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Ricordo un giorno d’estate
di tanti anni fa in un paese del Sud. Era l’ora che precede il calar della
notte e il sole scendeva a poco a poco dietro il monte. Nell’azzurro sfocato
del cielo grandi stormi di rondini passavano garrendo e, col loro andirivieni,
formavano un misterioso disegno geometrico. Nel giardino della casa dei
nonni, seduta su una sdraio, contemplavo il silenzio della natura, rotto
dal verso delle rondini, ma quel garrire, facendo parte della natura e
dell’ora, era come un suono celeste che non disturbava la contemplazione.
Avevo in grembo I Grandi
Iniziati di Schuré e in verità lo spettacolo del tramonto
mi consentiva di restare in sintonia con quello che andavo leggendo, anzi
la grandiosità della natura era l’immagine cosmica della grandezza
umana di quegli esseri descritti da Schuré. Mi è rimasto
impresso quel giorno, perché fu uno di quei momenti magici che capitano
ai giovani che cercano una via spirituale e costituiscono per la loro vita
futura una pietra miliare. Perché in quei momenti intuiscono la
loro vocazione e prendono coscienza che la via da seguire sarà lunga
e difficile, ma imprescindibile per il loro destino.
Un tenero particolare fu che
venni distratta dalla contemplazione da un micino randagio, che si mise
a girarmi intorno miagolando insistente. Pensai che volesse un po’ di carezze,
ma non voleva solo quelle: aveva fame. Gli diedi allora del cibo e guadagnai
un amico, che da allora in poi divenne un inquilino del giardino e, ogni
volta che tornavo dai nonni, mi correva incontro e mi faceva le fusa.
Quel giorno, dunque, fu per
me importante e segnò il vero inizio di una ricerca che proseguí
negli anni successivi, fino a che sentii parlare di Massimo Scaligero e
dei suoi libri. Ero curiosa di saperne di piú e, trovandomi a Milano,
andai alla biblioteca Sormani. Un titolo mi attrasse immediatamente: Dell’Amore
Immortale. Presi in prestito il libro e lo lessi. Vi trovai tutto ciò
che cercavo: l’amore e il pensiero, oltre a uno stile che, pure stringente
e concettoso, mi apparve geniale. Quell’incedere filosofico del periodo,
d’altronde, non mi spaventava, perché la mia generazione è
stata contrassegnata da una grande esigenza di pensiero e da forti ideologie,
di destra o di sinistra.
Dunque il pensiero c’era, corposo,
ma c’era anche il tema eterno di un amore senza limiti di spazio e di tempo,
come quello dei principi e delle principesse delle fiabe. Perché
possono incamminarsi e a volte raggiungere le difficili mete dello spirito
solo coloro che sono capaci di credere nelle favole e nelle forze che mediante
esse si esprimono, pure attraverso la prosa spoetizzante e i drammi della
vita quotidiana. Ma possono continuare a credere nelle favole solo coloro
che restano interiormente bambini, «poiché di quelli che son
come loro è il regno dei cieli».
E cosí avevo trovato
ciò che da sempre avevo cercato: era solo l’inizio, ma il resto
del cammino non mi spaventava e un’intima gioia mi faceva guardare il mondo
con occhi diversi.
Non ricordo particolari della
prima volta che incontrai Massimo Scaligero, ricordo però che ebbi
confermata l’impressione di avere imboccato la via giusta per me. E da
allora divenne l’“amico spirituale”, il kalyanamitra dei buddhisti,
colui che avrebbe guidato i miei incerti passi sulla via della disciplina
data da Rudolf Steiner, fino a quando non avessi potuto procedere da sola.
Ma ciò che io e tanti
altri giovani abbiamo ricevuto da Scaligero non è solo questo. Tutto
il suo essere e le sue parole erano per noi un insegnamento. Quando i nostri
discorsi o il comportamento manifestavano una non corretta attitudine interiore,
diceva poche e giuste parole, in modo dolce e severo, e immediatamente
dentro di noi si faceva chiarezza e l’errore veniva rettificato.
