Anche i meno edotti
sui misteri e i fenomeni eccezionali sanno cosa sia il Triangolo delle
Bermude: un’area del nostro pianeta situata tra l’omonimo arcipelago a
Nord, la Florida a Ovest e le isole di Haiti e Cuba a Sud. Qui, nel corso
degli anni, sarebbero inspiegabilmente spariti aerei, navi e sommergibili,
come se una forza immane li avesse risucchiati spingendoli in una dimensione
“oltre e altra”, in un luogo senza ritorno. Si tratterebbe quindi di una
specie di porta spazio-temporale attraverso la quale il nostro mondo fisico
e tangibile può prodigiosamente collegarsi a un altro, la cui natura
ci è ignota, dove si svolge un’esistenza parallela alla nostra.
Due flussi che scorrono contigui l’uno all’altro e che solo per fortuite
combinazioni di scambi energetici e magnetici si compenetrano, aprendosi
sulle rispettive realtà e consistenze materiche.
Di questi siti
di passaggio dalla nostra dimensione a una “oltre e altra” vi è
traccia nelle tradizioni magico-misteriche di vari popoli. I Romani antichi,
ad esempio, sapevano che il mundus, una profonda e oscura voragine,
poteva aprirsi in dati momenti e luoghi della città e mettere in
comunicazione con i regni inferi, suscitando entità ctonie come
Manes, Lemures e Larvæ, placabili solo con sacrifici.
Celebre è
rimasto quello compiuto dal giovane cavaliere romano Marco Curzio, nel
362 a.C. Ne parla Dionigi d’Alicarnasso nella sua Storia di Roma Arcaica
(XIV, 11). In pieno Foro si era aperta una voragine «di profondità
insondabile», che per giorni i cittadini tentarono di far richiudere
gettandovi ogni sorta di primizie e oggetti di valore, com’era costume
quando si offrivano olocausti alle divinità infere. Ma inutilmente.
Allora il Senato ordinò che si consultassero i Libri Sibillini.
Il responso degli àuguri fu che la voragine si sarebbe richiusa
soltanto sacrificando quanto di piú prezioso potesse offrire Roma.
Il giovane Marco Curzio chiese ai componenti la nobile assemblea se non
ritenessero che il valore dei suoi cittadini fosse «il bene piú
bello e necessario» che Roma possedesse. Avutane risposta affermativa,
si armò di tutto punto, montò sul cavallo da combattimento
e, dopo aver scongiurato gli Dei perché tenessero fede alla loro
promessa, allentò le redini e al galoppo sfrenato si precipitò
nell’abisso, che prontamente si richiuse, inghiottendolo. A perenne memoria
del suo eroico gesto, il luogo venne denominato Lacus Curtius.
Una località
fissa però esisteva dove tale passaggio poteva avvenire sempre,
ed era il lago di Averno, presso Baia, nei Campi Flegrei. Non a caso la
Sibilla Cumana aveva il suo speco, l’antro oracolare, proprio a ridosso
del sulfureo specchio d’acqua, evitato persino dagli uccelli: da cui il
nome. Cosí descrive il luogo Virgilio nel Libro VI dell’Eneide:
«Era un’atra
spelonca, la cui bocca
fin dal baratro aperta, ampia vorago
facea di rozza e di scheggiosa roccia.
Da negro lago era difesa intorno,
e da selve ricinta annose e folte.
Uscía de la sua bocca a l’aura un fiato,
anzi una peste, a cui volarvi sopra
con la vita agli uccelli era interdetto;
onde da’ Greci poi si disse Averno».
[trad. Annibal Caro]
In Grecia l’adython
di Eleusi, una grotta nel tufo, immetteva ai Misteri di Demetra e al regno
di Ade, che ne aveva rapito la figlia Persefone; mentre la Sibilla Delfica
vaticinava protesa su una voragine del monte Parnaso, dalla quale esalavano
vapori capaci di destare in lei la capacità divinatoria che le proveniva
direttamente da Apollo.
Nell’antica tradizione
gaelica di Irlanda e Scozia, alcune caverne dette uatha mettevano
in comunicazione con gli inferi. Da una di queste, quella di Cruachan in
Irlanda, uscivano stormi di uccelli color del fuoco, al cui passaggio piante
ed erbe inaridivano. Ma il vero transito riconosciuto per l’aldilà
si trovava in una grotta sull’isola del lago di Derg. Era soprannominata
“purgatorio di San Patrizio”. I pellegrini vi sostavano a lungo, e alla
fine della loro permanenza, che poteva durare giorni, assicuravano di essere
stati in un mondo dove erano entrati in contatto con le anime in attesa
della liberazione, partecipando alle loro sofferenze.
Ma non sempre
il varcare tali soglie immetteva in luoghi tetri e infernali. Chi ad esempio,
secondo la tradizione leggendaria tibetana, riusciva a individuare la porta
di ingresso ad Agharti, accedeva a un favoloso luogo di amenità
sconfinate, proprio al centro della terra, che non è occlusa dal
magma incandescente, bensí cava e allietata da una natura ricca,
benigna e popolata da esseri straordinari.
