era
una volta in un paese d’Oriente una principessina dagli occhi a mandorla,
i capelli neri e la pelle bianca e vellutata come un fiore di loto. Per
questo le avevano dato il nome di Fior di Loto. La piccola principessa
era molto felice, perché tutti, dai genitori all’ultimo dei sudditi,
l’amavano per la grazia e la gentilezza dei suoi modi. Anche gli animali
della reggia la prediligevano e gli uccelli del parco, quando passeggiava,
l’accompagnavano cinguettando e saltando di ramo in ramo.
Fra questi uccelli c’era un usignolo,
che ogni notte modulava il suo canto da un albero che stendeva i rami fin
quasi sotto le finestre della principessa. Cosí Fior di Loto spesso
veniva svegliata nel cuore della notte da quel canto e, infilate le pantofoline
di seta, si affacciava a una delle finestre nella speranza di vedere l’uccellino.
Il fogliame dell’albero era, però, cosí fitto e rigoglioso
che la principessa non riusciva a vedere l’usignolo neppure quando c’era
la luna. Allora Fior di Loto ritornava nel suo letto e si incantava ad
ascoltare quella melodia, fino a che gli ultimi trilli, come stanchi, si
spegnevano e a lei si chiudevano gli occhi. Fior di Loto si riaddormentava
e sognava mondi fatati, dove i fiori raggiavano di luci multicolori ed
esseri silenziosi e leggeri camminavano come volando. Un sentimento di
dolcezza, allora, pervadeva nel sonno la principessa, che si svegliava
sorridendo.
«Hai fatto dei bei sogni,
piccola mia?» le chiedeva la nutrice.
«Sí, ho sognato di
nuovo quel paese fatato».
«Com’è fortunata
la mia bambina a fare sogni cosí belli!»
«Perché? Non li fai
anche tu, nutrice? E non li fanno tutti sogni cosí belli?»
«Eh no, bimba mia, gli dèi
mandano i bei sogni solo a quelli che amano».
Fior di Loto si sentiva felice
e le sembrava di vedere il paradiso con tutti gli dèi che la guardavano
amorevolmente. A un certo punto, tuttavia, l’usignolo non tornò
piú. Passarono gli anni, e la piccola principessa divenne una bellissima
fanciulla.
La vita di Fior di Loto trascorreva
serena, ma in fondo al cuore sentiva nostalgia per quel canto di paradiso
che non udiva piú da tanto tempo. Cosí una notte, quando
ne fu risvegliata, corse alla finestra e chiamò l’usignolo.
«Piccolo, dolce usignolo,
menestrello della notte, che rallegri la luna e le stelle col tuo canto
di paradiso, ti prego, vieni da me!».
E l’usignolo volò sul davanzale.
Fior di Loto non osava toccare quel piccolo essere che la guardava con
gli occhi vivaci e girava il capino ora qua ora là, con rapidi movimenti
come fanno gli uccelli. Poi ricominciò a cantare e, stranamente,
nelle modulazioni del canto la principessa percepí un significato.
L’usignolo le raccontò di un paese molto lontano, dove un giovane
principe giaceva ammalato di una misteriosa malattia che nessun medico
era riuscito a guarire. Il principe soffriva ma non tanto da morirne, e
sarebbe vissuto fino a quando lei, Fior di Loto, non fosse giunta a guarirlo.
Solo lei, infatti, e nessun altro poteva guarirlo: doveva perciò
affrettarsi a partire, perché il cammino era lungo.
L’usignolo promise, infine, che
l’avrebbe seguita nel suo cammino e avrebbe vegliato su di lei, ma non
si sarebbe piú fatto vedere se non quando la principessa ne avesse
avuto bisogno. Poi volò via. La notte non era ancora trascorsa e
Fior di Loto tornò nel suo letto. Sognò che qualcuno la chiamava
e le sembrò di vedere, molto lontano, un grande letto sovrastato
da ricche cortine su cui giaceva qualcuno, un giovane, ma il volto non
riuscí a distinguerlo. La mattina, appena sveglia, andò nelle
stanze dei genitori e raccontò loro ogni cosa: ciò che le
aveva detto l’usignolo e il sogno che aveva fatto. A quel punto chiese
il permesso di partire. Il re e la regina erano perplessi e non avrebbero
voluto dare il consenso al viaggio, ma riconobbero che quella era la volontà
degli dèi, che avevano inviato l’usignolo come messaggero, e si
rassegnarono. Cosí Fior di Loto, salutata dalla corte e dal popolo,
partí verso il suo destino, accompagnata dalla nutrice e da un seguito
di servi e soldati che dovevano proteggerla.
