SOGNI E SEGNI

AVVERTENZA
Sotto le stelle di Gorizia, sul mattino del 19 agosto 1946, ho fatto un sogno. Ne riporto, nelle pagine che seguono, alcune esperienze. Esse, piú che raccontare dei fatti, vogliono ridestare uno stato d’animo che permetta di comprendere il contenuto e le forme di vita della sesta epoca di cultura, che avrà inizio nel 3573 e che sarà completamente diversa dalla nostra. Qui non si vuol fare una profezia. Persone e avvenimenti sono, nel vero senso della parola, solo sognati. L’elaborazione successiva del pensiero li coordina in modo logico. Tuttavia il racconto ha lo scopo di mettere in mostra la realtà della sesta epoca, anche se la precisazione che esso fa dei luoghi e fatti non è giustificata che dal modo con cui essi sono apparsi nel sogno. Cosí, per esempio, non è detto che la sesta epoca di cultura si svolgerà in Persia e nelle regioni centrali dell’Asia, ma è vero che, in quale parte della Terra debba trovare la sua sede, essa con forze proprie si isolerà e si difenderà dal resto dell’umanità cattiva. L’esempio chiarisce il valore che bisogna dare anche agli altri particolari del racconto.
Il sogno ha dato l’incitamento e il giusto stato d’animo per descrivere un’epoca remotissima dalla nostra. Il resto è pura fantasia, ma una fantasia moderata dalle obiettive conoscenze della Scienza dello Spirito.

Fortunato Pavisi

Gorizia, 19 agosto 1946

I miei amati lettori sappiano
prima di tutto questo:

Io, in unione con il mio Angelo (che amo),
nella mia qualità di Alto Protettore,
per grazia del cielo stellato e decreto del re (che amo),
della Città del fuoco sacrificale acceso (che amo),
nell’epoca oscura e nel tempo della distrutta
già chiamata “la tre volte nata” (che non amo),
poco prima del declino del Sole,
il terzo giorno dell’epoca delle 13 Notti Sante
dell’anno di grazia 4228,
nell’aula delle udienze del mio palazzo,
per l’occasione riccamente addobbata
di velluto azzurro con fregi d’oro,
stando ritto in piedi presso l’ostensorio d’oro
del Sole (che amo),
coi turiboli fumanti ho benignamente ricevuto
una schiera di anime fraterne di fanciulli
che nelle scuole delle mia amata città protetta
imparano le scienze e le arti,
e con loro, in unione con gli Angeli,
mi sono cordialmente per qualche tempo intrattenuto.

Commosso nel profondo del cuore per le amorose
manifestazioni dei fanciulli,
ho detto loro che non li amo meno che il mio
caro figliuolo unico e diletto che si chiama,
“Colui che è l’umile portatore del sublime Spirito del Sole”
– nome che nella favella nostra suona Akarûnanîbar –
e che questo mio figliuolo unico e diletto,
da 12 anni disceso dalle regioni celesti,
abita con la sua amata madre e mia sposa dilettissima
nella nostra casa luminosa e calda
a “Città del Sole” (che sempre amo e ricordo),
capitale del grande e felice regno solare
di Persia (che amo)
e di tutte le sue terre a est, a ovest, nord e sud.

Ho parimenti detto ai miei piccoli ospiti (che amo), che ad Akarûnanîbar,
mio figliuolo unico e diletto,
scrivo e mando non di rado missive in lingua nostra per palesargli il mio costante affetto
e dargli alcuni ragguagli sulle cose che vidi nel mio viaggio verso occidente
e sugli usi e costumi delle genti amate, che per decreto del nostro sovrano (che amo)
amministro per quanto piú posso nel bene e nella libertà.

