ESERCIZI

Nei paragrafi che seguono, vengono evidenziate alcune osservazioni che derivano dalla sperimentazione di lavori di gruppo e meditazioni in comune. Ciò è connesso ad un insieme composto da quanto apparso su «L’Archetipo» del dicembre 2000 e alle piú dettagliate istruzioni inviate in seguito da Massimo Scaligero sullo stesso tema.


Una delle piú elementari forme di lavoro rituale, ben conosciuta dalla maggior parte degli studiosi di Antroposofia, è lo studio o lettura di un testo di Scienza dello Spirito, in un giorno ed ad un’ora concordata tra piú amici o in un gruppo, con una cadenza d’incontro solitamente settimanale.
Questa è stata una delle colonne operative del movimento antroposofico dal tempo della formazione dei gruppi, spesso fondati dallo stesso Rudolf Steiner, alcuni dei quali ancora attivi al presente.
Tale lavoro consisteva (e consiste) generalmente nella lettura di un “detto mantrico” dello Steiner, seguito da un breve silenzio, all’inizio ed alla fine dell’incontro; poi, nel mezzo, la lettura di un numero progressivo di pagine di un’opera fondamentale di Scienza dello Spirito, come Filosofia della Libertà, Teosofia, La Scienza Occulta ecc.
Questo tipo di lavoro comune è forse divenuto sterile e ripetitivo accademismo o innalza l’anima degli associati alle luminose ed edificanti Forze attive dei Mondi Soprasensibili? L’esperienza non riesce a fornire in tal senso una risposta definitiva, poiché il lavoro descritto può portare a risultati estremamente diversi.
Se, ad esempio, il gruppo di lavoro si accontenta di sedersi e abbandonarsi, per antichi e subconsci retaggi, o per pigrizia, alla formula del ex opere operato, in realtà attende che l’ambiente circostante (lettura compresa) lavori al suo posto: crei premesse, condizioni e sviluppo. Il carattere di questo tipo d’incontro è meccanico, piú simile ad una sonnambolica liturgia che al tentativo di conoscenza e trasformazione interiore.
In realtà è passato un secolo di accelerati mutamenti da quando il Dottore aveva indicato talune modalità d’incontro: l’uomo è cambiato.
Il sentire sovrapersonale possedeva ancora radici, seppur limitate, nell’anima dei giovani discepoli degli anni Venti a fianco dell’ordinaria vita di sentimento. L’entusiasmo alimentato dai possenti pensieri cosmici, dal rinnovamento ideale e cultuale cristiano e dai nuovi impulsi artistici quali l’euritmia, l’arte della parola ecc., manteneva accesa in molti di costoro, per l’intera vita, una sorta di fiamma interiore, un calore «che perfeziona tutto dal principio alla fine» (G. Pontano).
Si è potuto constatare che diversi tra questi discepoli diretti di Steiner, ora non piú incarnati, apparissero nell’avanzata maturità come involucri trasparenti di luce flammea, precorrendo da vivi la vestizione spirituale che l’entità umana assume quando, abbandonato il corpo minerale, attraversa la Soglia.
L’uomo è cambiato, i tempi mutati: in questi anni la piú sincera garanzia che qualsiasi tentativo esoterico si fondi su solida roccia è data innanzitutto da azioni interiori che, principiando dall’Io cosciente, strappino pensiero e volontà dal decorso ordinario e naturale.
Come sentenzia Geber nel suo Libro delle Bilance: «Solo con giuste premesse i risultati non potranno essere che veri», cosí i risultati di un lavoro in comune dipendono subito dal grado di corretta attività svolta da tutti i partecipanti.
Le qualità che appaiono quali condizioni necessarie per un vero lavoro in comune sono:
il rigoroso rifiuto di ogni forma animica di antipatia e di critica verso qualsiasi membro del gruppo, almeno per il tempo dell’incontro;
uno stato d’animo elevato, ma non ebbro da smarrire una decisa polarizzazione della coscienza nei confronti del tema in svolgimento;
lo sforzo di evitare ogni disponibilità interiore verso pensieri estranei: in special modo quelli di sapienziale collegamento ad altri pensieri rammentabili in relazione al medesimo tema;
la concentrazione assoluta nella lettura: non sulle frasi già lette, ma permettendo all’attenzione pensante il passaggio dal pensiero precedente al pensiero successivo, attenendosi alla comprensione immediata (la “scorza” di Goethe), poiché la capacità sintetica del pensiero è già attiva nel pensiero che pensa, non fuori o dopo di esso;
infine la cosa piú difficile: non fare altro, nient’altro durante il lavoro.
L’elenco probabilmente può bastare: ma poiché in sintesi è piuttosto semplice, a causa di un malanno generalizzato e chiamato ipertrofia dell’ego, tutto viene spesso complicato, impedendo al puro essere del Pensiero di ri-animarsi, rianimando la potenza inerte e non costrittiva che giace nelle parole e frasi del testo di studio che non deve essere culturale o oggetto del giudizio critico ma «deve risorgere immune nell’anima secondo un atto diretto, non prevenuto da alcun itinerario che non sia il pensiero stesso nel proprio immediato movimento» (M. Scaligero).

