Puntualmente ogni estate,
nei luoghi di villeggiatura, si accende un contenzioso che vede come oggetto
le campane delle chiese. Siano esse minuscole pievi montane, parrocchie,
santuari o basiliche, tutte rischiano di dover mettere la sordina ai campanili
alla cui sommità oscillano i cosiddetti sacri bronzi. Il fatto è
che gli ospiti degli alberghi, specie di quelli piú blasonati, ma
anche gli affittuari di ville e residence, mentre tollerano le aggressioni
acustiche di ogni sorta che li tormentano nelle città da cui fuggono,
mal sopportano sia fisiologicamente sia a livello psichico le risonanze
variamente modulate delle campane. La paranoia da batacchio spesso si estende
parossisticamente anche al tintinnabulum dei carillon che, montati
in cima alle torri campanarie, hanno accompagnato lo scorrere del tempo
delle comunità rurali e paesane, integrando e gradualmente sostituendo
l’opera dei banditori di grida, alla cui stentorea qualità vocale
era affidato, oltre alle cronistorie minute dei fatti e misfatti locali,
anche lo scandire delle ore, prima che gli orologi di ogni forma e precisione
si diffondessero urbi et orbi.
Tanta squillofobia da parte
dei vacanzieri si giustifica in parte con la poca o nulla dimestichezza
degli abitanti di città con i suoni per cosí dire naturali.
I versi degli animali, il frusciare dei boschi nel vento, il rumoreggiare
della risacca, il canto dei lavoranti all’aperto, fanno ormai parte di
un corredo arcaico di fenomeni umani e ambientali ai quali la gente inurbata
non è piú adusa.
Non è però
la sola spiegazione per l’idiosincrasia da rintocco. Va messa in conto
una generalizzata avversione dei piú per tutto ciò che richiama
il sacro, il devozionale, secondo l’antica consuetudine degli uomini di
rapportarsi al divino con i mezzi e i modi di cui dispongono.
Ma come e quando è
nato nell’uomo il bisogno di utilizzare le proprietà sonore di alcuni
elementi per ricavarne segnali da indirizzare ai suoi simili? E quali virtú
ha voluto riconoscere nel particolare linguaggio dei suoni che da quegli
strumenti scaturivano? Secondo la leggenda, fu il biblico Jubal a notare
per primo come il martello che il fabbro Tubalcain batteva sull’incudine
traesse un suono particolare dall’urto dei metalli. Le civiltà antiche
attribuivano alle prime forme di campane – ricavate per lo piú da
piastre di metallo o di pietra percosse da bastoni, martelli o corde –
un potere apotropaico, esorcizzante. Il loro suono poteva infatti allontanare
dal luogo dedicato alle assemblee di culto i cattivi geni e i dèmoni.
Sappiamo che il suono delle campane si propaga in onde concentriche verso
l’esterno raggiungendo la sfera fisica dell’uomo e anche la sua dimensione
eterica. Quelle emanazioni possono altresí profondamente influenzare
il mondo animale e vegetale.
Cimbali e sistri di rame
e argento scandivano le cerimonie nei templi egizi e greci e piú
tardi a Roma, nel culto di Cibele importato dall’Oriente. Sempre a Roma
i Salii, nella processione di marzo dedicata a Marte, danzavano
e saltavano percotendo gli scudi ancili e agitando sistri e campanelli
appesi alle armature votive. Tuttora in Sardegna i Mammutones, nelle
processioni e sfilate folcloristiche, saltano facendo tintinnare i sonagli
di rame di cui sono abbondantemente ricoperti.
In Cina, gong e chung
(lastre di pietra e rame) venivano fatti vibrare per fugare gli spiriti
maligni, e in Giappone all’interno dei templi shinto i dotaku di
bronzo, percossi da grosse funi, garantiscono ancora oggi ai fedeli benessere,
prosperità e grazie divine: dopo aver battuto due volte le mani,
i postulanti offrono una moneta a ricompensa.
Campanelli, ghanta,
e sistri, dorje, costituiscono nella tradizione del buddismo tantrico
i principali oggetti rituali e rappresentano simbolicamente destità
e saggezza.
