Siti e miti


un moai

Prendete un moai, una di quelle teste di pietra alte piú di sei metri disseminate sulle pendici del vulcano Rano-Raraku nell’isola di Pasqua, moltiplicate l’enigmatico monolito per diverse migliaie di volte, adagiatelo poi nella pianura dell’Agro Romano, la testa a Nord dove stremano le propaggini dei Monti Sabini, il collo a Sud-Est dove il Tevere compie un arco prima di raggiungere Roma: otterrete il Monte Soratte.


il Monte Soratte

Alto appena 691 metri, il rilievo appare tuttavia troneggiante, svettando roccioso e imponente dalla pianura nella sua arcigna solitudine.
Il mistero avvolge sia le figure granitiche dell’isola polinesiana sia il profilo dormiente che domina il paesaggio agreste alle porte dell’Urbe. La sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di enigmatico e misterioso pervade chi percorre l’Autostrada del Sole o la via Flaminia, entro i cui tracciati si erge il crinale frastagliato del monte.
Fu proprio dalla via Flaminia che il poeta Orazio vide per la prima volta il Soratte. Cosí lo descrive nel I Libro delle Odi:
Guarda il Soratte candido di neve,
tanta che stanchi i boschi piú non possono
reggerne il peso, e come il gelo ha ormai
rappreso i fiumi con il suo rigore.
Il poeta del Carme secolare usa il termine “candido” per indicare la strana montagna, persino visibile dai punti piú alti della città nelle giornate chiare. Altri aggettivi che i Romani le attribuivano erano: “albo” e “niveo”, e quest’ultimo non tanto per la neve, di cui secondo licenza poetica e per virtú immaginifica Orazio ne ricopriva le falde e la vetta, quanto per la natura calcarea delle rocce di cui è composto il massiccio, un’autentica peculiarità geologica in un contesto territoriale di natura eminentemente vulcanica. La singolarità del monte aveva fatto nascere credenze popolari sulle sue origini extraterrestri secondo le quali si sarebbe trattato di un meteorite precipitato chissà quando tra le catene dei Cimini a Nord, dei Sabini a Est e dei Sabatini a Ovest.
Veridico invece il verso di Orazio che concede al monte balze rigogliose di selve. Al tempo del poeta, infatti, i lecci, gli ornielli, gli aceri e un intricato sottobosco formavano un habitat ideale per i lupi che infestavano le montagne laziali e in particolare il Soratte.
Soltanto la fede e l’amore sconfinato per le creature potevano superare le barriere di quella natura ostile. Con tali armi l’eremita Silvestro, divenuto poi papa e santo, si stabilí nella temibile foresta ricavandovi un rifugio, dove conduceva esistenza ascetica. Mostri e fiere non spaventavano il romito, anzi lo incitavano a epiche sfide esorcizzanti. Fu chiamato infatti a Roma per liberare l’Aventino da un drago che vi si era annidato e terrorizzava il popolo dell’Urbe già tormentato dalle prime invasioni barbariche. L’episodio è documentato da una serie di affreschi visibili a Roma nella chiesa dei Santi Quattro Coronati.
Col tempo la fama di Silvestro richiamò sul monte selvaggio e misterioso altri eremiti, e la loro santità lentamente neutralizzò le forze che emanavano dalle viscere della montagna attraverso le voragini carsiche, dalle spelonche impenetrabili e dagli inghiottitoi senza fondo. I lupi si ridussero di numero fino a scomparire, gli umori e le aure malefiche si dissolsero. Poi Silvestro venne eletto al soglio pontificio, il suo eremo fu abbandonato e la comunità degli anacoreti migrò altrove.
Disboscata la selva negli anni dalla cupidigia forsennata degli uomini, il monte offrí alla vista la sua nudità cinerina, vibrante, e le caverne, dette “meri” vennero adoperate per nascondervi bottini di briganti, armi e tesori di eserciti in transito o fuga. Vere o millantate ricchezze che alimentarono nuove e piú spietate cupidigie. Poi anche queste bramosie si sono acquietate e il monte è ritornato alla solitudine antica, interrotta soltanto dalle improvvise falcate dei rapaci superstiti, dallo zigzagare dei conigli selvatici tra i radi cespugli e dai trepestii dei pochi devoti che si spingono fino all’eremo di San Silvestro, verso la cima. Il fervore delle loro preghiere basta forse a preservarli dagli influssi rattenuti dell’essere dormiente sotto il profilo crestato della montagna. Ecco, il suo volto si delinea, stagliandosi netto contro la luce del sole calante: labbra camuse, naso prominente alla cui sommità, all’attacco della fronte irrilevata e sfuggente, spicca sinistra la gibbosità dell’organo di chiaroveggenza. Il nome di quell’Essere in apparente letargo, da non pronunciarsi mai, pena la sua devastante evocazione, è celato in quello del monte e designa l’entità che verrà a combattere il Cristo imitandone la figura e le opere.
In che modo si esplicherà l’azione di questa entità latente, del tutto diversa dalle forze che hanno finora operato nell’interiorità umana? Rudolf Steiner cosí ne parlava all’inizio del secolo scorso (1).
