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Con gli umori del tempo, il vento prima
dirupava la duna, poi accresceva
la sabbiosa muraglia, riplasmandola.
Cosí appariva agli occhi, ininterrotto,
un rapido innalzarsi e scomparire
di pinnacoli, guglie e contrafforti
di rena gialla, aizzata in mulinelli
lungo tutta la costa inumidita
dal fiato dell’Atlantico: un fermento
di iodio e marcescenze di sargassi.
Vi si opponeva il balsamo pungente
delle folte pinete che premevano,
inutilmente a ricercare sbocchi
verso la libertà degli arenili,
contro l’erto bastione metamorfico,
incostante Sahara trapiantato
su quelle ormai già nordiche riviere.
Salivamo la china dalla strada
indovinando il mare oltre la cresta
nei presagi di luce, e sentivamo,
vincendo ogni altro suono, la risacca
sciogliere un vasto canto primigenio.
Abbordavano il ripido versante
persone d’ogni sorta, a centinaia,
ma fra tutte spiccavano evidenti,
fieri gli adepti del parapendío:
portavano le ali ad armacollo,
che appena sul crinale dispiegavano,
e giú lanciati a fendere di petto
il vuoto nel respiro dell’oceano,
palpitanti membrane tese all’aria
salmastra, fatta complice negli ardui
giochi sospesi in vorticanti ellissi,
oscillanti complessi virtuosismi.
E c’era un uomo, forse un marinaio
o un essere silvano, d’età incerta,
che alacre lavorava sul declivio
del terrapieno, verso la boscaglia.
Si curvava instancabile a scavare
con le mani gradini, ricavandoli
nel greppo che franava sotto i piedi
di sportivi e turisti alla scalata.
E dove non bastava la tenuta
della sabbia, incastrava tavolette
e reti a rinforzare la battuta
delle scarpe, evitando che il continuo
trepestío provocasse il rovinare
definitivo dei granelli in basso,
spianando la maestà di quel prodigio,
creato e ricreato dall’arcano
estro degli elementi, in una piatta
battigia senza aneliti di altezza.
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Non voleva denaro per quell’opera,
né spiegava il perché della fatica
che si intuiva strenua ed incessante.
Al termine dell’ardua arrampicata
ci ritrovammo, insieme a tanti altri,
anche noi sulla cima, lí restando
presi dallo stupore, affascinati
da quelle sfide umane, antica voglia
di staccarsi dal mondo e, imponderabili,
librarsi, valicare ogni confine,
balenando nel sole. E cedevamo,
deboli noi di piume, alle possenti
suggestioni del luogo: liminare
zolla d’Europa, litorale estremo
prima del grande azzardo, finis terrae,
ciglio del continente, caravelle
pronte a salpare sulle rotte ignote.
Poi ripartimmo, sazi dell’aereo
volteggiare di labili farfalle,
ubriacati dai vividi riflessi
degli spazi marini in cui vibrava
un’acqua con deliri luminosi,
onde su onde, e stanchi di languire
dietro miraggi di isole e partenze.
Affrontammo, tornando, la discesa
sulla balza dorata, e rivedemmo
lo strano personaggio che approntava
la via felice verso le visioni
d’azzurro e meraviglie d’infinito.
Incrociammo il suo sguardo per un attimo.
L’uomo ci salutò, soltanto un cenno
sottratto alla sua muta dedizione
di gesti misurati e soccorrevoli.
Se andate ad Arcachon lo troverete
intento a modellare quella scala,
creatura di marina o di foresta,
presenza elementare, apparizione.
E ancor piú testimone di poesia
che ci ricorda quanto valga prendere
a cuore le speranze d’armonia,
proteggendo la vita e la natura
senza aspettarsi ricompensa, eccetto
quella di cui s’appaga l’interiore
seme d’amore germogliante in noi.
Questo voleva forse ribadire
il Sisifo gentile e sconosciuto
con la sua taciturna liturgia:
assicurarci come l’uomo sia
destinato da sempre a sogno e volo,
e avendo sublimato la materia
ai pegni di sudore grado a grado
meriterà di conquistare il cielo.
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