Fino all’esplosione del razionalismo filosofico greco, l’uomo e la
divinità si erano confrontati apertamente nello scenario delle vicende
storiche dei vari popoli alla ricerca di identità etniche e culturali.
Nei momenti di maggior contrasto si erano avute da una parte le pratiche
idolatriche (Vitello d’oro), le trasgressioni sfrenate (Sodoma e Gomorra)
e le sfide intemerate e superbe (Nemrod), dall’altra la risposta divina
con punizioni eclatanti, globali, al limite della spietatezza: ripudi,
diluvi, pestilenze, cataclismi e carestie.
Tuttavia, sia nell’uno che nell’altro caso, la ribellione e il castigo
costituivano la sanzione implicita dell’esistenza dell’altro. Che fossero
panteisti, animisti, politeisti o monoteisti, gli uomini, a qualunque razza
o nazione appartenessero, ritenevano incontrovertibile e irrefutabile che
una dimensione trascendente popolata di essenze ed entità metafisiche
esistesse oltre la realtà fisica, e che forze ed influenze sovrannaturali
o subnaturali agissero nell’ambito della vita terrestre e di quella cosmica.
Ma era previsto dal Mondo spirituale che il razionalismo filosofico
greco portasse nel tempo l’umanità al materialismo ateo. L’uomo,
svincolato dalla tutela del divino, doveva sperimentare per intero la pania
della fisicità, scendere al punto piú estremo di lontananza
dal trascendente, e da qui, dal nadir dell’immanenza, risalire allo zenit
della spiritualità, nella consapevolezza non solo dell’esistenza
di un alto Fattore, ma della propria essenza fatta di materia angelica
in divenire.
Naturalmente tale progetto sfuggiva al pragmatismo razionale dei filosofi
greci, che avevano il compito di liquidare l’apparato esteriore formale
delle religioni, alleggerirle degli orpelli dogmatici e delle raffigurazioni
mitiche, immaginative e simboliche del mondo e dell’essere. Loro precipuo
compito era di provocare la nascita del pensiero e della comprensione concettuale
riguardo alla materia esistenziale e universale. «Quando il pensiero
senza immagini si desta nella mente, essa avverte la separazione tra il
mondo e l’anima. Il pensiero diventa il suo educatore verso l’indipendenza»(1).
Cosí definisce Steiner quell’operazione di distacco dell’uomo dal
divino. Piú avanti osserva che fu però un’autonomia pagata
a caro prezzo. Con Democrito l’intelletto universale, nous, diventa
ananke, necessità incosciente e accidentale della natura.
«…Il pensiero, invece di essere esperienza animica, non è
piú che l’ombra interiore della natura disanimata. Con Democrito
appare già il prototipo concettuale di tutte quante le concezioni
piú o meno materialistiche del mondo che verranno fuori nei tempi
ulteriori. …L’anima, mercé il pensiero, sperimenta se stessa, ma
nello stesso tempo si sente staccata dalla potenza universale, spirituale,
indipendente da essa, che le conferisce sicurezza ed appoggio intimo»(2).
Fu cosí che il sofismo speculativo e il razionalismo filosofico,
producendo il realismo, l’atomismo e tutti i vari ismi a partire
dalla scuola di Mileto, portarono l’umanità dalla metafisica alla
logica matematica. Gradualmente fecero sí che l’uomo, svegliandosi
a ogni nuovo giorno della sua vita, invece di pronunciare forte e chiaro
il suo grazie al Creatore per le meraviglie di cui era beneficato, cominciasse
a chiedersi il perché di tutte le cose, dei suoi stessi sentimenti
e pensieri, di ogni minima sua azione. E dallo scetticismo all’agnosticismo
e all’ateismo il passo fu breve. Protagora, il primo filosofo a subire
un processo per ateismo, affermava che «è inutile tentare
di spiegare e indagare la divinità, visto che non ne sappiamo nulla».
Era la dichiarazione di morte della divinità, suffragata da
autorevoli sillogismi e quindi degna di credito morale e culturale. Gli
intellettuali, nel voler sradicare il dogmatismo, le formali pratiche devozionali
dei semplici e la superstizione, provocarono anche la caduta del sacro
mettendo in discussione l’onnipotenza del divino e poi la sua stessa esistenza.
Con la “morte di Dio” i suoi Avversari di sempre vincevano una mossa
decisiva nella millenaria contesa: decretando la non-esistenza della divinità
veniva dichiarata anche l’inesistenza del Male. Ed era quanto bastava agli
Ostacolatori dell’Uomo.