In aggiunta ho detto ai miei piccoli beneamati visitatori,
che ad Akarûnanîbar, luce dell’anima mia, scrivo quelle cose viste e notate,
che non solo riescono accessibili alla sua mente ancor giovane,
ma appagando il suo desiderio di sapere vivissimamente lo interessano,
tanto essendo diverse da ogni cosa da lui (che amo)
finora vista e conosciuta, perché il mondo
chiaro e solare in cui lui (mia luce) vive
e Dio (gloria e benedizione al Suo Nome)
umilmente serve, non è in nulla uguale,
fuorché per essere entrambi usciti dalle mani
degli Spiriti creatori (che venero), al mondo in cui Io,
in unione col mio Angelo, sto al presente e a cui ho
recato, per volontà del Cielo stellato,
l’ostensorio del Sole, coi turiboli fumanti
e i gonfaloni d’oro del mio re.
Al che i miei giovani amici (siano benedetti)
hanno risposto che non solo amano di tutto cuore
il mio figliuolo unico e diletto
come fosse loro fratello, ma che anche di gran animo
manderebbero a Lui (che amo ed amano)
un saluto affettuoso per lettera, se ciò mi fosse grato,
e inoltre per l’avanti leggerebbero assai volentieri,
non per curiosità ma per senso d’amore,
quanto il mio figliuolo unico e diletto mi scrive
e quanto Io, in unione col mio Angelo,
scrivo a Lui (che amo).

Ho detto grazie ai cari giovani (crescano in salute sempre piú ripieni di Spirito santificante),
per la loro amorevole compartecipazione ai miei affetti domestici,
e che di buon grado mi affretterò ad esaudire il loro tanto amabile desiderio,
purché mi lascino prima il tempo di tradurre nella loro lingua occidentale
il contenuto delle lettere che mando e ricevo, essendo queste scritte
nel linguaggio del Paese del Sole, che essi (che amo) ancora non capiscono
e che è diverso da ogni altra favella umana
come il giorno e la notte.

Al che quelle anime benedette di giovani innamorati delle parole savie degli adulti,
assai meravigliati del mio dire, mi hanno chiesto con garbati modi che mi degnassi
di dar loro alcuni acconci schiarimenti.

Ben volentieri accondiscesi e dissi loro (che amo)
press’a poco le parole che qui di seguito si leggono.

Che la loro lingua era tutta frantumata in monosillabi, e che ogni sillaba corrispondeva a un dato concetto, sicché ne risultava che ogni proposizione fosse un pensiero espresso in parole. Che ogni parola invece del nostro linguaggio intendeva un compiuto corso di pensieri, mentre la proposizione, nel suo insieme, esprimeva l’onda dei sentimenti legati a quei pensieri.
Per dare un esempio, la frase “Io, in unione col mio Angelo, che amo”, che per essere tradotta nella lingua occidentale ha bisogno di non meno di otto parole, è tutta racchiusa nella nostra lingua nella sillaba “Jaach”, che pronunciata da chi non sia del Paese del Sole non ha alcun senso ragionevole. Per la qual cosa la traduzione non solo riesce estremamente difficile, ma dà luogo ad espressioni tanto gonfie e ridondanti, quanto la lingua orientale è chiara e semplice.
Tuttavia, per amor loro, non avrei mancato di usare ogni sforzo di volontà per tradurre, se pur imperfettamente e a senso, le carissime lettere che ricevo dal mio figliuolo unico e diletto, e quelle che a Lui (che amo) invio, nella lingua parlata nella mia amata città protetta.

All’udir ciò
i carissimi giovani (Dio li benedica) assai mi ringraziarono ed Io,
dopo aver a ciascuno di loro fortemente stretta la mano, li congedai, ma prima,
dal mio amico collaboratore per le relazioni, ciascuno si ebbe in dono
un libro nella nostra lingua con pensieri d’amore e immagini a colori in onore della Vergine celeste.

Dopo di allora, nel tempo lasciatomi libero dalle mansioni del mio ufficio,
ho dato spesso opera per rendere in un linguaggio occidentale che almeno in parte
rispecchiasse il nostro, il contenuto delle lettere di cui qui sopra è parola.

