Lo Zen non è precisamente
una dottrina; è, in realtà, un oggettivo sistema di meditazione
che vuole realizzare – mediante il meditante – l’unità oggettiva
e superumana tra l’Io individuale e quello universale.
Meditazione che si fa azione
immanente del soggetto, il cui fine è trascendere i limiti dell’ego;
spogliandosi degli attaccamenti egoici, l’asceta non scinde il meditare
dall’agire. Il meditare diviene cosí, nella mente esercitata al
dominio spontaneo del caotico flusso pensante, una penetrazione cosciente
e priva di sforzi della volontà egoica nel mondo della quotidianità
che ci si squaderna innanzi nella sua multiforme varietà, apparentemente
irresolubile all’occhio fisico dell’ego ma chiaro e significativo di fronte
alla volontà inegoica dell’Io superiore.
«Lo Zen non va confuso
con la forma di meditazione praticata dagli aderenti a “Nuovo Pensiero”
o dai cristiani scientisti, o dai samnyasin indú, o da certi
buddhisti. Il Dhyana concepito dallo Zen non corrisponde alla sua
pratica quotidiana. Un uomo che si allena alla disciplina Zen può
anche nel contempo meditare su un tema religioso o filosofico, ma questo
è solo incidentale; l’essenza dello Zen non è affatto lí.
È lo stesso pensiero che lo Zen si propone di disciplinare per renderlo
maestro di sé attraverso un addestramento nella sua piú verace
natura. È tale penetrazione nella mente o nell’anima l’oggetto fondamentale
del Buddhismo Zen. Lo Zen, perciò, è qualcosa di piú
della meditazione del Dhyana nell’accezione comune del termine»
(1).
Il risveglio dall’allucinazione
psicosomatica dell’uomo moderno, abisso senza fondo che sta sempre di piú
rendendo la realtà spirituale contemporanea come contrassegnata
da un determinismo fatalistico e automatico dell’anti-Io, si realizza attuando
il vuoto (Sunyata), esperienza lucidissima in cui una potenza sovracosciente
e sovrammateriale annienta l’astratta oggettività che dà
all’uomo psichico la parvenza della realtà quotidiana. Esperienza
veramente conoscitiva – è chiaro che si tratta di una vera conoscenza,
la conoscenza per identità e non per astrazione logico-discorsiva
o numerico-matematica – ma terribile poiché si concretizza in una
dimensione che, essendo un pieno di forze ed esseri spirituali, è
certamente di carattere aspaziale e atemporale.
Attraversare e scavare nel
vuoto della fisicità significa per l’asceta mollare gli ormeggi
che ci tengono avvinti ad un mondo e ad una vita separati dallo Spirito,
per sperimentare quindi l’immacolato fondo della Vera Realtà.
Se non è un’astratta
dottrina, lo Zen è senz’altro una decisa disciplina, una via autoformativa
che porta gradualmente l’uomo all’indipendenza assoluta dell’Io
dagli stati animici dell’epoca. «Lo Zen è l’Oceano, lo Zen
è l’aria, lo Zen è la montagna, lo Zen è il fuoco
e il lampo, il fiore della primavera, il calore dell’estate, la neve dell’inverno;
o meglio piú che tutto questo, lo Zen è l’uomo» (2).
Arte Regia e non fideismo
lunare, poiché fondata sulla centralità operativa dell’Io
volitivo e solare, lo Zen annienta la dialettica.
Scoprire e inverare il tessuto
di luce fluente nell’universa realtà significa per lo Zen tacere,
occultare l’ego, nascondersi magicamente rispetto al miracolo quotidiano
di un sole che batte sulle cime di vette innevate o che splende su una
brutta e squallida strada di un sovraffollato quartiere metropolitano.
Realizzare l’archetipo spirituale entro il divenire delle cose è
un’azione radicale dell’Io: è la Vera Rivoluzione. Ciò significa
rendere nulla la tradizione, come ricostruzione filologico-dogmatica di
un Rito che è altrove – compresa la tanto decantata dal Guénon
“regolarità iniziatica” – proprio perché la Tradizione Solare
è creazione dell’Io Sono e non del passionale moto egoico che ci
vorrebbe, perché piú acculturati degli altri, uomini differenziati
nell’epoca del massimo materialismo.
Il satori, infatti,
la folgore dell’illuminazione noetica è un’esperienza adialettica
e per certi versi addirittura fondata sull’assoluta libertà del
soggetto anche rispetto alle leggi, onorate, vere e superiori, di una retta
società tradizionale.
«Se un satori è
analizzabile, nel senso che può essere esaminato e reso chiaro ad
un altro che non lo ha mai sperimentato, quel satori non sarà
un vero satori. Se esso infatti si volge al concetto, cessa di essere
se stesso e non vi sarà piú esperienza Zen. Circa il modo
di raggiungerlo e di impossessarsi della cosa in sé, questo va fatto
personalmente, giacché nessuno può farlo invece di un altro.
Per quanto riguarda l’indizio, esso è rintracciabile ovunque. Una
volta che la mente di un uomo sia matura per il satori, esso si manifesta
in qualunque modo o luogo. Un suono inarticolato, un’osservazione sciocca,
un fiore che sboccia, un banale incidente come l’inciampare sono altrettante
condizioni od occasioni che apriranno la mente al satori» (3).
Il carattere essenziale,
eroico, antifilosofico, che emerge dallo Zen conduce indubbiamente ad un
alto livello, quello dello Zazen (Dhyana), che si può definire
il livello in cui la realtà – il non-Io – si arrende e annienta
se stessa di fronte alla potenza guerriera dell’Io.
Livello che caratterizzò
senza meno la sublime e impareggiabile milizia solare di un vero Maestro,
Massimo Scaligero: «Non si tratta di credere a Michele, ma di operare
mediante il pensiero: anzitutto all’estinzione della dialettica»
(4).
(1) D.T. Suzuki, Zen,
Ed. Astrolabio
(2) ibid.
(3) ibid.
(4) M. Scaligero,
Iside Sophia, la dea ignota, Ed. Mediterranee, Roma 1980
Immagini:
– «La luna» disegno a china del
Maestro Zen Sengai
Quando l’Io penetra la vacuità
del nulla, o meglio quando si identifica col vuoto assoluto (sunyata),
come ci si sente liberi di espandersi al di là di ogni ostacolo!
La luna autunnale è il simbolo di questa condizione della mente.
È la «luna-essenza» di cui tanto parlano i poeti buddhisti
e che Sengai ha dipinto per noi.
da: Il Maestro Zen Sengai,
a cura di D.T. Suzuki, Ed. Guanda, Parma 1988
– Il gigantesco Buddha di pietra
presso un tempio Zen di Kamakura, in Giappone
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