Il predecessore dell’attuale Pontefice romano, Paolo VI, per aver a
un certo punto riaffermato con papale fermezza che il Maligno esiste, e
che non è affatto un’utopia astratta ma un’entità operante
nella nostra quotidiana realtà, provocò la sollevazione coram
populi della quasi totalità degli intellettuali e uomini di
scienza, cosiddetti laici. Chi dissentí, pochi, da questa corale
e veemente alzata di scudi da parte del gotha ateo-progressista, venne
tacciato, al pari di quel rigoroso Pontefice, di oscurantismo, di caccia
alle streghe, e venne aggregato alla schiera degli epigoni di Torquemada.
Per cui, quella che avrebbe potuto costituire una presa di coscienza sul
vero stato delle cose nelle vicende morali del mondo, si spense, soffocata
dalla pronta reazione di chi crede di tutto sapere e di poter tutto spiegare
con formule matematiche e diagnosi mediche. Come nel caso dei recenti fatti
di cronaca nera nei quali, alla efferatezza dei delitti si accompagnano
le altrettanto gratuite e incomprensibili motivazioni psicologiche e pratiche.
Perché una ragazza adolescente uccide sua madre e suo fratello,
perché tre ragazze normali trucidano una suora e altre due, da tutti
considerate brave e studiose, eliminano una loro compagna di classe? E
perché infine un serial killer sopprime, con fredda determinazione,
incolpevoli e a lui sconosciuti malcapitati?
«Qui non c’entra il diavolo, ma la malattia mentale» cosí
ha spiegato in un articolo una famosa antropologa. Guai a ricadere nel
tenebrore di medievali superstizioni, ha diffidato l’esperta. E secondo
un abusato canovaccio, ha tirato in ballo Freud e tutta la congerie di
argomentazioni positivistiche, affermando che non di possessioni diaboliche
si è trattato, bensí di patologie mentali del profondo che
hanno causato quegli inspiegabili delitti.
Ma è solo schizofrenica la molla che ha spinto ad agire gli
autori di quei crimini e che arma sempre piú spesso la mano di tanti
autori di stupri su innocenti, di stragi e sevizie su inermi, o c’è
qualcosa di oltre e di altro, un quid che sfugge ai razionali cervelli
pragmatici come quello in dotazione alla celebre antropologa materialista?
Dilemma antico quello tra follia e possessione, tra Male e Bene. Ecco
come Herman Melville, nel suo Moby Dick, espone i termini del problema.
Siamo sul Pequod,
la grande baleniera oceanica in rotta verso il Mar del Giappone, la zona
dove il gigantesco capodoglio bianco è stato avvistato. Il capitano
Achab ha appena arringato la ciurma di ramponieri e fiocinatori, istigandoli
all’odio contro la mostruosa creatura che lo ha menomato nel corpo, e contro
la quale cova da tempo la sua vendetta. Il primo ufficiale, Starbuck, lo
affronta, deciso a farlo desistere dal quel folle progetto del quale prevede
un inevitabile esito distruttivo:
«Vendetta su di uno stupido bruto che ti colpí spinto
solo dal piú cieco istinto! Che pazzia! Mi pare un’empietà,
capitano Achab, accanirsi contro un essere bruto».
«Ascolta ancora un po’… Ti darò piú ragguagli.
Tutte le cose visibili, uomo, sono solo maschere di cartapesta. Ma in ogni
accadimento, nell’atto vivo, nel fatto certo, proprio lí, qualcosa
di ignoto, ma in ogni caso di ragionevole, fa sporgere il profilo delle
sue fattezze oltre la maschera incosciente. Se l’uomo vuole colpire, colpisce
attraverso la maschera! …Per me la Balena Bianca è quel muro che
mi sta davanti. A volte penso che al di là non ci sia niente. Ma
per me è sufficiente. Mi impegna; mi completa; vedo in essa una
forza oltraggiosa, sostenuta da un male imperscrutabile. Quella cosa imperscrutabile
è l’oggetto principale del mio odio; la Balena Bianca può
esserne l’agente, la Balena Bianca può esserne il mandante: io quell’odio
lo dirigerò su di essa»(3).
Secondo l’intellettualismo etico della filosofia greca, Socrate giudicherebbe
Starbuck un uomo virtuoso, che rientra nel modello del perfetto capitano
in quanto «nessuna persona, in qualunque grado di comando, in quanto
è capo, mira al vantaggio proprio, né lo impone, ma a quello
del subordinato al quale dà l’opera sua, e con lo sguardo rivolto
a lui e a ciò che gli è utile e conveniente, dice tutto ciò
che dice, fa tutto ciò che fa»(4).