Sempre nella catena
himalayana, in un luogo tra l’India e il Tibet, ci sarebbe un passaggio
verso l’arcano regno di Shambala, lo Shangri-la leggendario, dove uomini
saggi e sereni, governati dal prete Gianni, hanno instaurato una società
giusta e timorata di Dio, in armonia con la natura e con gli altri esseri
creati. Secondo Elena Blavatsky, la fondatrice della società teosofica,
l’ingresso al mitico regno si troverebbe nel deserto del Gobi, mentre il
grande orientalista italiano Giuseppe Tucci lo situa in una regione attraversata
dal fiume Tarim, che nasce dalla catena degli Altyn Tagh.
Cosí come
solo in certi luoghi dotati di particolari qualità magnetiche e
misteriche è consentito il passaggio tra il nostro mondo e un al
di là benigno o maligno che sia, anche solo in determinate circostanze
temporali è dato che esseri ed entità appartenenti a mondi
e dimensioni “oltre” vengano a visitare gli uomini della Terra. I primi
giorni di novembre rappresentano una di queste eccezionali evenienze misterico-temporali
in cui molti popoli del pianeta hanno constatato, nel corso dei secoli,
l’aprirsi di un varco tra il nostro e il mondo dell’aldilà. Da qui
le anime dei trapassati o di altri spiriti, beati o inferi, sciamano all’incontro
con i vivi, ai quali erano legati durante la loro esistenza fisica, o ai
quali vogliono concedere grazie o procurare angosce.
In India in questo
periodo si celebra il Divali, la Festa delle Luci. Milioni di fiammelle
poste su terrazze e finestre rischiarano la notte, tracciando un immaginario
sentiero che conduce dalla realtà umana a quella divina. Quel devoto
chiarore rappresenta allo stesso tempo l’illuminazione della conoscenza
che vince sulle forze del Male. In questo spirito viene ricordato anche
il mito del ritorno di Rama dall’esilio, dopo aver liberato l’amata Sita,
simbolo dell’amore eterno, e dopo aver sconfitto il demone Ravana, signore
delle tenebre, che la teneva prigioniera.
I cinesi celebrano
la festa di P’u-tu, equivalente a Ognissanti, per allietare i Kuei,
i fantasmi degli antenati che vagano in cerca di cibo e calore.
Lo Shinto giapponese
vede nel disco lunare un coniglio che prepara l’omochi pestando
il riso in un mortaio. Secondo il vecchio calendario, chi mangia l’omochi,
una focaccia di riso a forma di luna piena, nel giorno del cinghiale, ai
primi di novembre, nell’ora del cinghiale, circa le nove di sera, si rende
immune da ogni male e degno sia di ricevere i favori delle entità
benigne sia di esorcizzare gli influssi negativi di quelle maligne vaganti
in questo periodo. Il primo di novembre è altresí il giorno
che i giapponesi dedicano ai fari, le sorgenti di luce che guidano i naviganti
verso sicuri approdi.
I popoli Celti
tra la fine di ottobre e i primi di novembre celebravano il Capodanno,
il Samhain. Il giorno precedente la festa, salutavano i morti: portando
cibi e fiaccole si recavano ai tumuli sepolcrali, i dolmen che sorgevano
presso i circoli sacri dei cromlech, e qui trascorrevano la notte
intrattenendosi con canti e libagioni mentre i bardi declamavano i meriti
dei defunti. Sulle colline bruciavano i falò di devozione, rischiarando
il cielo, cosí che i morti potevano tornare sulla terra richiamati
da quelle confortanti fiamme. Era l’Halloween, la “veglia per le
anime sante”. Il giorno dopo festeggiavano il nuovo anno, il Samhain,
perché i semi gettati nella terra cominciassero a germinare e dalla
morte rinascesse la vita, in un ciclo senza fine: dalla sorda fatica invisibile
la futura gioiosa esplosione di fiori e frutti. Esportata da scozzesi e
irlandesi in America agli inizi dell’Ottocento, la sacra veglia celtica
per le anime sante è stata col tempo volgarizzata, popolandosi di
spettri, streghe, orchi e diavoli, trasformando gli adepti e i celebranti
in queruli mendicanti di dolci e regali. E tutta la valenza misterica dell’antico
evento si esaurisce ormai nella tremolante fiammella di un moccolo posto
all’interno di una zucca scavata e incisa a riprodurre un teschio.
Ma non tutto del
mistero e della grazia degli antichi costumi muore o si degrada. Da noi,
nel Veneto, tuttora in certe zone di campagna remote i contadini pongono
focacce di grano e bicchieri colmi di vino e di acqua presso le immagini
dei morti familiari. Nel Meridione, ai bambini si regalano dolcetti chiamati
“fave dei morti”, delizie di marzapane che dovrebbero sostituire le carezze
di chi non c’è piú: anime che nella notte tra Ognissanti
e il giorno dei defunti fluttuano fino alla porta della casa che un tempo
era la loro per chiedere asilo e conforto.
Tra i morti che
non riposano, alcuni trovano rifugio nelle notti di Ognissanti e dei defunti
presso l’isola Tiberina, a Roma: qui, la Confraternita dei Sacconi Rossi
celebra il rito di suffragio per gli annegati nel Tevere. L’isola è
illuminata da migliaia di piccole lampade a olio, dette “padelle”, poste
sui due ponti e disseminate lungo le banchine del fiume e sui davanzali
degli antichi edifici. Si recitano preghiere, si affidano alla corrente
ghirlande di fiori per i morti delle acque, per tutti i morti che attraverso
la luce della memoria ritornano a vivere.
Immagini:
– «Terra cava»
– Il cromlech di Stonehenge durante un Samhain
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