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Mancavano tre giorni al
solstizio e il grano era alto, maturo, pronto per essere mietuto. Dalle
propaggini delle Ardenne fino alla foresta di Soignes a nord, quasi a lambire
i sobborghi di Bruxelles, le spighe formavano come un mare ondulante sotto
la brezza già intrisa dei tepori estivi. La pioggia aveva imperversato
per giorni, violenta, obliqua, ma ora ampi squarci nelle nubi cotonose
lasciavano fluire luce e calore da un cielo terso, e la terra si asciugava
a quella benedizione. Splendevano pomi e ciliegie nei frutteti, avvicendati
alle distese di frumento.
Uscito sul loggiato coperto
della sua fattoria posta su un rialzo nella campagna tra Nivelles e Waterloo,
il capitano di marina in pensione Philippe Deveer, armato di cannocchiale
scrutava quello scenario agreste nel quale si era voluto isolare dopo quarant’anni
di navigazione sui mercantili in partenza da Anversa. Solo chi ha visto
tant’acqua, era solito dire, e per un cosí lungo tempo, può
desiderare di chiudere la vita circondato dall’erba, sulla solida terra,
testimone del mutare del tempo e delle stagioni. Se possibile, rendersi
anche partecipe e artefice della vita che la terra sa dare agli uomini
che la coltivano. Era diventato agricoltore, e i contadini del circondario
amabilmente e con rispetto lo chiamavano “il Comandante”.
Ai coltivatori della terra
per vari aspetti egli si sentiva affine: come loro – abituati a proteggere
e perpetuare la crescita naturale, a salvare la vita – egli aveva rischiato
la propria non per distruggere uomini e cose, ma per condurli da un porto
all’altro in sicurezza e integrità.
Per questa sua indole innata
di tutore e conservatore, e non di distruttore e sterminatore, tanti anni
prima, al termine dell’Accademia navale di Anversa, aveva deciso di governare
i grandi velieri diretti alle Indie e non di entrare nella Marina militare.
A occhio nudo, commosso,
guardò la terra piatta, il dolce paese irrigato da fiumi tranquilli,
coi borghi adagiati sulle brevi alture senza pretese di svettare, un’armonia
che la gente umile e tenace che l’abitava riusciva a rendere dignitosa
e proficua, a dispetto delle tante battaglie che le grandi potenze vicine
venivano a combattervi: Fleurus, Jemappes, le ultime in ordine di tempo,
avevano devastato la regione e spopolato con le leve coscritte la popolazione
agricola.
Dalla chiesa di Nivelles
il vento leggero gli portò il suono delle campane. Ricordò
che era domenica, giorno dedicato alla pace e al riposo, condizioni che
sembravano però negate da un’occulta nemesi al popolo cui egli stesso
apparteneva. Rimarginate appena le ferite, ricostruite le proprietà,
ricompattati i ranghi, ripristinata l’armonia del paesaggio, ecco di nuovo
la guerra.
Da tre giorni la Grande
Armata di Napoleone aveva superato la Sambre invadendo il Belgio, e gli
eserciti anglo-olandese e prussiano si preparavano ad affrontarla. Lo scenario
aveva quindi mutato destinazione. Agli officianti della vita si erano sostituiti,
rapidi ed efficienti, gli scenografi della morte. Artisti anch’essi, armati
di macabra sapienza e di luttuosi orpelli e strumenti. La campagna si era
quindi riempita di cavalieri e fanti, cannoni e bandiere; la grande compagnia
inscenante il massacro si era sparsa fra dossi e valloni, alle scene bucoliche
e agli apparati agricoli sostituendo le macchine da guerra e, ai fattori
e mezzadri, piumati strateghi intenti a compulsare copioni di cui in realtà
tutti conoscevano le battute, lo svolgimento scenico e la conclusione.
Alieno dalla violenza e
dalla guerra, Deveer si veniva quindi a trovare, in quella particolare
giornata, circondato suo malgrado da uomini il cui successo finale dipendeva
dal numero di nemici abbattuti e dall’entità delle rovine procurate
alla consistenza materiale della parte avversa: morte e distruzione da
cui lo stesso vincitore, alla fine, non sarebbe rimasto esente.