Ma come potrebbe giudicare invece Achab? Questi, uomo abilissimo nel suo
ruolo, marinaio eccellente e comandante tra i migliori su cui l’isola di
Nantucket possa contare, non segue la deontologia del filosofo. Infatti,
la cosa giusta da fare sarebbe di dare ascolto al primo ufficiale, cristiano
credente, e tornarsene a casa. Le stive sono colme di barili di spermaceti,
la pesca è stata quanto mai proficua, sono trascorsi due anni dalla
partenza e molti dell’equipaggio desiderano rivedere i loro cari, riascoltare
il suono delle campane, bearsi dell’erba nuova, dei fiori di cui la natura
del New England è florida nella buona stagione. Ma Achab si è
affacciato su un abisso che lo atterrisce e lo seduce allo stesso tempo.
Lo ha catturato la vertigine del cupio dissolvi. Egli è noncurante
della sicurezza della nave e del benessere dell’equipaggio; non considera
che il pescato darà da vivere agli orfani, alle vedove e agli anziani
della comunità nantucketese. Ritornare ora sarebbe la cosa piú
umana, piú giusta, piú etica e virtuosa da farsi. Eppure
Achab, anima antica che segue la regola dell’“occhio per occhio”, aizza
la ciurma, la plagia, la rende succube e incapace di sottrarsi al maleficio
della sua distorta ragione. Ecco, la ragione, dovrebbe servire a ben consigliarlo,
a fargli cogliere il vero tornaconto del bene. Ma egli deliberatamente
prosegue oltre ogni logica e convenienza. Starbuck lo capisce. Ha la voglia
e la possibilità di eliminare il Male al suo parossismo. Ma nel
momento di mettere in atto il crimine e uccidere Achab, si ritrae, desiste.
Perché se lo facesse eliminerebbe una creatura bruta, ma pur sempre
fatta da Dio a sua immagine e somiglianza. Ligio al dovere, anch’egli s’inabissa
col Pequod in un cosciente sacrificio. Il suo gesto può essere capito
e accettato solo da chi ha una visione trascendente del mondo, dei suoi
esseri e fenomeni ed è consapevole che il Male aspira ad essere
reintegrato nel Bene attraverso l’opera dell’uomo. Questi non può
camminare, sentire e pensare senza il divino. Se lo fa si avventura in
un oceano sconosciuto popolato dei mostri che la Ragione eletta a divinità
e feticcio produce e moltiplica.
Oggi la scienza e il sapere si affacciano sul baratro di Achab, e molti
dei suoi rappresentanti lo sfidano, lo sorvolano con ali di Icaro. La filosofia
avrebbe dovuto avvertire gli uomini, tutti gli uomini, e guidarli, additare
il porto dove risuonano le campane e l’erba nuova e i fiori segnalano la
primavera. Non lo ha fatto, e ora corre ai ripari elaborando nuove formule.
Ogni filosofo ha la sua, brevettata, per garantire una via d’uscita dal
tempio giacobino dell’Essere Supremo di Robespierre, altra chimera per
compensare l’assenza della divinità. Allo stesso modo era stato
necessario ai filosofi greci elaborare il concetto di “Demiurgo”, di “Intelletto
agente” e di tutti gli altri espedienti sofistici che dovevano surrogare
il bisogno di sacro e di trascendente insito nell’anima umana.
Cosí Massimo Scaligero descrive il fallimento dei maestri della
Ragione. «La rinuncia del filosofare al suo còmpito ha permesso
che nella cittadella della filosofia si accampassero gli pseudo-filosofi
come i dialettici e i funamboli matematici del discorso, i definitivi distruttori
del senso interiore del pensiero: coloro a cui interessa l’oggetto del
pensiero, non la sua verità, o la sua essenza»(5)
e ancora «…Abbiamo ricordato il pensiero di Novalis circa la sintesi
di tutto il filosofare come impulso di amore divino che tende a farsi amore
umano, attraverso la conoscenza: perché, invero, questa solo vale
in quanto mediazione di qualcosa che la trascende. Ove la filosofia tradisca
un simile còmpito, cessa di essere mediatrice del Divino nell’umano,
quale fu concepita in antico in momenti felici di apertura della mente
umana allo Spirituale, onde essa era intesa come scientia divinarum
humanarumque rerum»(6).
(1)R. Steiner, L’evoluzione
della filosofia dai presocratici ai postkantiani,
F.lli Bocca, Milano 1949, p. 17
(2)idem, pp. 47-48
(3)H. Melville, Moby
Dick, cap. XXVI
(4)Platone, La
Repubblica, Libro Primo, Cap. XV
(5)M. Scaligero, La
logica contro l’uomo, Tilopa, Roma 1967, pp. 226-227
(6)M. Scaligero, Prefazione
al libro di P. Scanziani I cinque continenti, Ed. Elvetica
Immagine: Louis David «Socrate»
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