Viveva nelle profondità della terra spingendo l’acqua che colava lungo le fratture della roccia verso la sorgente. Abbeverava gli animali del bosco, rendeva rigogliose le erbe e i fiori. Un tempo era stata onorata. Gli uomini le portavano doni, bruciavano incensi, si immergevano in caldi pensieri di preghiera. Poi tutto era cambiato.
Era iniziato con un’improvvisa luce accecante che era penetrata sino al centro della Terra pervadendola di qualcosa che Nant ancora non conosceva. Era qualcosa che portava con sé il calore del sole come se questo fosse sceso dall’alto dei cieli ad incontrare la sua sposa celeste, ad abbracciare la figlia dell’Universo che trepidamente l’aspettava. Cosí Lo vide Nant e vide che quello che per gli uomini era soltanto la morte di un altro uomo, per lei era il dono piú grande. Come scintillarono le gocce d’acqua nelle piccole cavità del suolo! Pareva che tutte le preziose stille fossero diventate diamanti: e il mondo non fu piú lo stesso.
Passarono gli anni. Nant vide che gli uomini non avevano visto quello che lei aveva potuto ammirare. Essi avevano ormai da tempo perduto la facoltà di sentire anche solo la sua presenza e non riuscivano a pensare ad altro che a se stessi, al loro universo fatto di piccoli poteri effimeri, inseguendo ricchezze senza vita, mentre lei ancora custodiva i gioielli intarsiati nella pulsante vita dello scorrere delle acque. Non ci furono piú doni, Nant venne dimenticata. Eppure qualche elfo di passaggio le raccontava, di tanto in tanto, come tra gli uomini c’era chi continuava a sapere della sua esistenza e dell’esistenza del suo mondo. Lentamente, con il trascorrere dei secoli, qualcosa stava maturando, come le timide gemme quando la terra si scuote dal sonno dell’inverno cercano la luce del sole e il calore dell’aria nuova della primavera. Alcuni uomini sapevano.
Estati colme di luce e calore passarono prosciugando la poca acqua che Nant cercava nelle profondità per donarla alle sue creature. Gli inverni rapprendevano la superficie della piccola pozza in fiori di ghiaccio. Le nebbie sfioravano i rami degli alberi, e gli amici di Nant, elfi e silfidi, giocavano a rivestirsene come di umidi manti intessuti di preziosi cristalli, cosí come con la neve, cosí come con la pioggia. E Nant sentiva sorgere in sé una nostalgia. La nostalgia degli uomini. Erano saggi gli gnomi delle rocce, sapevano tante cose e allegra era la brigata delle silfidi che saltavano sui petali dei fiori o seguivano cantando il volo degli uccelli, ma quella era la loro immutabile natura mentre gli uomini erano cosí diversi… Gli uomini soffrivano, piangevano, gridavano improvvisamente, ridevano come nessuno dei suoi animali sapeva fare e infine, meraviglia, cambiavano forma lasciando cadere i loro pesanti corpi affidandoli alla terra e innalzandosi dove lei, Nant, non sarebbe mai giunta. Nant sentiva la mancanza delle attenzioni che gli uomini d’un tempo le dedicavano e scoperse di provare qualcosa che prima non conosceva. Era un’emozione nuova, un calore struggente, e spesso paragonò lo stillicidio dell’acqua nelle piccole grotte sotto la collina a quello che a volte aveva visto sul viso degli uomini come se anch’essi avessero delle piccole sorgenti là dove due ferite nel loro capo permettevano loro di guardarsi attorno. Nant non trovava una parola nella sua lingua che significasse amore, ma era questo che aveva lentamente, nel corso dei secoli, scoperto dentro di sé: un amore che ormai pervadeva la terra come il calore pervade i corpi viventi di animali e uomini. Questo la faceva sentire sola; infatti, l’amore, quando nasce, ci fa accorgere di essere soli, e cerchiamo immediatamente di trovare qualcuno che possa condividerlo.

