Alla fine di maggio del 1789, una vettura di posta si fermò
davanti alla Locanda della Scalinata, in Piazza di Spagna a Roma. Ne discesero
due viaggiatori con poco bagaglio e presero alloggio nel modesto albergo.
Si trattava del conte Alessando di Cagliostro e di sua moglie Serafina,
spiaggiati sulla riva estrema della Città Eterna, dopo le burrascose
vicende che li avevano costretti a errare per mezza Europa, prima a Londra
poi in Germania, in Svizzera, a Venezia e in ultimo a Rovereto. La tempesta
che aveva rischiato di far naufragare persino l’unione del Gran Copto con
la compagna di una vita, era iniziata nel 1784 a Parigi con l’affaire
du collier, nel quale erano stati coinvolti il cardinale di Rohan e
Maria Antonietta. Oggetto dell’intrigo una favolosa collana di diamanti,
stimata un milione e mezzo di franchi dell’epoca, che la regina ardentemente
desiderava. Goethe ebbe a dire che l’affaire era stato il primo atto causale
della Rivoluzione francese.
A ben considerarlo, però, l’increscioso episodio della collana,
che di certo non aveva rafforzato le simpatie del popolo per i reali e
la nobiltà, rappresentava solo un sintomo, pur se clamoroso, di
un malessere ben piú profondo di cui soffriva la nazione francese.
I personaggi che vi erano stati coinvolti, a cominciare dai gioiellieri
Boehmer e Bassenge fino alla sedicente contessa de la Motte, piú
che il ruolo di protagonisti incarnavano quello di figuranti mossi da un’occulta
regia che, attraverso l’apparente discredito della corte e della regina,
mirava a realizzare un progetto di dissacrazione dell’Europa cristiana
attaccando le monarchie, ritenute di unzione divina, che reggevano le sorti
dei maggiori Paesi del continente. Questo invisibile potere era in grado
di annientare con ogni mezzo chi, con azioni e strategie di natura spirituale,
osava opporsi a questa segreta congiura, come avevano tentato di fare Cagliostro,
Claude de Saint Martin e il Conte di Saint Germain.
Mentre a Roma Cagliostro terminava la sua prodigiosa parabola di Grande
Maestro dell’Occulto, incontrando il sinedrio dell’Inquisizione e piú
tardi il calvario di San Leo, la Francia iniziava, con la convocazione
degli Stati Generali, la sua vicenda rivoluzionaria che doveva stravolgere
la storia del mondo. L’utopia illuministica gettava la sua maschera filantropica,
mostrando l’anima materialistico-razionale da cui traeva ispirazione e
dinamismo, e restringendo tutte le istanze che per secoli i grandi sistemi
filosofici avevano dibattuto a una sola, traumatica asserzione: la morte
di Dio. Al suo posto la Dea Ragione avrebbe occupato gli altari dove fino
ad allora Cristo e i suoi Santi erano stati venerati. E poiché,
come dice l’adagio, i sogni della ragione producono mostri, quello vagheggiato
da Voltaire e Rousseau, privato della temperanza del cuore, finí
col partorire il berretto frigio e la ghigliottina.

La fede nel progresso della civiltà e nell’emancipazione dell’uomo
guidato dai lumi della conoscenza e liberato dai pregiudizi e dalle superstizioni,
serviva ora da cavallo di Troia alla borghesia. Il Terzo Stato, facendo
passare quelli che erano interessi finanziari e di bottega per nobili princípi
e valori universali ed eterni, si sostituiva alla nobiltà. Questa,
da parte sua, nulla faceva per impedire l’alternanza, al contrario ne sollecitava
la venuta con il suo atteggiamento da cupio dissolvi.
Ma non tutti si fecero ammaliare dalla sirena dell’idealismo razionale
annegato nel marasma rivoluzionario. Molte anime nobili, che avevano creduto
nella promessa utopica di una società armoniosa edificata nel segno
della fraternità, dell’uguaglianza e della libertà, non avevano
del tutto perduto la speranza di poterla realizzare, se non nella Francia
incendiata dall’odio di classe e avviata alla totale dissacrazione dei
valori acquisiti, in altri luoghi della terra.