Si trattava semplicemente
di eliminare il maggior numero possibile di attori avversari, quale che
fosse il loro ruolo e la loro importanza. Il tutto con l’aiuto della seduzione
e suggestione scenica. Si utilizzavano pertanto colorite e fantasiose uniformi,
con galloni e alamari, spalline rosse o dorate, fregi e mostrine. E poi
caschi, berretti e colbacchi, arricchiti di penne e coccarde. Nella pianura,
diventata ribalta, caracollavano lenti e solenni i cavalieri, tra balenii
di sciabole e corazze tirate a lucido. Si allestiva, in un tripudio da
parata, la replica di una tragedia millenaria.
«Che succede laggiú,
Comandante?» lo raggiunse la voce di uno dei contadini, richiamandolo
di colpo a un’altra dura realtà: quella dei coltivatori che si erano
rifugiati parte a Nivelles e Genappe in casa di amici e parenti, parte
nelle fattorie come la sua, appena fuori della zona bellica. Vagavano agitati
o rassegnati, in attesa dell’esito della battaglia, che si annunciava imminente.
Non erano interessati piú di tanto alla vittoria o alla sconfitta
del contendenti, benché i belgi fossero della partita, quanto si
auguravano che lo scontro finisse presto e con pochi danni per le fattorie
requisite o evacuate, per gli animali lasciati senza riparo e controllo,
e infine per il grano che andava mietuto al piú presto. Illusi,
pensò Deveer, osservando come gli artiglieri collocavano i pesanti
cannoni, trascinandoli senza cura alcuna attraverso campi e frutteti, schiacciando
le messi, svellendo siepi. Quanto ai casolari e cascine, i genieri muravano
porte e finestre, spianavano le aie dagli alberi, aprivano brecce dove
far passare i carri con le munizioni. Distolse il cannocchiale dallo scenario
per il tempo occorrente a rispondere con calma: «Credo che ci siamo…
Si vede uno strano movimento…»
Durante la notte, l’Imperatore
si era trasferito in carrozza dal quartier generale di Caillou al pianoro
di Rossomme, a ridosso della linea di fuoco. Deveer lo poteva inquadrare
facilmente, ora, mentre discuteva con i generali e ufficiali dello Stato
Maggiore. Puntava le carte che aveva dinanzi a sé, vergava dispacci
raccolti al volo dalle staffette che ripartivano al galoppo per consegnare
ordini ai reparti dislocati sulle ali dello schieramento.
Deveer tenne a lungo fissa
la lente del cannocchiale su quella figura, di cui alla distanza risaltavano
i pantaloni bianchi e i movimenti concitati. Il proverbiale glaciale magnetismo
del genio della guerra sembrava cedere alla frenesia di una condizione
disperata dell’anima. Napoleone giocava la sua partita finale, e Deveer
non lo invidiava. Per riconquistare onore e regalità il Generale,
che aveva tenuto in scacco gli eserciti piú potenti della terra,
era costretto ancora una volta a cercare una vittoria col sacrificio della
vita degli uomini e sulla distruzione dei prodotti delle loro fatiche e
del loro ingegno. Una civiltà, pensava Deveer, qualunque fossero
i suoi ideali e progetti, se faceva avanzare la propria nave usando le
forze propulsive dello spargimento di sangue e della distruzione dei valori
materiali e morali, non poteva che finire nel fango acquitrinoso del vallone
di Waterloo. In un avvicendarsi senza fine di sconfitte e rivalse, da una
parte e dall’altra dei contendenti, comunque fosse l’esito della battaglia
che si preparava, la civiltà umana ne sarebbe uscita avvilita e
confusa.
Intorno alle undici ogni
agitazione si arrestò e il dinamismo operativo delle armate che
occupavano l’area scelta per la battaglia, un quadrato di sette chilometri
per quattro, si trasformò in una tensione estrema, immobile, quasi
palpabile. Anche la figura dell’Imperatore era ferma sul ciglio del pianoro
di Rossomme, protesa a studiare la dislocazione dei vari contingenti: gli
anglo-olandesi a nord – un rosseggiare frammisto all’oro del grano – i
francesi, impantanati nel fango dell’avvallamento, tra il rialzo di Rossomme
e quello di Mont Saint Jean, dove Wellington aveva posizionato il suo quartier
generale e la riserva. Da est, poco prima delle undici, si erano profilati
i prussiani, una bianca trenodia che sfilava rasente la macchia verde cupo
dei boschi di Ohain.
