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Come per il giovane che impara a suonare uno strumento musicale affatto
sconosciuto, cosí per l’operatore interiore: vengono tentati assetti
sconosciuti, anzi innaturali, per l’anima. Supporre di conoscere in anticipo
ciò che, nel migliore dei casi, si è soltanto capito, è
un errore quasi obbligato per l’orgogliosa coscienza moderna: dunque perdonabile
e superabile non con sterili “esami di coscienza”, ma semplicemente perché
non trova posto nello spazio di un corretto esercizio.
La concentrazione comincia ogni volta e sempre dal proprio principio.
Da un pensiero predeterminatamente voluto: quindi da un atto di Libertà.
Propiziare l’atto interiore con “altro” (rilassamento, ritualismi, ecc.)
è un grosso errore perché il soggetto affida alla psiche,
all’astrale, il comando dell’iniziativa «Non sono tipi speciali di
esercizi che conducono oltre al limite, bensí l’esercizio in cui
si sia veramente capaci di tutta la forza. Non ci si accorge dell’inganno
di cercare questo “oltre” in un altro esercizio e non nell’esercizio che
si fa: parlo in particolare della concentrazione» (Massimo Scaligero,
lettera all’autore del 13 aprile 1970).
Va sottolineato che il punto d’inizio dell’agire interiore nel senso
di queste osservazioni non ha bisogno di particolari qualità o stati
animici.
La ripetuta concentrazione (che diviene un potente strumento di autoconoscenza)
comincia ogni volta da ciò che si è e non da ciò che
si presume essere o che si rimembra essere stati un tempo (sentimento di
potenza) ed i risultati dell’esercizio, spesso dispersi “in un senso di
sconfitta e di vuoto”, dovrebbero insegnare qualcosa anche al piú
testardo o piú illuso degli uomini.
La mole impressionante degli insuccessi nella disciplina della concentrazione,
è preziosa per l’operatore se riesce a non abbandonare il percorso
intrapreso: per una motivazione analoga al fatto di spingere, con ogni
propria fibra per mesi ed anni, un oggetto inamovibile: la posizione dell’oggetto
non si modifica, ma lo sforzo esercitato dal soggetto produce in questi
un progressivo ed inavvertito aumento di forza. Al pari, forze interiori
prima sconosciute e indirettamente sviluppate permettono all’asceta
imprevisti e nuovi avanzamenti.
«Il corpo non c’entra con la concentrazione, la concentrazione
è una assoluta Autorità estracorporea a cui deve tendere
l’esoterista cosciente: la minima inerenza o tensione, yoghica o subconscia,
è il corrispettivo di una debolezza spirituale. L’“Adamantino” è
proprio l’assoluto estracorporeo realizzato nel pensiero, che non è
certo piú pensiero dialettico» (Massimo Scaligero, lettera
all’autore del 26 marzo 1970).
Però ci si sforza! Per concentrarsi il discepolo inizia accentuando
con vigore le sensazioni, contrae muscoli e nervi, pensa subordinato dal
ritmo di un respiro che invade fragorosamente lo spazio interiore. Per
un certo tratto della via questi ostacoli vanno messi pazientemente in
bilancio, coltivando una lucida indifferenza: non esistono soluzioni alternative.
Occorre continuare come se il problema riguardasse un estraneo; resta
da vedere chi si stanca prima: nervi e muscoli o l’insistente attenzione
del soggetto, dedita, per quanto possibile, solo al tema prescelto.
I sentimenti personali, i turbamenti, gli stati d’animo piú
sottili si manifestano per l’asceta come forze che contrastano la logica
essenziale dell’opera interiore proposta. «Non si è l’Io se
non si supera il limite dell’astrale, altrimenti gli esercizi, persino
con possibili ottimi risultati li fa l’astrale, non l’Io. Vi è una
sola attività che giunge da ‘fuori’ ed è il pensiero».
(Massimo Scaligero, lettera all’autore del 9 gennaio 1970).
I moti dell’anima (astrale) non impediti durante l’esercizio, sono
utili nella misura in cui chiedono all’imperturbato soggetto una ulteriore
forza di distinzione del pensiero voluto, dagli impulsi interiori non pertinenti,
a cui non ci si abbandona.
La ripetizione giornaliera (piú volte al giorno) del rito di
dominio sull’ordinario pensiero, diventa per l’asceta di importanza vitale:
la necessità di attingere, sia pur brevemente, alla retta concentrazione
e la “rassegnazione per il risultato dei suoi sforzi” divengono, come una
cartina tornasole, “il giusto sentimento dell’anima”.
