Riportiamo qui di seguito
l’intervento del Gen. Carlo Leonardo Scabelloni, fratello di Massimo Scaligero,
pronunciato in occasione di una riunione tenutasi lo scorso mese di maggio
presso il caffè «Giubbe Rosse» di Firenze dedicata alle
poesie del volume La pietra e la folgore.
L’autore stesso, in
una sua lettera, definisce questa sua testimonianza «basata su alcuni
ricordi di questo mio fratello consanguineo che – per alcune circostanze
della vita – frequentai poco ma amai e ammirai molto».
|
Vidi per la prima volta
Massimo nel 1940. Allora, avevo sette anni e Massimo trentaquattro. Mi
fu presentato durante una festa di compleanno d’un parente; ricordo un
uomo snello, dal profilo vagamente aristocratico, che puntò su di
me l’indice in modo scherzoso, sorridendo.
Lo rividi circa un anno
dopo a Ostia, dov’ero a fare i bagni con mia sorella, e ricordo un giovane
uomo magro e abbronzato, che si tuffava in mare facendo lunghe nuotate.
Negli anni successivi sentii
parlare di lui con rispetto, come di persona importante, nelle colonie
permanenti dov’ero stato messo dai miei genitori dall’età di otto
anni.
Lo incontrai di nuovo nel
dopoguerra. Il bel volto del giovane uomo che avevo conosciuto da bambino
era adesso scavato e i capelli s’erano fatti piú radi sulla fronte.
Il carcere e le delusioni patite – di cui allora nulla sapevo – avevano
fatto l’opera loro.
Negli anni ‘50, nelle mie
fugaci visite a Roma, tra un collegio e l’altro, andavo a trovarlo nella
sua casa di via Innocenzo X. In quel tempo ero un adolescente di scarse
fortune, d’incerto avvenire, con studi non amati alle spalle, lettore accanito
ma disordinato. Lui, che sapeva tutto questo, mi trattava con grande gentilezza
e benevolenza; da pari a pari. Con la sua voce pacata, quasi pesando le
parole, parlava di tutto indovinando gli interessi e i rovelli del suo
giovane interlocutore. Sembrava voler dirmi: leggi, studia, vivi; sicuramente
troverai la tua strada. Solo di passata accennava a temi riguardanti la
sua costante ricerca spirituale, che pure era la cosa che piú gli
stava a cuore.
Un giorno, correva, credo,
l’anno 1950, mi incontrò per caso in largo di Torre Argentina. Vide
che avevo le scarpe rotte e, senza dire una parola, mi prese sottobraccio,
mi pilotò verso un negozio di calzature lí vicino e mi comprò
un bel paio di scarpe nuove. Confuso, volevo ringraziarlo; ma lui con un
tono solennemente scherzoso, alzando l’indice, disse: «Il merito
è del corpo astrale». Allora non conoscevo lontanamente il
significato di quei termini e interpretai la sua uscita come una delle
battute che Massimo sapeva sfoderare al momento opportuno, talvolta per
sdrammatizzare i sentimenti eccessivi dei grandi tragici, talaltra per
sfrondare l’alloro ad alcuni “illuminati” coi quali veniva in contatto,
ed anche, con fine spirito, per non dare troppa importanza formale a quello
che lui stesso diceva.
In proposito, ritengo non
sia un aspetto secondario della sua personalità il saper vedere,
sempre, l’aspetto comico della vita; qualità che gli veniva “per
li rami” della famiglia paterna, fiorita in terra di Calabria. Un giorno,
me presente, una vedova della buona borghesia romana, sui cinquant’anni
e ancora piacente, si lamentava con lui di alcuni mali e acciacchi che
l’affliggevano. Massimo ascoltò, senza interrompere, la sequela
dei lamenti della donna, che ogni tanto lo guardava ammiccando, quasi implorandone
l’approvazione. Quando quella ebbe finito, Massimo la prese sottobraccio
e, sorridendo, le disse in romanesco di cercarsi un bel giovanottone che
tutti i mali le sarebbero passati di colpo.
