È notte profonda.
A udirne il respiro m’attardo
sul solitario verone.
È un canto ch’io odo,
il cielo che trema di stelle.
Tu vieni. Tu tocchi invisibile
la cetra dell’anima mia.
E tutte ne tremano
le magiche corde
in onde di canto che salgono
al cielo trapunto di stelle.
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Fortunato Pavisi nacque
il 1° marzo 1911 e concluse la sua esistenza terrena il 31 luglio 1948.
Egli caratterizzò cosí la sua breve esistenza: «La
mia vita è trascorsa senza grandi avvenimenti esteriori, ma ricca
di avvenimenti interiori, come io l’avevo voluta».
Dai ricordi della moglie
traiamo qualche notizia che ci rivela come tale vita fosse stata ricca,
molto piú di quanto si sia potuto immaginare soffermandosi, a tutta
prima, sugli episodi esteriori: «L’invisibile gli era noto, già
da bambino gli si rivelò. Un raggio di luna lo tolse cosciente dal
suo lettino ed egli mirò dall’alto, distinguendo tutti i dettagli,
il panorama della città, ove allora abitava. Molte volte ancora
si ripeté questo cosciente penetrare in altre condizioni di vita;
il bambino vide e udí cose ed esseri straordinari, che a volte gl’incutevano
spaventi indicibili, a volte lo affascinavano. Questa vita nei mondi supersensibili
era il suo segreto, non volle, o non poté, confidarsi a nessuno.
A misura che, crescendo in età, il suo spirito maturava, gli esseri
che formavano la sua scorta nel regno della notte acquistavano vita e parole,
ed egli cominciò a poetare, con grande ricchezza e spontaneità
di contenuto. Amava l’Antroposofia, che gli divenne chiave del sapere palese
ed occulto cui aveva dedicato la sua vita. Essa ne fu illuminata ed egli
ne era cosciente e pieno di gratitudine. Il silenzio gli fu compagno; il
riserbo suo era tale che, pur vivendo nella stessa città, i suoi
amici appena intuivano il contenuto della sua anima, e furono sorpresi
dalla ricchezza e dalla profondità del suo sapere quando, nel penultimo
anno della sua vita, tenne una serie di conferenze al gruppo della Società
Antroposofica a Trieste».
Ricordandolo, all’epoca
della sua morte, un’amica antroposofa, che lo conobbe e lo ebbe per amico
lungo il corso di venti anni, lo descrisse «…sempre fedele a se stesso
nella ineguagliabile dignità, con lo sguardo luminoso sotto la fronte
nobile. Era allora un giovanetto, aveva diciassette anni. L’Antroposofia
lo aveva afferrato tutto e noi non parlavamo mai d’altro. Quasi nulla so
della sua vita privata. La moglie Marcella ci fornisce qualche cenno biografico:
“Quando Fortunato nacque, suo padre era già morto. La madre, sola,
visse in quell’epoca una tragedia terribile; non era sposata. Dopo pochi
mesi dovette affidare il bambino alle sorelle e partí per sempre,
per necessità di vita. Si stabilí in Egitto, dove adesso
ha famiglia. Fortunato le ha voluto un gran bene. Egli rimase con gli zii,
ma era un bimbo tanto vivace che non sapevano come tenerlo. Venne messo
in un collegio e questa fu la sua sventura. Aveva cinque o sei anni e la
zia, preoccupata di non averne notizie, andò a trovarlo. Orrore!
Le suore, cui era affidato, lo avevano trascurato a tal punto, che egli
stava morendo di fame. Si era cibato per un pezzo dei frutti marci del
giardino; non camminava, non parlava piú ed i suoi capelli erano
tutti bianchi. Per un anno intero rimase all’ospedale, nutrito di latte
che gli porgevano con la goccetta, come ai neonati: non aveva la forza
di mangiare. Si salvò, ma non ebbe mai la pienezza della salute.
Era ragioniere, ma volle dedicarsi all’insegnamento. Di nascosto dalla
famiglia, sostenne l’esame di maestro e vinse un concorso. Si stabilí
a Fiume”».