Ne è venuto un libriccino che, come mi pare, vien letto
non senza piacevole diletto dai cari ragazzi della mia città protetta.

Scritto a “Città del fuoco purificatore acceso” il dí quarto dopo il compimento della solennità natalizia,
che fu il terzo prima della Luna nuova dell’anno di grazia 4229.

Io, in unione col mio Angelo (che amo),
che son chiamato dai miei fratelli “Testa fiera di ardito leone”, servo di Dio per grazia del Cielo stellato
e condottiero d’eserciti per la benignità del mio re.

Lettere ad Akarûnanîbar, mio figlio unico e diletto,
ed altre da Lui (che amo) ricevute,
volte a senso nella lingua dei paesi occidentali dalla lingua solare di Persia.

L’Io sublime del Sole – Luce, Amore, Vita – sia in me.
Lo conosca Io nei miei pensieri.
Lo ami Io nel mio cuore.
Lo segua Io nella mia volontà.
Ora e in eterno.

All’Io che sei tu, in unione col tuo Angelo, mio unico e diletto figlio,
mando queste parole insieme col mio cuore.

Io – in unione col mio Angelo –
chiamato dai miei fratelli Glapônoskavarâvv, ossia “Testa fiera di ardito leone”,
sacerdote unto dell’ordine del Leone, condottiero d’eserciti per benignità sovrana,
oggi, settimo giorno dopo l’entrata del Sole nel segno del Leone, anno di grazia 4228,
poco dopo l’ascensione massima del giorno
alla testa della mia armata, con tutti gli stendardi spiegati,
sono entrato nella città già nemica di Tertester e ne ho preso possesso, togliendola alle forze malvagie
dell’Avversario del Sole e consacrandola allo Spirito della Luce, per volontà del Cielo stellato
e in nome di Splendâstersôrpe, sommo sacerdote e glorioso re del reame felicissimo di Persia,
al quale re e ai popoli tutti che servono ed amano il sublime Spirito del Sole
annuncio la lieta novella.

Non nuove ti sono queste parole, perché le hai già viste impresse qualche giorno fa. Or ti do qualche particolare sull’entrata del nostro esercito nella città di Tertester. L’avanguardia, con la quale mi trovavo, era composta di non piú di seicento uomini. Giunti in vista della città, ho ordinato agli uomini di innalzare le verdi verghe con il segnacolo del Sole. Cosí siamo entrati in città per la porta meridionale. La nostra gioia era altissima. Gli abitanti ci hanno accolto con indifferenza, tanto erano abituati negli ultimi tempi a cambiar dominatori. Durante il nostro passaggio per le strade, il traffico intensissimo dei veicoli meccanici non venne interrotto, tanto che nelle vie del centro le nostre file finirono coll’essere disordinate. Dalla piazza maggiore, dopo che tutti i nostri ebbero abbassate le verghe, mi avviai a piedi, accompagnato da sei consiglieri, verso i palazzi della reggenza. Durante questo tratto di strada, mi si fece largo. La gente sostava sui marciapiedi incuriosita e a stento si teneva dal ridere. Cosí capii che le nostre figure alte ed eterizzate, chiare e trasparenti, suscitavano l’ilarità di quegli uomini. Anzi, a questo proposito, ti voglio raccontare un episodio accorsoci un po’ prima, e che ci mise di buon umore. Mentre attraversavamo ancora ordinati una piazza, fummo investiti da un lungo convoglio meccanico che come un bolide era sbucato da una galleria sotterranea. All’avvicinarsi della macchina, i nostri si innalzarono a qualche metro d’altezza e andarono a posarsi sui marciapiedi aerei che correvano lungo i piani superiori delle case. La gente, che si aspettava un macello, rimase trasecolata. Le loro facce sfigurate ci fecero davvero ridere.

Fortunato Pavisi

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