Un’altra volta (questa però
mi fu riferita da altri) mentre attendeva il filobus in via Arenula, gli
si avvicinò un arabo che, nella sua lingua zeppa di aspirate, gli
chiese una informazione. Lui, senza scomporsi, rispose prontamente al suo
interlocutore semplicemente capovolgendo la domanda che quello aveva fatto.
Al che l’arabo, apparentemente soddisfatto, ringraziò nel suo idioma
e si allontanò.
Mi accade spesso in questi
ultimi anni di ripensare all’umanità di Massimo. Quella che sapevano
riconoscere soprattutto le persone semplici che egli incontrava nella quotidianità:
il gestore della trattoria di via Fonteiana, dove Massimo consumava il
pranzo (spesso condividendolo con qualche occasionale visitatore), l’operaio
che veniva a fare le riparazioni in casa, il giovane popolano col quale
aveva scambiato qualche parola sul tram, e cosí via.
Con l’intuito immediato
delle persone libere dai filtri culturali, dalle mode e dalle convenzioni,
abituate dunque a chiamare le cose col loro nome, vedevano subito in Massimo
le qualità dell’uomo e del Maestro.
Dell’uomo che trascurò
per la sua ricerca spirituale le sostanze e la visibilità che avrebbe
potuto avere lavorando per la stampa importante, accontentandosi del poco
che, per vivere, gli procurava la collaborazione ad alcuni periodici; che
quel poco che aveva (e qui non si vuole fare davvero il suo “santino”)
lo divideva con chi era nel bisogno, amici e non, tanto da prendersi ogni
tanto i rimbrotti affettuosi di chi, in casa, doveva far quadrare i conti;
che, a uno dei primi editori rampanti dell’epoca (siamo alla fine degli
anni ’50) che gli prospettava l’opportunità di intervenire a tutte
le presentazioni che si sarebbero fatte di uno dei suoi primi libri, manifestò
al riguardo molte perplessità dicendo che lui era “un lupo solitario”
(io ero presente e anche nostro padre; disse proprio cosí) alieno
da queste manifestazioni e che i libri, se validi e distribuiti a dovere,
avrebbero camminato con le loro gambe senza bisogno della sua presenza;
l’uomo infine che, morto (e neanche qui si vuole fare agiografia), giaceva
su una brandina bassa, di ferro zincato, col materasso di crine come s’usava
un tempo, all’angolo di una stanza disadorna dove le uniche note che invitavano
all’eterno e alla speranza al cospetto di quella morte, erano le effigi
colorate del Cristo e del Buddha appese alle pareti (forse dipinte da Massimo
stesso).
Queste ed altre erano le
caratteristiche dell’uomo e Maestro. Quelle dell’inesausto cercatore dello
spirito sono inverate nell’attenzione e nel sostegno che in vita elargí
a molti senza risparmiarsi, nella parola donata agli amici nelle riunioni
romane del sabato pomeriggio, nei suoi libri. Ma di queste cose non dico
oltre, perché penso che molti le conoscano meglio di me.
|
Tornando
al nido sulla rupe bianca
falco al mattino in folgore di sole
rutilo al guizzo della luce ascende
il pensiero dell’ultima spirale
sbocciata in sogno e nel risveglio unita
tra cuore e vita dell’antico volto
con occhi intenti fisso a riguardare
morte del giorno e nascita d’amore
là nel vortice vivido di cose
ricercando il tuo fiore già dischiuso
Dakhini attende là sulla collina
silenziosa speranza alta nel tempo
ignota a tutti nel donar sua vita
anima del mistero primo e immenso
ma anche a sé nel cuore sconosciuta
perché dormente la sua veglia pura
sulla pietra di neve in oro incisa
ma vigile racconta a mezzanotte
a me nello splendore del suo regno
l’ansia fluente di sua primavera
tra i rami di foreste sempre verdi
in vapori d’aurore d’altri
mondi
in rose immense a ritmi siderali
riportati alla prima scaturigine
che è il mistero di vita – ed ora ascolta
è il mistero del sogno di Dakhini
solvente il tempo in onde di vittoria
ma tacita e nel simbolo dormente
ella della sua statua viva e dubbio
che si scandisce in palpiti del cuore.
da La
pietra e la folgore, Tilopa, Roma 1985
|
|