Ispirava leggerezza e serenità,
ma entrambe queste qualità non erano il frutto di un modo di essere
superficiale, né provenivano dall’aver vissuto la vita a volo d’uccello,
sfiorandone i drammi senza averli penetrati, ma piuttosto erano il frutto
dell’aver compreso profondamente il senso della vita e del destino proprio
e umano.
Aveva uno sguardo limpido e
un po’ infantile nei momenti di abbandono, pronto a farsi tuttavia acuto
e penetrante, e parlava a voce bassa e lenta, com’è tipico degli
asmatici e di coloro che pensano prima di esprimersi. Amava scherzare e
spesso, mentre noi eravamo sospesi nell’attesa di chissà quali parole
di saggezza da parte sua, ci sorprendeva con una battuta, lieve e arguta,
che spezzava la tensione e ci faceva ridere di gusto. Nello stesso modo
ridimensionava i “drammi spirituali” che spesso immaginavamo di vivere,
riportandoci di colpo alla dimensione modesta ma ricca di buon senso della
realtà quotidiana.
Di se stesso diceva di essere
un ramo dell’albero di Steiner, il Maestro dei nuovi tempi, e che suo compito
era quello di porre di nuovo al centro dell’insegnamento steineriano il
pensiero vivente, che si era venuto perdendo nelle tante branche dell’Antroposofia.
Di certo io e altri giovani
della mia generazione avremmo dovuto attendere chissà quanto per
riconoscere nell’Antroposofia la nostra strada, se non lo avessimo incontrato,
perché, cosí intellettuali e affamati di filosofia e di linguaggio
filosofico come eravamo, non avremmo compreso l’apparente semplicità
di Steiner oppure ci saremmo persi nel mare magnum del suo insegnamento.
Egli, invece, ci diede il filo conduttore per poterci addentrare nell’Antroposofia:
il pensiero. E inoltre la possibilità di rivivere l’esperienza di
Parsifal e Condwiramurs, il Santo Graal come meta dell’ascesi di coppia.
Un amore, insomma, che da terreno si fa celeste, consapevole, come dev’essere,
di porre ora le fondamenta per quel lento e lungo cammino che porterà
la Terra verso l’incarnazione di Venere. Perché solo la coppia che
consapevolmente viva la propria unione come celeste può ispirare
alla Terra quell’amore che il Cristo le ha portato ma che ancora solo a
tratti è operativo.
Ci sono state personalità
che nel corso dei millenni, specialmente dopo l’avvento del Cristo, hanno
vissuto tale amore, e la corrente degli stilnovisti che vedevano nella
donna un essere angelico ne è un esempio, come altri esempi sono
Chiara e Francesco, Petrarca e Laura, Dante e Beatrice, Novalis e la sua
fidanzata-bambina. Era un amore, tuttavia, che ancora non s’incarnava sulla
Terra, ma restava sospeso come un ideale inafferrabile. Scaligero ci ha
dato la speranza che fosse venuto il tempo dell’incarnazione dell’amore
celeste e ha ispirato a tante coppie di giovani l’entusiasmo di unirsi
per uno scopo spirituale.
Un altro tema fondamentale
dell’opera di Scaligero è quello della Sophia, già trattato
da Rudolf Steiner e tanto caro al filosofo russo Vladimir Solov’ëv,
chiamato appunto “il filosofo della Sophia”. Ma non è questo il
luogo per trattare un argomento cosí ponderoso e complesso. Qui
si è voluto solamente rendere testimonianza a un uomo che ha saputo
essere, per tanti giovani e non, un “amico spirituale”. E poiché
i testi buddhisti dicono che è molto difficile incontrare un kalyanamitra,
possiamo dire che siamo grati al destino per averci dato tale possibilità.
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