di cui sarebbero governanti, e considererebbero i soggetti, fornitori della forza lavoro, non tanto utili e supini strumenti del loro potere e delle loro ricchezze quanto piuttosto un materiale umano da indirizzare al finale progetto unitario di valorizzazione della società di cui tutti, forti e deboli, ricchi e poveri, sprovveduti e talentati, fanno parte a pieno titolo, divino oltre che umano. Responsabilità quindi da assumersi in maniera proporzionata ai propri valori e ruoli, alle proprie capacità intellettuali, fisiche ed animiche. Ciascuno portatore della sua pietra, ruvida o levigata, opaca o lucente, solida o fragile, preziosa o povera, che, unita a quella recata dagli altri individui a lui sodali, servirà a innalzare il tempio dell’Uomo realizzato.
All’apologo di Menenio Agrippa, perché fosse perfetto, mancava il suggello della carità. Venne il Cristo a portarlo. Attraverso di Lui, Signore del karma, l’uomo può sciogliere ogni nodo esistenziale, volgere in bene ogni destino, mutare in vita la morte, affrancarsi da ogni servitú fisica e morale. E, se animato da buona volontà, ottenere la pace su questa Terra.
Chi si avventura sull’Aventino alla ricerca di peculiarità paesaggistiche, rarità monumentali e suggestioni mitologiche, si fermi in meditazione dove un tempo sorgeva il tempio di Diana Aricina, e dove oggi si erge, austera e raccolta, Santa Sabina. Potrà udire, frammiste ai vespri cantati dai benedettini di Sant’Anselmo, alle note del piano che scandisce i tempi nella vicina Accademia di danza, al fruscío di pini e cipressi e allo stormire delle foglie nel Giardino degli Aranci, le voci di uomini che in quel lontano giorno delle none di dicembre del 494 a.C., senza esserne consapevoli, reclamavano per noi tutti dalla storia, oltre al pane e alla libertà per il corpo, il ben piú alto nutrimento dello Spirito.
Il tempo è ormai maturo perché il loro desiderio venga esaudito.

Ovidio Tufelli

(1) R. Steiner, I punti essenziali della questione sociale, F.lli Bocca Editori, Milano 1950, pp. 18-19
(2)
M. Scaligero, Lotta di classe e karma, Perseo, Roma 1970, pp. 96-99

Immagini:
Roesler Franz, «Il colle dell’Aventino visto dal Tevere», acquerello, Roma 1876
Nicola Sangiovanni, «La vita è una giostra», acquerello, 1830 – Museo di San Martino, Napoli

 

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