L’uomo è un essere
eminentemente finalistico. Fa parte della sua natura di indirizzare ogni
atto che promana dalla sua personalità verso un determinato fine.
Anzi, detto con piú vigore, l’uomo non agisce mai senza uno scopo.
Quale questo sia non ha importanza. Anche l’azione sconclusionata del pazzo
è diretta a un fine prestabilito non meno che quella lungimirante
del genio.
Ciò dipende dal fatto
che l’uomo è un essere pensante. Egli trasporta ogni estrinsecazione
della sua natura nella sfera del pensiero. Passioni e impulsi volitivi
non vivono in lui in modo indipendente, ma s’alzano alla coscienza solo
per mezzo del pensiero.
Il pensiero crea concetti
e rappresentazioni. La rappresentazione è un concetto congiunto
con un dato sensibile. In essa l’universale si congiunge con l’individuale,
la natura cosmica dell’uomo con quella terrestre. Un uomo che vivesse unicamente
nei concetti non sarebbe un essere terrestre. Il mondo dei sensi non esisterebbe
per la sua coscienza.
La rappresentazione mette
lo spirito umano a contatto con la materia, allo stesso modo che l’attività
dei sensi pone sulla terra il suo corpo.
L’uomo dunque è uomo
sulla terra per il fatto che il suo corpo percepisce con i sensi e che
il suo spirito si forma rappresentazioni relative. In questo senso pietre,
piante e animali non sono esseri terrestri: vivono ancora nel cosmo. La
pietra non percepisce e non pensa; l’animale bensí pensa ma non
nella forma delle rappresentazioni. Non dobbiamo cadere nell’errore di
pensare che la mirabile e sapiente attività delle api, delle formiche,
dei castori, promani dalla rappresentazione. Essa parte dall’istinto della
specie, cioè da una volontà collettiva che per esplicarsi
non ha bisogno di passare attraverso la trafila della rappresentazione
individuale.
L’uomo invece per agire
deve prima rappresentarsi la sua azione.
Immagino di voler fare una
passeggiata lungo la riva del mare. Nell’atto stesso di muovere il primo
passo, devo vedermi presso la riva, devo immaginarmi il mare, le navi ancorate,
i palazzi prospicienti e ogni altro particolare che mi è già
noto. Questa rappresentazione mi accompagnerà per tutto il mio cammino
e determinerà a priori ogni mio passo. Farà sí che
giunto a un determinato incrocio stradale, volterò a destra e non
a sinistra. In ciò sta la caratteristica dell’azione teleologica.
La rappresentazione di un fatto successivo determina il concretarsi di
un fatto antecedente.
Allo stesso modo dell’azione,
cosí pure l’opera umana è immersa nella finalità.
Alla presenza di un qualsiasi prodotto dell’attività umana posso
dire che esso risponde a un preciso fine. Non si può costruire una
casa senza tracciarne in precedenza il progetto, ma questo prima di essere
sulla carta è nella mente dell’architetto. Qui ogni particolare
viene ordinato in modo da servire a uno scopo preciso.
La macchina è l’espressione
massima di questo finalismo umano. Nella macchina ogni singola parte, per
minuta e trascurabile che possa apparire, è ordinata ad un fine.
E ciò perché prima della macchina c’è stata l’idea
della macchina nella mente di un uomo sotto forma di concetto e di rappresentazione.
Teniamo ben presente dunque che la finalità è stabilita dalla
rappresentazione di un fatto o oggetto successivo, che concretamente agisce
per mezzo dell’attività umana a determinarlo nel suo divenire.
Quando manca questo elemento
rappresentativo, non si può parlare di finalità. Ma l’uomo
pensa e vede la realtà antropomorficamente, il mondo ed ogni cosa
del mondo sono ordinati ad un fine. Il toro ha le corna per poter dare
cornate, la giraffa ha il collo lungo per poter brucare le alte foglie
delle palme, il grano cresce perché gli uccelli lo possano beccolare
e gli uomini farne il pane, e cosí via. Superare questa concezione
finalistica della realtà universale è altrettanto difficile
che necessario. Essa ha portato tanto la teologia che la scienza ai piú
gravi errori.
La teologia attribuisce
alla creazione divina un fine, alto ed imperscrutabile quanto si voglia,
ma preciso e stabilito ab aeterno. Ricordiamo il verso di Dante
che esprime questa concezione teologica: “Termine fisso d’eterno consiglio”.
Qui si fa Dio simile all’uomo
e gli si attribuisce una forma d’essere tipicamente umana. Dio in un a
priori assoluto si forma delle rappresentazioni della sua opera e poi
la realizza nel tempo prestabilito. Ma questo è appunto un modo
di agire umano, determinato dal fatto che l’uomo è un essere pensante.
Una falsa concezione finalistica dell’universo ha portato la teologia
ad umanizzare la divinità.
La scienza invece con il
suo finalismo riduce tutto l’universo a pura funzione umana. E poiché
l’uomo vive sulla terra ed è un essere terrestre, tutta l’esistenza
cosmica extra-terrestre viene praticamente negata o ignorata dalla scienza.
Perché c’è
l’aria? Perché l’uomo possa respirare. Dunque, dove non c’è
aria non c’è possibilità di vita umana. Sulla luna, sul sole,
l’uomo non può vivere; Saturno ed Urano sono immersi in un gelido
crepuscolo che impedisce ogni manifestazione di vita; piú lontano
ancora, fuori dalla sfera solare, tutta la realtà si riduce a un
caotico turbinio di atomi. Cosí l’universo si riduce a un surplus
che potrebbe anche non esistere.
Noi dobbiamo correggere
questi assurdi concetti finalistici della scienza e della teologia. Il
finalismo è giustificato e valido soltanto nell’ambito dell’azione
e dell’opera umana. Noi dobbiamo conquistarci questo concetto essenziale
e fondamentale per la comprensione della realtà: l’universo non
è e non può essere ordinato finalisticamente. Non è,
perché non è una macchina; non può essere, perché
la divinità sta su un piano infinitamente piú elevato che
l’umanità. Solo se gli Dei pensassero in concetti e in modi propri
dell’uomo, l’universo sarebbe diretto a un fine. Domande di questo genere:
“Qual è lo scopo del mondo? Qual è lo scopo dell’esistenza?
Perché Dio creò l’uomo?” non sono giustificate dall’esame
della realtà.
Un campo dell’attività
spirituale umana ce lo dimostra: quello dell’arte. Gli esteti di ogni scuola
hanno ragione nel far risaltare che la caratteristica precipua ed essenziale
dell’arte è la sua ateleologicità. Cioè l’arte, se
è veramente tale, non è mai diretta ad un fine. L’artista
crea senza scopo. Noi possiamo chiedere perché Edison costruí
il fonografo e Marconi il telegrafo senza fili; ma non possiamo chiedere
perché Raffaello dipinse la Madonna Sistina e Shakespeare scrisse
l’Amleto.
La fonte della creatività
artistica è del tutto particolare. L’artista non parte da concetti
e rappresentazioni, ma da ciò che egli chiama ispirazione o intuizione.
Vediamo dunque che quando l’opera creata non si basa sul pensiero concettuale
e rappresentativo, anche se essa è opera umana, viene a cadere ogni
possibilità di concepirla finalisticamente. Tanto piú dunque
l’universo – opera non umana, non concettuale – deve essere concepito come
una realtà priva assolutamente di qualsiasi fine.
L’universo è senza
finalità.
Immagine:
Theophilius Schweighart «Speculum sophicum Rhodostauroticum»,
1604
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