Poesia

Scandito da tangenti luminose,
traccia l’ovale un’infinita ellisse
di ludiche sequenze. Ormai partita
la corsa non si ferma, è una cadenza
di eventi: dopo inverno, primavera,
e poi di nuovo estate. Una vicenda
reiterata di strappi e di abbandoni.
Qui sugli spalti brulicano assenze
di voci umane e forme, tutto avviene
nella sfera sottratta alla materia,
alle caduche leggi che la ispirano,
regno presente in rarefatte essenze.
Non odi suono o incitamento, ma
dentro le cose, muto, un grido erompe
e le trascina a vivere, le spinge.
Cosí, dopo la neve torna giugno,
e il penetrante fuoco del solstizio
contro la volta azzurra va tracciando
dall’aurora al tramonto prodigiose
parabole di ori e di ametiste.
A quelle astrali meraviglie offrendosi
fa da crogiolo l’ampio anfiteatro.
Nel bagliore del sole che declina
riverberante dietro l’Aventino,
lo stilo del cipresso sorto al culmine
della spina del Circo fa piú tenue
l’ombra allungata sulla ghiaia e i letti
di malva folta, lungo il terrapieno
– l’inferriata del carcere da cui
cavalli e bighe partono al segnale
del Gran Mossiere, giudice e fattore
della cosmica arena circolare –
il popolo ombrellato degli aneti
in un bianco disordine si affretta
a precipizio giú fino alla conca
d’acqua verdastra, forse la sorgente
del dio Mercurio, dissepolta e ancora
pullulante tra il muschio, o sempre viva
la fonte delle vergini Camene
che modula profetiche armonie
in mezzo a un’anarchia di fiori ignoti,
bottoni d’oro e capolini viola.
Proiettandosi a picco sul quadrante
dell’immensa radura che s’incurva,
lo gnomone dell’albero ammonisce
la flora scompigliata, la richiama
all’ordine del tempo, al suo fluire
secondo schemi e regole inviolabili,
nell’incessante agone della vita.
Un altro giro è prossimo alla fine,
doppiando la colonna della mèta
che impietosa ricorda ai concorrenti
chi è ancora in lizza e chi abbandona il gioco.
Un altro anello, il giorno si consuma,
ore che pungolandosi l’un l’altra
s’affrettano al traguardo. Ed è un frenetico
scalpitare tra polvere e nitriti
di sfrenati cavalli, schiocchi duri
dalla frusta del vento. A chi la corsa?
Fiammeggianti pupille con impressa
l’acuminata furia degli zoccoli,
sferzate delle code, le criniere
madide di sudore, dilatate
froge protese alla ricerca d’aria,
mentre solchi piú fondi nella sabbia
s’incidono ai passaggi turbinanti
e i mozzi delle ruote danno lampi,
repressa rabbia, vittoriosi aneliti.
Ma tutto accade nel silenzio, tutto
è vorticare occulto, un’invisibile
gara segreta cui si vota il mondo.
Pure, al suo fiato che traborda e giunge
per onde rifrangenti a queste rive
di carnali tangibili certezze,
l’erba si screzia e fugge, scorre ai lati
del tracciato che vira su se stesso,
involve i suoi meandri, le sue spire;
eludendo l’inganno steli e foglie
cercano libertà nei vasti prati.
E l’auriga del cuore brama spazi
e voli tesi verso cieli aperti.
Ugualmente il cipresso, che dirama
serti colmi di resine e di bacche
e in dolce solitudine regala
sollievo del suo balsamo alla sera,
complice il buio di inattese tregue.
Ma la corsa non termina. Domani,
appena l’alba accende le sue luci,
riprende con piú foga il mulinello:
stagioni che si alternano a stagioni,
giorni lanciati in fuga nella pista,
destini che si bruciano e risorgono,
l’ora piú bella dopo l’ora triste.

Fulvio Di Lieto

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