Cavalcarono a lungo per pianure,
colline e montagne, guadarono fiumi e attraversarono molti paesi, e in
ognuno di essi chiedevano se abitasse là un giovane principe ammalato,
ma la risposta era sempre negativa. Intanto il tempo passava e Fior di
Loto diventava sempre piú bella: i capelli neri le incorniciavano
il volto, e gli occhi a mandorla, dalle lunghe ciglia di seta, si aprivano
su un viso dalla pelle splendente come il fiore di loto di cui portava
il nome. Un giorno giunsero ai piedi di un’alta catena montuosa, uno di
quei massicci tipici dell’Oriente, con picchi che sembrano giungere fino
al cielo e altipiani sui quali sembra di essere molto vicini alle stelle.
Era inverno, e la neve copriva tutto il paesaggio circostante, le montagne
e l’altopiano, sul quale Fior di Loto e il suo seguito si erano accampati.
Il cielo era grigio e basso, e presto avrebbe nevicato di nuovo. La principessa,
però, incantata dalla bellezza del luogo, chiese alla nutrice di
poter fare una passeggiata da sola. La donna si oppose, ma Fior di Loto
insistette tanto, e tanto la tranquillizzò, che alla fine acconsentí,
dopo averle fatto indossare un caldo mantello e pesanti calzari, e dopo
averle fatto promettere che sarebbe tornata presto.
Cosí Fior di Loto si avviò
verso le montagne, ma dopo un po’, nell’entusiasmo della passeggiata, dimenticò
le raccomandazioni della nutrice. Intanto aveva ricominciato a nevicare
a piccoli fiocchi, ma la principessa non se ne preoccupò, pensando
di riuscire a tornare all’accampamento prima che la nevicata aumentasse.
Invece, di lí a poco, nevicò cosí abbondantemente
che, quando Fior di Loto cercò di tornare indietro, non riuscí
piú a ritrovare la strada. La principessa si spaventò e si
guardò intorno smarrita, ma poi si fece coraggio e si rifugiò
in una caverna che si apriva lí vicino, sul fianco della montagna.
Aspettò a lungo nella speranza che la nevicata finisse, e intanto
era scesa la notte. Nel buio Fior di Loto pianse per la paura e la solitudine,
ma alla fine, stanca, si addormentò. E sognò l’usignolo...
L’uccellino era posato sul ramo di un grande e vasto albero in un giardino
meraviglioso. Nel sogno sembrò a Fior di Loto di sentire il profumo
dei fiori e di udire il canto melodioso di tanti uccelli fra il fogliame
degli alberi. L’usignolo le disse di non temere la solitudine, perché
da ora in poi avrebbe dovuto cercare da sola il paese del principe ammalato.
Il suo seguito l’avrebbe cercata e, non trovandola, sarebbe tornato indietro,
ma lui, in sogno, avrebbe rassicurato la nutrice e i genitori.
Quando Fior di Loto, all’alba
del giorno seguente, si svegliò, non tentò neppure di ritrovare
i suoi compagni di viaggio: il compito che doveva portare a termine spettava
a lei sola e da sola doveva affrontare le difficoltà. Fuori della
caverna trovò uno yak, che brucava i rari sterpi che spuntavano
dalla coltre nevosa e si sentí felice, perché aveva capito
che quello era il nuovo compagno di viaggio, che gli dèi le avevano
inviato. Infatti lo yak si mostrò molto docile con la principessa
che si era avvicinata per accarezzarlo e, quando Fior di Loto gli saltò
in groppa, si avviò come se già sapesse dove andare. Insieme
attraversarono altipiani, valli e montagne, superarono villaggi e città,
e in ognuno Fior di Loto chiedeva se abitasse là un principe ammalato.