Le prime comunità
cristiane adottarono anch’esse campanelli e cimbali di bronzo e argento
durante le cerimonie nelle catacombe. Le forme di questi strumenti erano
per lo piú cilindriche o ricavate da patere a bordi rialzati che
venivano percosse dall’esterno. Dobbiamo arrivare al IV secolo per incontrare
la prima forma di campana, cosí come è stata tramandata fino
ad oggi: una coppa di bronzo rovesciata al cui interno un’asta di metallo
oscilla urtando alternativamente le pareti e ricavandone un suono ora grave
ora tinnulo, a seconda della lega usata nella fusione e della dimensione
della campana. Una forma che ricorda, secondo un’analogia naturalistica,
il calice di un fiore con al centro il pistillo.
Paolino, vescovo di Nola
nel 400, vedeva invece nella campana la bocca umana contenente la lingua
in continuo colloquio con Dio, per lodarlo, per pregarlo, per esprimergli
amore e per chiedergli incessantemente di potersi santificare. Fu lui a
ordinare la fusione della prima campana. Dalla Campania, culla appunto
delle campane, l’uso di dotare le chiese di torri campanarie si estese
a tutta la cristianità. Il primo a imitare il vescovo Paolino di
Nola fu l’abate del monastero benedettino di Sangallo, in Svizzera, nel
612, seguíto da papa Stefano III, che nell’anno 752 fece erigere
a Roma un campanile con tre campane per la basilica di San Pietro.
È certo che a Nola
lo sviluppo dell’arte campanaria fu possibile grazie alle tecniche di fusione
del bronzo ereditate dai Greci e dagli Etruschi, di cui molte città
partenopee erano state colonia. Riprese dai Romani, quelle conoscenze si
erano diffuse rapidamente in tutte le regioni conquistate da Roma. Il cristianesimo
utilizzò la trama di strade e scambi creata dalle legioni per veicolare
il messaggio evangelico e gli usi rituali delle prime comunità.
I fiamminghi in particolare,
a partire dall’VIII secolo, presero a coltivare la sacra infatuazione del
vescovo Paolino, e dotarono i luoghi di culto di campane di ogni dimensione
e fattura. Metalli preziosi come l’argento vennero legati con rame e stagno,
sí da conferire al suono sublimi risonanze. E alla ricercatezza
delle qualità dei materiali di fusione si accompagnò una
sorta di gara per le dimensioni.
Per commemorare lo zar di
tutte le Russie, Pietro il Grande, venne fusa a Mosca nel 1734 per il Cremlino
la campana detta tzar kolokol, di 198 tonnellate, tuttora la piú
grande mai prodotta. Da considerare che il “campanone” di San Pietro pesa,
in confronto, “appena” 14 tonnellate.
Gli inglesi, per innata
propensione all’eccentricità, si dissociarono dalla competizione
di lega e peso, imboccando una via del tutto unica: l’armonia combinata
di piú campane, il cosiddetto change ringing: un metodo per
produrre variazioni nelle sequenze di note con gruppi da 5 a 12 campane,
tutte intonate alla scala maggiore, con la piú grave formante il
tenore e la piú piccola il soprano. A tal punto venne spinta la
loro ricerca tonale, che furono stilate apposite tabelle matematiche che
stabilivano le possibili combinazioni armoniche. Veri e propri concerti
si effondevano e tuttora si effondono nei cieli d’Albione dai campanili
dotati di tali serie di campane, messe in funzione da esperti e patiti
della materia.
Se gli insofferenti vacanzieri
ascoltassero tali modulazioni portate alla sublimazione sonora e melodica,
forse riuscirebbero a rieducare all’armonia il loro orecchio, viziato dagli
esasperati decibel della dimensione urbana. Assordati come sono da tubi
di scappamento, clacson esponenziali, amplificatori di discoteche e altre
selvagge rumorosità, riprenderebbero il filo del dialogo interrotto
con la natura e la divinità.
Immagine: Il
re Davide suona le campane – capolettera da un codice miniato del XIII
secolo
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