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Una grotta oscura, tetra, chiusa, vaghe ombre. Ci sono sette cavalieri,
sette grandi Templari. Ognuno di essi è un Maestro ma il piú
grande è l’ultimo: Jacques de Molay. D’un tratto un chiarore, una
fievole luce diffusa come di un’alba appena accennata ed ancora ammantata
di grigio che sfuma in un pallido azzurro. Il Gran Maestro de Molay si
alza e scorge l’apertura della grotta sino ad allora invisibile nell’oscurità.
Allora sale su una grande pietra e chiama i cavalieri.
«È ora dice di tornare. La Terra di fuori ci aspetta.
Ancora dobbiamo levare le spade e puntare le lance: si dovrà combattere
lí fuori».
Gli si fanno intorno i cavalieri e c’è chi non si dice pronto,
c’è chi ricorda ancora l’onta della condanna e quel che ha sentito
dire dalla sua bocca e le infamie e la morte ingloriosa senza la spada
in pugno. De Molay ascolta, poi, muovendo il braccio destro come ad aprire
un’invisibile porta, spalanca la visione del passato e tutti stanno a guardare
silenziosi.
E si vede una prigione, le nere, umide pareti rutilanti per i riflessi
delle torce e del fuoco, il pavimento chiazzato di sangue. E laggiú
quegli stessi uomini rapiti dal dolore del tormento che gridano le loro
colpe inesistenti che sono quelle dei loro aguzzini e questi lo sanno:
per questo li odiano, per questo li vogliono morti. Mostri orribili prendono
il posto dell’anima degli eroi ormai fuori dalla loro carne, mostri di
pensieri e immagini che corrono nel mondo in cerca di un vuoto dove insinuarsi
e gridare la loro malvagità. Non è una confessione quella
dei morenti: essi gettano in faccia alla Terra l’empietà di chi
li perseguita, essi sperimentano gli Inferi.
«Chi vuole salire ai mondi dello Spirito spiega il Gran Maestro
deve conoscere gli abissi dell’Inferno e tutte le colpe del mondo sono
le sue colpe. Egli vive queste empietà come fossero sue e non c’è
malvagità compiuta da uomo sulla terra che egli non sperimenti in
sé, che egli non ripercorra per scioglierla, per assumerla e trasformarla
in virtú. Ma se al culmine di questa terribile prova qualcuno costringe
con tormenti o con droghe a manifestare quanto l’anima sta sperimentando,
ne escono tutte le nefandezze e pare che la vittima sia in realtà
colpevole. Questo ci è accaduto, fratelli, questo e nient’altro.
Il dolore che provammo a sentire la nostra bocca manifestare il male che
volevamo combattere fu immenso: per questo ora dobbiamo ritornare».
Il Gran Maestro solleva ora il sigillo dell’Ordine: «Guardate!
Due cavalieri montano uno stesso cavallo. Poiché uno è il
cavaliere che combatté sulla Terra e che fu mandato a morte con
ignobile processo, l’altro è il cavaliere che deve tornare e che
combatte dietro l’apparire del mondo dove la Verità ha la forza
della Vita. Quello è il nostro campo di battaglia per il quale siamo
morti e vivremo».
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Gli eventi del dodicesimo
e del tredicesimo secolo dopo Cristo sono una fonte sempre nuova di meraviglia.
La vita culturale ed economica di quel periodo conobbe un fiorire senza
precedenti: ben trecento furono le cattedrali costruite; una rete di strade
collegava tutti questi luoghi; monasteri e locande per i viaggiatori venivano
eretti ovunque. Non c’erano epidemie, e la vita trascorreva sicura.
…Se cerchiamo di scoprire
il segreto di quell’epoca, ecco che ci troviamo di fronte all’Ordine dei
Cavalieri Templari. L’Ordine apparve nel 1128 come una cometa nel firmamento
e fu sradicato dalla terra con violenza quando Filippo il Bello incarcerò
i Cavalieri e condannò al rogo Jacques de Molay, l’ultimo Gran Maestro,
nel 1314.
da: L. Bos,
I cavalieri templari — La continuazione del loro compito nell’epoca
attuale
Ed. IdeaStudio, Milano 1999, a cura di Andrea di Furia, traduzione di Michael
Krüger
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