Una di queste personalità votata ai piú alti ideali era
Jean Baptiste Quéau de Quinssy, giovane aristocratico addetto alle
relazioni diplomatiche presso la Corte di Versailles. Ammiratore del Conte
di Saint Germain, aveva seguito le vicissitudini di Cagliostro durante
l’affare della collana, soffrendo per la persecuzione di cui il Maestro
era stato fatto segno. Calunnie, delazioni, infamie e poi il processo,
dal quale era uscito scagionato ma ormai respinto da un ambiente incapace
di cogliere la grandiosità del suo progetto, che avrebbe posto la
Francia al centro di un nuovo Rinascimento morale e materiale. Il giovane
funzionario di corte custodiva gelosamente la “Tavola dei Tre Maestri”,
il manifesto ideale e mistico di quei tre grandi cultori della tradizione
esoterica e gnostica: Cagliostro, Saint Germain e Saint Martin. Ne ripercorreva
mentalmente i brani che piú l’avevano colpito: «Ai fratelli.
Oggi la rosa fiorirà sulla Croce. …Siate liberi, come liberi furono
i Maestri. E solo sul silenzio costruite la Parola. Cercatela in voi. Sia
sempre la stessa dell’Operazione del Sole. …Spendetevi e vi arricchirete.
…Cercate i sepolcri. Non li ebbero i nostri Maestri, non li avremo noi,
voi non li avrete. Essi vivono, cercateli…»
Tutto ciò era caduto nel vuoto. Il degrado cui era giunta la
corte disgustava il giovane aristocratico. Si sentiva alieno da quel mondo
che declinava in una luce di tragedia imminente. Ma neppure riusciva a
condividere le istanze della borghesia e del popolo che sentiva ispirate
al puro utilitarismo e alla rivalsa attraverso la violenza e la prevaricazione.
Il suo mondo, quello che costantemente i suoi pensieri formulavano, era
altrove, si reggeva su valori antichi e nuovi allo stesso tempo: una Patria
fondata sui princípi dello Spirito, preconizzata dai tre Maestri
a lui cari, e che il turbine rivoluzionario aveva disperso. Era pronto
e deciso a cercarla ovunque.
Fu quindi pronto a cogliere l’occasione offertagli dal suo Dicastero:
le mansioni di attaché presso il Governatore dell’Île
del France, l’odierna Mauritius, nell’Oceano Indiano. Il giovane, deluso
dal presente ma pieno di aspettative per un futuro migliore sotto cieli
sereni, raggiunse la sua destinazione tropicale mentre a Parigi la folla
scatenata prendeva la Bastiglia.
All’Île de France il giovane de Quinssy incontrò un altro
esule sentimentale, Bernardin de Saint Pierre, cui l’isola doveva ispirare
il celebre Paul et Virginie. Ma soprattutto riascoltò le
leggende sul Gondwana, il mitico supercontinente che agli albori del mondo
si estendeva dall’Africa all’Australia e che immani cataclismi avevano
fatto sprofondare, creando l’Oceano Indiano e lasciando emergere terre
superstiti disseminate in una galassia di isole e arcipelaghi. Udí
parlare della Lemuria e delle strane creature di cui era popolata e le
cui discendenze biologiche formavano l’incredibile campionario di fauna
e flora presente nel Madagascar e nelle isole tra l’Africa e l’India.
Ma dietro la realtà di una natura straordinaria, altre forze,
che il giovane poteva solo intuire o avvertire in forma di suggestione,
pervadevano quei luoghi, secondo quanto la Cronaca dell’Akasha ci rivela
attraverso le parole di Rudolf Steiner: «Questo continente …era situato
a sud dell’Asia, a un dipresso fra Ceylon e Madagascar, e comprendeva anche
l’attuale Asia Meridionale e talune parti dell’Africa». Lo stesso
scritto descrive anche il carattere animico e fisico delle popolazioni
che abitavano in quell’antica regione: «Presso i Lemuri la memoria
non era, in complesso, ancora sviluppata. Gli uomini potevano, è
vero, formarsi delle rappresentazioni delle cose e degli avvenimenti, ma
tali rappresentazioni non restavano loro impresse nella memoria;
e per questa ragione i Lemuri non avevano ancora un linguaggio nel
vero senso della parola. Sotto questo rapporto, sapevano produrre suoni
naturali che esprimevano le loro sensazioni, il piacere, la gioia, il dolore
ecc., ma che non indicavano oggetti esteriori. In compenso le loro rappresentazioni
avevano tutt’altra forza che non quelle degli uomini dei tempi successivi
e, per mezzo di tale forza, agivano sul mondo circostante: uomini, animali,
piante e perfino le cose inanimate, risentivano questa azione e potevano
subire l’influenza di semplici rappresentazioni. Cosí il lemure
era in grado di comunicare coi suoi simili senza servirsi di un linguaggio.