La ripetizione (voluta) è il sostitutivo di un impeto straordinario
che ancora non si possiede: è l’inesausto tentativo di vittoria
sulla potenza attrattiva dell’organo cerebrale che ghermendo intellettualisticamente
il pensiero lo traduce e lo riduce al proprio livello.
Quando non ci si accontenti di un benefico riassetto della propria
struttura e quando non ci si arrenda ad un limite prefissato subcoscientemente,
la ripetitività e l’insistenza sul tema, dominata l’iniziale ribellione
dell’anima, apre le porte a piú difficoltose e ineludibili prove
interiori.
Gli stati di coscienza non ordinari e le conseguenti esperienze interiori,
come Rudolf Steiner ha piú volte sottolineato, non presentano carattere
di sistematicità e prevedibilità. Diviene ormai indispensabile
portare a coscienza e a scioglimento le convinzioni confuse ed ingenue:
che la dedizione venga automaticamente premiata, che il benessere interiore
sia indice di sviluppo, che un’illuminazione improvvisa sia molto di piú
di un positivo ma sporadico ed impermanente episodio, persino che un esercizio
fatto bene sia di necessità un esercizio ben fatto. Dunque, gli
obiettivi, anche spiritualistici, della brama non devono venir confusi
con i severi itinerari allo Spirito, a cui l’asceta, pur liberamente, si
conforma con rigore.
Da un certo momento ogni residuo intellettualistico viene espulso dall’esercizio
della concentrazione. Nella coscienza dell’operatore, che ha superato le
sabbie mobili degli automatismi nella ricostruzione dell’oggetto interiore,
diminuisce la spontaneità naturale a pensare: cresce invece la fatica
quando evoca un pensiero. Questa esperienza è per ogni verso rafforzante:
pensare diventa «un lavoro da manovale», per usare le parole
di Rudolf Steiner: mettere insieme quattro pensieri non è piú
immediata sintesi, ma lavoro d’edilizia pesante.
Lo sforzo descritto si palesa nella coscienza come uno stato concreto,
percepito come intriso di forza e realtà oltre l’immagine contemplata
che comunque guadagna anch’essa in chiarezza ed intensità. A fronte
di tale fatica interiore la corporeità magicamente impara il riposo
o quiete che nulla ha a che vedere con il cosiddetto rilassamento. Il riposo
o quiete a cui qui si accenna, è un’esperienza ascetica non collegata
ad alcuna particolare positura e persino non subordinata all’immobilità.
Sul cammino interiore il discepolo può incontrare una resistenza
sottile e potente, che può arrestarlo, poiché su tutta la
vita dell’anima si effonde sofferenza. Si deve allora imparare a vivere
in questo dolore, si deve accettare che l’essere si colmi di dolore. Non
esistono termini per indicarne la natura: si può tentare una caratterizzazione
dicendo che la sofferenza di cui stiamo parlando non è acuta o localizzata
(come per esempio per il mal di testa nel mondo fisico) ma piuttosto totalmente
diffusa e insopportabile.
Per attraversare tale stato, durante la contemplazione, occorre tempo,
affinché maturi, come organo di un essere in via di sviluppo, una
qualità che chiameremo “decisione estrema”, con riferimento al kime
del budo nipponico, per non confonderla con il coraggio che deve comunque
enuclearsi dall’opera interiore senza particolari limiti.
Ad un momento imprefissato dell’ascesi, per attimi non convenuti, l’Essere
della volontà, remoto all’agonia dell’anima, celato eppur presente
all’insistenza dello sperimentatore che contempla l’oggetto di pensiero
con attenzione rafforzata perché univoca ed ininterrotta, annulla
il legame cerebrale: una corrente di forza e di vita inarrestabile estingue
simultaneamente ogni significato umano del tema e l’ordinario senso
di sé, lasciando il percepire all’Io reale: il “veggente non veduto”
perché mai riflesso.
Esperienza di verticalità totale e di semplificazione assoluta:
perduto il mondo e noi stessi, rimane il percepire che ora può contemplare
il fondamento. Le forze e gli esseri del fondamento, poiché è
il fondamento stesso che ora contempla: l’Io, il primo vero sovrasensibile
dell’esperienza spirituale possibile all’entità umana contemporanea.
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