Affinché la meditazione in comune, comunque difesa dagli ostacoli personalistici per la propria natura adialettica, non naufraghi per carenza di forza al terzo o quarto incontro, abbisogna del supporto vitale della disciplina giornaliera individuale dei pochi partecipanti.
Oltre alla magia del pensiero, ritmizzata come concentrazione, che rimane l’asse portante di tutte le discipline interiori, possono essere indicati gruppi di tecniche ad esempio simili alle direttive di preparazione comunicate nei fascicoli di «Ur» come istruzioni individuali di catena (se separate da ogni sensazionalismo magico). In effetti le discipline della ricapitolazione serale del giorno trascorso, della predeterminazione delle azioni del giorno successivo o, in alternativa, l’atto puro realizzato in brevi episodi su tutto l’arco del giorno e la pratica del silenzio interiore, oltre ad affinare gli “strumenti del rito”, producono una sostanza dinamica nella disciplina che favorisce il sottile rovesciamento della visione del mondo dell’operatore: una sorta di “spostamento dei lumi”. In parole povere vengono assunte dalla coscienza come realtà primarie gli impulsi e le impressioni interiori che sorgono dagli esercizi, e come realtà secondarie le possenti ma passive esperienze ricevute dal sensibile quotidiano: è una scissione di Mondi per la quale l’arte sarà l’entrare e l’uscire dall’uno o dall’altro con rapidità, inafferrabilità, rifiutando la sottile presa del ricordo mistico, magico o sensuale.
Il rito in comune diviene una concentrazione di moltiplicate forze interiori: la coscienza meditativa può aprire un varco vuoto alle forze eteriche precorporee; inizia ad albeggiare una sensazione di libertà, mobilità ed ampiezza mai prima sperimentata.
Per ottemperare ad una disciplina individuale organizzata e quasi continuativa vanno imparate corrispondenti strategie: è necessario conciliare determinazione (tanta!) e coraggio con una progressione attenta e delicata, poiché le forze istintive, se incalzate frontalmente, reagiranno contro l’operatore con un impeto incontrastabile. Se la preparazione intensificata “tiene”, l’asceta sperimenta in sé nuovi e radicali assetti interiori, come ad esempio il diventare letteralmente due esseri diversi: uno che domina l’altro che esegue (a ciò fa riferimento M. Scaligero in Yoga, Meditazione, Magia(1), e che, ripetiamo, va preso alla lettera), oppure la percezione di Mahâkâly ânanda: la gioia pura del Volere che spezza ogni limite, e altro ancora.
Queste note d’antefatto a quanto Massimo Scaligero aveva comunicato ad alcuni discepoli per un iniziale rito meditativo in comune, si giustificano a causa della grande forza necessaria affinché il tentativo non divenga una farsa inutile. In essenza, due sono le caratteristiche indispensabili: la prima è che tutti i partecipanti siano completamente attivi; la seconda che qualsiasi rito esige da sempre un assoluto rigore formale, interiore ed esteriore. Scaligero stesso confermò ciò, in incontri diretti e con esempi concreti che non sono stati piú dimenticati.
Per stabilire e mantenere il massimo livello negli atteggiamenti e nelle operazioni suggerite può essere imprescindibile l’abitudine alla consapevolezza di compiere ogni azione in presenza del Logos, sentito o intuito con elementare ed inconfutabile immediatezza.

Franco Giovi

Rito è ciò che si compie, mediante ripetizione e ritmo, come atto volitivo predeterminato, che colleghi l’animico-corporeo con lo Spirituale: rito sia pure in forma lineare, è il riunirsi un determinato giorno, ad una determinata ora, per studiare insieme Filosofia della Libertà. Rito in senso sacro può cominciare ad essere l’incontrarsi ad una determinata ora, di un determinato giorno, per meditare insieme.
Ci si riunisce, con la massima puntualità: qualche minuto di silenzio, poi uno di voi legge un mantra del Dottore (per esempio quello di Michele) o un brano dei Vangeli, poi si fa penombra o oscurità – ad evitare la reciproca visione fisica – e si medita.
Fino a che il gruppo non sia veramente formato ed armonico, è meglio che ciascuno faccia la sua personale meditazione, cercando di dare il meglio, l’assolutamente meglio di sé.
Occorre un segnale per terminare insieme! Uno di voi può prendersi l’incarico di sorvegliare il tempo (minimo mezz’ora), a dieci minuti prima della fine dare un tocco sul tavolino, cinque minuti prima un secondo tocco, un terzo per terminare (ciò per prepararsi alla fine della meditazione).
Al termine, qualcuno recita ad alta voce i primi 14 versetti del Vangelo di Giovanni. Un minuto di silenzio e congedo reciproco, cercando di mantenere il piú a lungo possibile il tono conseguito.
Un simile lavoro insieme può essere prezioso, condurre molto lontano, se si è capaci di fedeltà alla via del Pensiero.
…Intanto vi auguro il vero lavoro, quello che si compie superando ogni volta, almeno pochi attimi al giorno, la propria possibilità umana, cosí che possa essere sentita la Forza che urge nel mondo, la reale unica presenza dello Spirito: contro cui è schierata tutta la mediocrità umana, con i suoi dialettismi e persino con i suoi conati esoterici(2).

Massimo Scaligero

(1)M. Scaligero, Yoga, meditazione, magia, Ed. Teseo, Roma 1971, p. 96
(2) da una lettera di M. Scaligero all’Autore del 15 agosto 1970
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