Un giorno avvertí due esseri che si avvicinavano e non erano come gli innumerevoli altri che erano venuti prima. Questi, uno piú vecchio, l’altra, una ragazza, avevano in loro stessi una consapevolezza diversa, una sorta di intensità, come se avessero rafforzato una loro parte costitutiva, quella che permetteva di lasciarsi riempire di immagini e parole. Si accorse che sapevano che lei esisteva. Se ne meravigliò e fece maggiore attenzione. La fanciulla levò un piccolo vaso e a Nant parve di tornare indietro nel tempo: qualcuno le faceva un’offerta, di nuovo, dopo tanti secoli, e con una consapevolezza di sé tanto diversa.
«Gli uomini antichi non sapevano – si disse Nant – sognavano. Questi due sanno!»
La ragazza immerse un dito nel vasetto e Nant sentí la fragranza del miele: quante stagioni erano passate da quando ne aveva colto la profumata purezza! La giovane spalmò il miele sulla pietra davanti alla sorgente e Nant se ne cibò come non faceva ormai da troppo tempo. L’uomo piú anziano era ancor piú strano. Viveva in lui una tristezza profonda, antica quanto lei stessa, ma anche una forza inusuale. Nant ricordò quello che le aveva raccontato uno gnomo viaggiatore che veniva da una lontana e verde contrada del Nord: «Ho rivisto un uomo che mi era amico, lui faceva finta di nulla, ma io l’ho riconosciuto e salutato. Mi ha fatto piacere», aveva concluso con una piccola scossa di terremoto del tutto innocua. L’attenzione di Nant si rivolse a questo personaggio interessante. Timidamente allungò una mano fatata, fatta di nulla, verso la mente e il cuore dell’uomo. Lui l’avvertí subito e cominciarono a dialogare mentre intorno c’era silenzio e la giovane donna era assorta nel gioco degli amici di Nant che nuotavano nell’acqua senza bagnarsi, che accarezzavano le foglie senza toccarle.
«Vieni, ti mostro la mia casa», disse Nant usando i pensieri dell’uomo.
«Va bene, ti seguo».
Allora gli mostrò le infinite gallerie del sottosuolo pervase di un debole lucore, e gli fece notare come in realtà non erano gallerie ma costruzioni, le mura della sua dimora, perché le stanze vuote erano la roccia compatta e gli ornamenti della casa erano le gocce d’acqua. Gli spiegò che per lei era vuoto quello che per gli uomini era pieno e viceversa. Gli fece gustare il profumo della terra umida del quale si cibava da quando nessun uomo le aveva piú portato le sue offerte.
Da allora spesso quell’uomo e la giovane donna erano tornati, a volte portandole del miele, altre volte del cibo, oppure anche soltanto un fiore. Nant era felice e si convinse che c’era un legame tra lei e quegli esseri che non sapeva ancora di amare.
Un giorno, la primavera era appena finita per lasciare all’estate la prepotenza del calore col quale stordiva la terra, vide avvicinarsi il suo nuovo amico umano. Ma c’era qualcosa che non andava. Era affranto, stanco, deluso, dolente. Nant si preoccupò. Vide poi che quell’uomo perdeva sangue. Nant temette che morisse, che l’avessero colpito, che, uscito dal corpo, potesse andarsene dove lei non poteva seguirlo, per poi tornare chissà quando, chissà dove, chissà con quale aspetto. Nel suo sentirsi dolente, l’uomo dedicò comunque quelle rosse gocce a lei, a Nant. Allora le esplose dentro un affetto tenero che le fece trovare un’immagine corrispondente alla parola amore. Ed erano fragole rosse come il sangue di lui. Lei gliele offerse sperando di guarirlo, di aiutarlo, di farlo rimanere sulla terra. L’uomo sentí subito la presenza di Nant e seppe che una mano fatata l’aveva condotto lungo il sentiero delle fragole, ne mangiò e si commosse.
Allora ci fu un impeto di immagini e i due si parlarono, come si parla dove non c’è lingua, dove non c’è suono.
«Queste fragole sono per te, mangiale. Se avessi mani come le tue ti accarezzerei».
«Grazie, grazie mia buona fata dell’acqua» disse l’uomo.
«Se un giorno troverò una donna che possa prestarmi il suo corpo, potrò amarti».
«Si dice che l’uomo che ama un essere della natura ha vita breve» osservò l’uomo.
«È vero – rispose lei – ma solo se non viene corrisposto, e tu sarai corrisposto!»
Passarono i giorni. Nant si accorse che l’uomo aveva incontrato una donna che gli era amica. Era una creatura particolare. Un incidente l’aveva tolta dalle incombenze della vita d’ogni giorno pur non immobilizzandola. La donna aveva bisogno di calore, di compagnia, e provava ammirazione per l’uomo. Nant si rese conto che poteva essere arrivato il momento di mantenere la sua promessa.
L’uomo invitò l’amica a fare un giro proprio presso la sua dimora, nelle valli che lei conosceva tanto bene. Nant prese immediatamente in prestito il corpo di una volpe e attraversò la strada davanti ai due che stavano arrivando. Sapeva che l’uomo avrebbe capito. La volpe è simbolo di un amore del tutto incarnato, che per Nant era il muoversi di forze potenti: quelle forze che incantano gli umani e fanno loro perdere il senno.
L’uomo si fermò e guardò negli occhi la piccola volpe, ferma sul ciglio della strada. L’animale aveva una fissità insolita, un’intensità inconsueta, e l’uomo sentí sorgere dentro il nome che aveva attribuito alla fata dell’acqua: Nant, che in gallese significa sorgente. Cosí portò l’amica a contemplare la luna sopra la valle, a sentire la brezza tra i rami, a immergersi nella pace vestita di oscurità. Nant scivolò dentro la donna e si abbandonò alle carezze dell’uomo. Com’era forte il mondo degli uomini! Quando lui si fuse con lei in tutte quelle carezze, Nant seppe che gli dèi avevano prima creato gli uomini e poi avevano tratto dagli uomini tutto, anche lei. Cosí si sentí parte dell’uomo.
Quando se ne uscí come un sospiro dalla bocca della donna, che si sentiva appagata come se avesse avuto piú di quanto avesse potuto sperare da un incontro nato da tanto recente conoscenza, Nant guardò dall’alto i due corpi privi della scorza che indossano gli uomini. Salutò allora l’uomo con quello che per le fate è un sorriso e caddero dal cielo alcune gocce di pioggia.
Ora l’uomo l’aspetta, e Nant aspetta lui. Sa che quando sarà venuta l’ora di abbandonare il corpo alla dea Madre, l’uomo passerà, libero da ogni peso, presso la sorgente, la prenderà per mano e la condurrà con sé dove si forma il destino, dove nascono i raggi del sole.

Martino Ambrosio

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