Continua l’amica antroposofa:
«Sapevo tutto questo, poiché era avvenuto dopo la sua assunzione
nella Società Antroposofica. Prima di andare a Fiume era stato in
Egitto, per curarsi della malattia polmonare che doveva ucciderlo. Era
stato a Firenze per imparare meglio la nostra lingua. Poeta nato, di grande
versatilità, conosceva varie lingue, ma anche in questo era orfano
poiché nessuna poteva dirsi la sua madre lingua, né si arrendeva
alla sua ispirazione. Conscio di tale difficoltà, e chissà
con quanto dolore, studiò e si dedicò alle scienze. Dopo
la liberazione venne a Trieste, malatissimo. Fiume non riceveva rifornimenti
ed era impossibile procurarsi dei viveri. Giunse estenuato e subito ritornò
al lavoro antroposofico, tenendo quasi ogni settimana delle conferenze,
bellissime. Parlò sulla bomba atomica, sulla penicillina, su varie
correnti storiche del passato e del presente, sull’antica Atlantide, sui
concetti di spazio, tempo e luce in rapporto al Padre, al Figlio e allo
Spirito Santo ...e tanto altro ancora. Completava inoltre una vasta opera
drammatica e poetica, in silenzio e quasi di nascosto. I suoi drammi: Ardjiuna,
La lampada che si spegne, Mariella, Una stirpe che si
estingue, Il tesoro nascosto, Giuliano l’Apostata, La
sorte di Capaneo, Contro il destino, Redenzione, e le
sue poesie, dimostrano un progresso di stile ed una ricchezza di contenuto
straordinari. Egli aveva in sé gli elementi di un grande, grandissimo
Poeta».
Ma la malattia progrediva:
«Sempre a letto, scrisse e disse delle cose bellissime; diede raro
esempio di serenità e sopportazione. Tutti gli amici lo andavano
a trovare, ma era una pena vederlo soffrire e deperire sempre piú.
Con una stretta al cuore si scendeva per la viuzza del giardino, dopo aver
passato con lui i brevi istanti di una visita, sempre piena di significato».
Finché giunse
il momento in cui l’affezione polmonare ebbe il sopravvento.
La giovane moglie ebbe
a narrare: «Per due volte egli disse “Cristo è risorto”, io
mi accorsi bene che vedeva qualche cosa. Furono le ultime sue parole».
L’amica aggiunge ancora:
«Eravamo sole nella stanza piccoletta, dove per ben otto mesi avevano
abitato insieme: da quando lui, prossimo a morte, l’aveva sposata in extremis.
Avevano portato fuori uno dei due letti ed al suo posto, su un sostegno
basso, stava la bara, aperta. Sotto un leggero velo traspariva il bel volto
di lui, simile a un fanciullo addormentato; sul petto spiccava una grossa
croce d’oro. Lei disse: “Vorrei conoscere le parole adatte, per accompagnarlo
ora e sempre”. Le avevo scritte ed insieme le leggemmo; un palpito aleggiò
intorno al velo. Noi sapevamo: Egli ci ascolta – eravamo in tre nella stanzetta.
Al funerale lo seguimmo tutti. La sposa ed i familiari non portavano il
lutto, secondo il desiderio di lui. Marcella ci ricevette in abitino di
nozze; il sacerdote che li aveva uniti officiò la messa cantata
nella chiesetta piena di sole. Seguimmo il feretro all’ultima dimora, lo
vedemmo inabissarsi tutto coperto di fiori; non una lacrima. La luminosità
che eravamo abituati a vedere nello sguardo di lui risplendeva oggi dal
viso bianco della sposa. Illusione o realtà? Per tutto quel giorno
un possente suono di campane sembrava risuonare dal cosmo. Una festività
serena era nell’aria. Ricordai l’esperienza mistica, grandiosa, che Fortunato
aveva avuto otto mesi prima. Sicuro di morire, secondo il verdetto del
medico e da come egli stesso si sentiva, chiese al sacerdote di unirlo
in matrimonio con la dolce creatura che da dodici anni gli era promessa.
Dopo la cerimonia, serenamente attese: le forze lo abbandonavano, egli
non opponeva nessuna resistenza, quando un turbine di vento lo sollevò,
egli sapeva di essere nel mondo spirituale, assieme a lui, il suo maestro,
il nostro maestro: Rudolf Steiner. Le parole della fondazione della Società
Antroposofica riempivano il cielo dei loro suoni, quale tuono, musica e
poesia; egli ne comprese il valore per tutto l’avvenire ed anche il mistero
del suo proprio Karma. Fortunato disse ancora molte altre cose, impossibili
a ripetersi. Certo ebbe un’esperienza iniziatica di grande valore; i medici
lo videro riprendere coscienza con stupefazione. Visse ancora otto mesi».
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