Questo modo di comunicare consisteva in una specie di “lettura del pensiero”.
Il lemure attingeva la forza delle sue rappresentazioni direttamente dagli
oggetti circostanti: essa veniva a lui dalla forza vegetativa delle piante,
dalla forza vitale degli animali. Cosí egli comprendeva le
piante e gli animali nei loro processi vitali piú intimi; anzi comprendeva
perfino le forze fisiche e chimiche delle cose inanimate. Se intraprendeva
delle costruzioni, non aveva bisogno di calcolare la portata di un tronco
d’albero o il peso di una pietra; egli vedeva nell’aspetto del tronco
d’albero quanto esso era capace di sostenere, vedeva nel masso quale
era il luogo che meglio convenisse al suo peso. Cosí il lemure,
senza essere ingegnere, costruiva per virtú della sua speciale forza
rappresentativa, operante con la sicurezza dell'istinto. E al tempo stesso
aveva un altissimo dominio sul proprio corpo. Col solo sforzo della volontà
egli sapeva, all’occorrenza, rendere di acciaio il suo braccio; riusciva
a sollevare pesi enormi, mediante il semplice sviluppo della volontà.
Se piú tardi l’uomo atlantico si valse del dominio della forza vitale,
il lemure si valse invece del dominio della volontà. Nel campo delle
attività umane inferiori egli era non si fraintenda questa parola
– un mago nato»*.
I misteri e le leggende che all’epoca circolavano intorno al favoloso
Gondwana, e che colpirono la fervida mente di Quéau, erano suffragate
da fenomeni reali, tra cui uno in particolare: gli strani frutti, simili
a noci di cocco giganti, che venivano chiamati “cocos-de-mer”, che il mare
depositava da sempre sulle spiagge dal Corno d’Africa alle coste del Malabar
in India. Da dove provenivano quei frutti straordinari? Ritenuti anticamente
miracolosi, capaci di guarire svariati mali, erano persino fatti oggetto
di venerazione religiosa, in quanto considerati prodotti dall’Albero della
Vita, o da un prodigioso albero che affondava le sue radici negli abissi
marini.
De Quinssy non si accontentò delle dicerie e delle ipotesi,
e volle indagare piú a fondo. Riuscí a sapere che un capitano
di vascello, Brayer du Barre, anni prima in un suo rapporto all’ammiragliato
aveva riferito di un arcipelago situato pochi gradi sotto l’equatore, a
nord-est dell’Île del France dove la flora e la fauna presentavano
caratteristiche del tutto particolari. Dalle coordinate da lui fornite
si poteva dedurre che si trattasse del gruppo di isole in seguito denominate
Seychelles. Fu cosí che quando dopo alcuni mesi il Governatore decise
di spedirlo quale Reggente proprio alle Seychelles, il giovane Quéau
comprese che il suo destino prendeva la giusta piega.
«Sí, questo è il Paradiso!», dovette egli
esclamare, se non apertamente intimamente, quando la goletta che lo trasportava
gettò l’ancora nella baia di Mahé, l’isola maggiore dell’arcipelago,
dal clima ideale, temperato, senza gli uragani che normalmente devastavano
l’Île de France. I pochi addetti alle piantagioni di vaniglia e cannella
erano persone pacifiche e laboriose. Il mare era pescoso, le foreste davano
frutti in abbondanza e il suolo era cosí fertile che consentiva
raccolti praticamente a rotazione continua, per la cui irrigazione decine
di torrenti a regime regolare discendevano dalle alture di granito che
proteggevano l’isola dai monsoni. Il Governatore dunque, oltre a una carica
politica, gli aveva regalato un regno!
Naturalmente, Quéau riuscí anche a trovare l’origine
dei portentosi frutti naviganti. Nella piccola isola di Praslin, a nord-est
di Mahé, scoprí una valle inviolata popolata di meravigliosi
uccelli, ricolma di fiori mai veduti altrove. E da quell’incanto edenico
di flora e fauna, ecco slanciarsi verso il cielo le altissime palme dalle
infruttescenze gigantesche. Chiamò “Valle di maggio” il luogo da
cui partivano i favolosi cocos-de-mer.
Quella terra cosí armoniosa e provvida era la base idonea per
poter realizzare gli ideali prefigurati dai Maestri. Edificare però
una società perfetta non è impresa facile, nonostante rappresenti
un’atavica aspirazione dell’uomo, forse il suo sogno piú tenace.