«…nell’epoca che ora verrà, saranno delle entità spirituali denominate “Asura” che si insinueranno nell’anima cosciente, e perciò in quello che chiamiamo l’Io dell’uomo (perché l’Io sorge nell’anima cosciente). Gli Asura svilupperanno il male con una forza anche piú intensa di quella delle potenze sataniche nell’epoca atlantica o degli spiriti luciferici nell’epoca lemurica.
Il male che gli spiriti luciferici, insieme al beneficio della libertà, hanno arrecato all’uomo, l’uomo lo espierà tutto quanto durante il corso dell’evoluzione terrestre. Il male che gli spiriti arimanici hanno creato, potrà essere rimosso nel corso del divenire, grazie alla legge karmica. Ma quel male che sarà arrecato dalle potenze asuriche, non potrà similmente essere espiato. Se gli spiriti buoni hanno dato all’uomo dolori e sofferenze, malattia e morte, affinché, nonostante la possibilità del male, egli potesse evolversi ulteriormente, se gli spiriti buoni hanno dato, in contrapposizione alle potenze arimaniche, la possibilità del karma, per pareggiare l’errore, non sarà invece altrettanto facile contrapporsi agli spiriti asurici durante il corso dell’esistenza terrestre. Perché questi spiriti riusciranno ad ottenere che tutto quanto sia da loro afferrato (ed è proprio la zona piú profonda e intima dell’uomo, l’anima cosciente con l’Io) che l’Io dell’uomo si congiunga con la sfera materiale della terra. Pezzo per pezzo, verranno estirpate dall’Io le sue parti; e man mano che gli spiriti asurici si stabiliranno entro l’anima cosciente, l’uomo dovrà lasciare sulla terra, via via, le parti della sua esistenza. Quanto cade preda delle potenze asuriche è irrevocabilmente perduto. Non è che l’uomo debba cadere intero in loro mano; ma dallo spirito dell’uomo verranno tagliati fuori, ad opera delle potenze asuriche, dei pezzi.
Le potenze asuriche si annunziano nella nostra epoca attraverso lo spirito operante oggi, attraverso lo spirito che vive esclusivamente nella sfera del materiale e nell’oblio di ogni mondo spirituale. Potremmo dire: che le potenze asuriche seducano l’uomo è oggi un fatto ancora piuttosto teorico. Oggi esse lo adescano in molti modi, facendogli credere che il suo Io sia il risultato del mero mondo fisico; lo seducono ad una specie di teorico materialismo. Ma nel corso ulteriore del divenire (e ciò si annunzia sempre piú nelle caotiche passioni della sfera dei sensi, passioni che scendono sulla terra sempre piú in basso), esse ottenebreranno lo sguardo dell’uomo nei confronti delle entità spirituali e delle potenze spirituali. L’uomo non saprà nulla e non vorrà saper piú nulla di un mondo spirituale. Non si limiterà ad insegnare che le piú alte idee morali umane sono soltanto sviluppi superiori degli impulsi animali; non si limiterà ad insegnare che l’uomo è affine all’animale in ciò che concerne la sua figura e che anche tutta la sua entità discende dall’animale: bensí prenderà questa concezione sul serio e vivrà conforme ad essa.
Oggi ancora egli non vive proprio conformandosi al principio secondo il quale l’uomo, con la sua entità, discende dall’animale. Ma questa idea si farà strada senz’altro, e avrà come conseguenza che, con essa, gli uomini vivranno anche come animali e si sprofonderanno negli istinti e nelle passioni puramente animali. E in molte cose che qui non è il caso di descrivere, in molte delle selvagge orge di vana sensualità che oggi, soprattutto nelle grandi città, vanno affermandosi, noi già vediamo risplendere i grotteschi inferni di quegli spiriti che designiamo come asurici».
Ma poi, concludendo, Steiner ci indica l’antidoto a questa terribile evenienza di perdita dell’Io cosciente, e vede nel Cristo, Signore del karma, la possibilità del riscatto umano. La luce salvifica di cui vennero impregnati i regni inferi dopo il mistero del Golgotha servirà a tenere a bada e a sconfiggere le forze che sopiscono all’interno della singolare montagna che ha il profilo di un totem disteso e domina lo scenario della campagna romana poco distante dalla città sacra. Memento e monito ai viandanti che attraversano la “selva oscura” del vivere materialistico, percorso ormai obbligato per noi tutti, volenti o nolenti. Quella sagoma inquietante cela un inganno: vorrebbe farci credere che il Male è reso innocuo simulando l’inerzia e il sonno, o che la sua minaccia appartiene alle fole dell’umanità bambina. Ma sotto la sua apparente immobilità pietrosa quell’entità è quanto mai viva e pronta a scattare per aggredirci e divorare “pezzo a pezzo” la nostra potenziale divinità. Sta a noi non farci prede consenzienti. Come? Con il lavoro interiore, attraverso il quale sviluppiamo una vigile coscienza e purezza di cuore.

Ovidio Tufelli

(1) R. Steiner, Influssi luciferici, arimanici, asurici, conferenza tenuta a Berlino il 22.3.1909, «Antroposofia», XXVI, N. 1-3

Immagine:
La corte degli Asura, Pittura di Jaipur, India, secolo XVIII

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