La corda tesa dell’aria
venne spezzata dal primo colpo di cannone, si frantumò come un cristallo,
e i muri della fattoria di Deveer tremarono. Il capitano abbassò
il cannocchiale e una vaga angoscia s’impadroní di lui. Davanti
all’inferno che apriva le sue terribili danze e spalancava l’abisso dei
suoi orrori, gli occhi non bastavano piú, l’amarezza riempiva il
cuore. Il massacro durò fino a tarda notte. Nel buio non poté
nemmeno vedere l’Imperatore mentre abbandonava la scena della sua sconfitta
finale in un concitato galoppo.
In quel giorno fatale, nei
tremendi corpo a corpo, nella falcidia provocata da cannoni, mortai e mitraglie,
avevano recitato il loro canovaccio di crudeltà e ferocia leoni,
aquile e lupi. Durante la notte che seguí vennero sciacalli e iene
a spogliare i morti e a depredare i feriti, di quanto avessero indosso
di preziosi: orologi, borse, danaro, pistole. Bottino di guerra, una tacita
consuetudine, quasi un diritto dei vincitori.
Un sole beffardo nella sua
luminosa epifania illuminò all’alba il campo di battaglia. I morti
lo ignoravano, i feriti ne gemevano. Fu allora che dai paesi e villaggi,
da conventi e beghinaggi, dai cascinali risparmiati, mosse l’altrettanta
possente armata della pietà. C’erano preti e laici, suore e beghine,
donne e uomini. Deveer si uní a loro. Benedicevano, confortavano,
caricavano i feriti sui carri, provvedevano alla sepoltura dei caduti.
La morte era tutt’intorno, aleggiava nell’aria ancora intrisa degli umori
della battaglia, penetrava le anime e avvelenava i corpi. Come un automa
stordito dalle visioni orribili, dai sentori di sangue, immerso in quell’aura
sospesa dalla quale anche la divinità si era eclissata, il capitano
di marina arrivò al punto dove piú violenta e serrata era
stata la mischia, sul dosso tra la Haie Sainte e il Mont Saint Jean. Un
dragone giaceva riverso sull’affusto di cannone dove lo slancio della carica
suicida l’aveva portato. Stringeva ancora in pugno la sciabola. Facendosi
forza, Deveer si avvicinò al corpo riverso: poté meglio vedere
il volto del cavaliere irrigidito nel rictus della morte violenta. In quei
tratti stravolti, neri per l’ustione provocata dallo scoppio ravvicinato,
gli occhi spalancati riflettevano il cielo e la sua tenerezza d’acquerello.
Le iridi registravano il fluire delle nubi. Poco distante dall’affusto
il grano cresceva florido, e quell’uomo, nel pieno rigoglio di una giovinezza
incompiuta, sembrava volesse raggiungere le spighe e mieterle con quella
strana falce rovesciata.
Alcuni giorni dopo la battaglia,
sul far della sera, Philippe Deveer si affacciava al terrazzo della sua
casa di campagna. Molti dei segni del tremendo scontro erano stati eliminati
e i guasti riparati alla meglio. I contadini ancora una volta, ed essi
soltanto, avevano vinto. Quanto ai contendenti sconfitti, avrebbero per
giorni, per anni a venire, enumerato i “se…” che avrebbero permesso loro
di vincere, e i sedicenti vincitori si sarebbero autogratificati per giorni
e per anni per le bocche da fuoco e le bandiere catturate, compiaciuti
e fieri di aver perduto “appena” ventiduemila soldati, rispetto agli avversari
sbaragliati e umiliati, che ne avevano sacrificati trentamila. Tutti, alla
prima occasione, pronti a rimettere in scena l’ecatombe.
Mentre il capitano di marina
pensava queste cose, uno dopo l’altro, nel vasto scenario della campagna
immersa nella prima oscurità della notte, si accesero i falò,
reminiscenza delle antiche celebrazioni celtiche del solstizio, inno umano
al sole trionfante, alla vita vera che riprendeva.
Quei fuochi volevano esorcizzare
le invisibili tenebre del male, consolavano la terra del dolore patito.
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