Di tale realtà De Quinssy dovette suo malgrado prendere atto dopo
alcuni mesi trascorsi a Mahé. La via marittima per le Indie brulicava
di vascelli, velieri, brigantini e clipper, parte impegnati a trasportare
spezie e merci preziose, parte a farsi la guerra per l’accaparramento di
scali lungo la rotta, dove approvvigionare i bastimenti e calafatarli.
Per la sua posizione strategica, il clima favorevole e l’abbondanza d’acqua
e di prodotti naturali, Mahé rappresentava una preda tra le piú
appetibili.
Spirito libertario e filantropico, incline all’ecumenismo oltre che
al quieto vivere, Quéau voleva invece fare del suo piccolo regno
un luogo super partes, dove ogni uomo si sentisse a casa propria.
La sua politica tesa al cosmopolitismo funzionò egregiamente. Chi
approdava all’isola, a qualunque nazione appartenesse, trovava calorosa
accoglienza, il vessillo del suo Paese che garriva insieme agli altri sul
pennone del Governatorato, e soprattutto assistenza e rifornimento per
la ciurma e il naviglio. Operando in tal modo, De Quinssy riuscí
a governare l’isola per trentotto anni, vale a dire dalla monarchia francese
a quella britannica, passando per la Repubblica giacobina, il Terrore,
il Direttorio e l’impero napoleonico. Quando le Seychelles passarono agli
inglesi, questi, che lo rispettavano, non gli tolsero la carica, anzi lo
insignirono di vari titoli e benemerenze, assimilandolo alla loro anagrafe
storica variando il suo cognome in De Quincy. E dopo la sua morte gli eressero
un imponente cenotafio che si può tuttora ammirare nei giardini
della residenza del Governatore.
Decenni piú tardi, un altro illustre cercatore di paradisi in
Terra approdò nell’arcipelago. Era Gordon Pasha, il futuro eroe
di Khartum. Nella lussureggiante valletta dell’isola di Praslin, la “Valle
di maggio” di Quéau, credette di ravvisare il Paradiso Terrestre.
Dal sottobosco di felci ombrose e tamerischi svettavano le palme antidiluviane
che ombreggiavano, alla loro sommità, i prodigiosi frutti che, navigando,
raggiungevano le coste africane e indiane. Quel verde primigenio, l’intatto
scenario che aveva forse destato lo stupore innocente dei primi abitanti
della Terra, furono la ricompensa per una vita avventurosa spesa a combattere
lo schiavismo, le malattie letali e la miseria, prima di immolarsi nell’estrema
difesa di una città posta ai confini del mondo. Alcuni uomini camminano
sulla terra consumando rapine: di corpi, di anime, di cose. Creature insaziabili,
considerano la natura e la società alla stregua di una riserva di
caccia dove, avendone la capacità psico-fisica, è consentito
fagocitare tutto e tutti. Sul loro emblema campeggia il motto caro al re
Luigi XV: «Dopo di me il diluvio».
Altri uomini camminano invece nella luce dello Spirito e vedono la
Terra e i loro simili come una prodigiosa occasione per sublimare anime
e materia. Questi individui combattono dure battaglie, lotte impari, a
volte vittoriose, spesso perdute. Hanno contro Colui che non dà
tregua, l’Antagonista primo dell’uomo, che non rispetta le regole e non
concede quartiere. Ma il loro compito non è vincere, bensí
lottare, aprire le vie, additare traguardi. E senza attendersi ricompense,
poiché agiscono in ossequio alle leggi divine e per amore degli
uomini. Vivono, come dice il poeta, «balenando in burrasca».
Non temono i naufragi. Poiché, ovunque la marea li farà approdare,
lí ricreeranno la civiltà umana, riprendendo il progetto
di realizzare il Regno di Dio sulla Terra. Neppure la morte li sconfigge.
Dalla loro essenza animica nascono e si propagano i semi di un’umanità
piú giusta e piú santa.
*R. Steiner, Cronaca dell’Akasha, F.lli Bocca Editori,
Milano 1953
Immagini:
– P.A. Dumachis L’esecuzione di Luigi XVI Museo Carnavalet, Parigi
Avvenuta il 21 gennaio 1793, l’esecuzione si tenne sulla “Piazza della
Rivoluzione”, ribattezzata piú tardi “Place de la Concorde
– La spiaggia di Mahé, con le tipiche rocce di granito
– Le gigantesche noci di cocco dette “cocos-de-mer” dell’isola di Praslin,
nell’arcipelago delle Seychelles
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