La principessa, per sostentarsi, si adattava a fare qualsiasi lavoro nei
luoghi in cui si fermava, dalla sguattera alla lavandaia, dalla tessitrice
alla contadina, purché le dessero del cibo e degli abiti per coprirsi.
Ma ormai della principessa dalla pelle delicata era rimasto ben poco in
Fior di Loto che, per le mani callose e la pelle abbronzata dal sole e
ispessita dalle intemperie, sembrava una contadina o una pastorella. Col
suo fedele yak, che la portava in groppa quando era stanca, coprí
miglia e miglia, finché giunse un giorno in un paese ricco di fiumi
e di laghi, che rendevano fertile la terra e rigogliosa la vegetazione.
I boschi erano pieni di selvaggina, e le montagne, coperte di fitte foreste,
avevano un sottobosco ricco di macchie che davano in abbondanza frutti
selvatici. “È davvero un paese felice questo”, pensò la principessa,
mentre camminava in mezzo a quella natura cosí feconda.
Giunse al primo villaggio e, come
sempre, chiese se ci fosse qualche lavoro da fare, ma si accorse che gli
abitanti di quel paese cosí ridente avevano un’aria mesta. Meravigliata,
chiese la causa di quella tristezza e le fu risposto che il loro giovane
principe giaceva da anni ammalato. Tutti i piú illustri medici erano
stati chiamati al suo capezzale, ma nessuno era riuscito a guarirlo. Nell’udire
ciò il cuore di Fior di Loto diede un balzo di gioia: finalmente
era giunta alla fine della ricerca... ma come introdursi nella reggia?
Quella notte la principessa, dopo
tanto tempo, sognò di nuovo l’usignolo che cantava. Pareva dirle
di non temere, e cosí Fior di Loto si fece coraggio. Si rimise in
cammino, giunse nella capitale del regno e si presentò a palazzo
reale chiedendo di fare la tessitrice e la ricamatrice. Riuscí cosí
a entrare nel palazzo e a farsi assegnare una stanza appartata in una torre,
dove poter vivere e lavorare. Fior di Loto, allora, cominciò a tessere
un finissimo lenzuolo di seta e quando fu tessuto, cominciò a ricamare
il paese che aveva visto tanti anni prima in sogno, quello con gli esseri
fatati che sembravano volare lievi sulla terra, con i fiori che irraggiavano
luci dai molti colori e, infine, l’usignolo con le piume variopinte e la
gola spiegata nel canto. A guardarlo, quell’uccellino ricamato, sembrava
quasi di udirne i trilli. Intanto, man mano che il lavoro procedeva, le
mani, il viso, la pelle del corpo di Fior di Loto riacquistavano l’antica
finezza, la vellutata bianchezza del fiore del loto.
Quando il lenzuolo fu terminato,
risultò talmente bello che la regina, per rallegrare il suo triste
figlio, ordinò che fosse messo sul suo letto. Il principe riconobbe
nel disegno quello stesso paesaggio che, di tanto in tanto, gli compariva
in sogno, e nell’uccellino l’usignolo che, di tempo in tempo, veniva a
posarsi sul davanzale della sua finestra, intonando un canto d’amore che
gli infondeva vita e gioia e gli impediva di morire. Chiese, allora, di
conoscere la persona che lo aveva ricamato, e cosí Fior di Loto,
rivestita di ricchi abiti, fu portata dal principe. Appena il giovane la
vide, splendente di bellezza, sentí rifluire in sé la vita
e se ne innamorò: in quella fanciulla, bianca e delicata, aveva
riconosciuto la sposa che gli dèi le avevano destinato. Cosí,
in breve tempo, il principe rifiorí e chiese ai genitori il permesso
di sposare Fior di Loto. Il re e la regina acconsentirono, tanto piú
lietamente quando vennero a sapere dalla fanciulla che era anche lei una
principessa. Fu cosí che i due giovani si sposarono fra la gioia
della corte e del popolo. La prima notte di nozze l’usignolo ritornò
a cantare presso la finestra degli sposi. Poi Fior di Loto e il suo principe
partirono per il paese di lei, per andare a tranquillizzare i genitori
circa il destino che era toccato alla loro adorata figlia.
Immagine: Nicholas
Roerich «L’argenteo regno»
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