La sensibilità ambientale
negli ultimi decenni è andata decisamente crescendo. Almeno a parole.
Non vi è piú alcuna forza politica, infatti, che non dichiari,
tra i propri intenti programmatici, la volontà di agire in difesa
dell’ambiente e per il recupero di questo dal degrado in cui è caduto.
Effetto di una sensibilità ormai sempre piú diffusa nella
cultura occidentale, che trova origine anche, e forse soprattutto, nell’angoscia
con cui i popoli dei Paesi piú industrializzati guardano all’avvenire
del mondo. Che è poi un modo elegante per dire al proprio avvenire.
Perché, sul fondo di questo fenomeno, piú che un autentico
amore per la natura, è possibile trovare una sorda paura, un’ansia
esistenziale che ha origine nell’assenza di certezze e nel timore della
malattia e della morte. In questo senso questa novella, diffusa sensibilità
ambientale non è che uno dei molteplici aspetti di quel salutismo
– palese nell’ossessione per le medicine, i cibi “sani”, le diete, i programmi
televisivi e le riviste di argomento ecc. – che sembra imperare ai nostri
giorni. Un salutismo che nulla ha a che vedere con la retta educazione
e con il corretto mantenimento del corpo, ma assume al contrario forme
di fanatismo monomaniacali. Ed è pertanto manifestazione patologica
di un depauperamento spirituale della nostra cultura. Dico depauperamento,
perché di fatto questa ossessione per la salute del corpo è
indice della mancanza, e quindi della perdita, di ogni altra dimensione
che trascenda – nel pensiero come nel sentimento – quella dell’esistenza
meramente fisico-biologica. In questo senso anche le manie ambientaliste
non sembrano altro che un segno di questa condizione della coscienza moderna.
Il che non significa, naturalmente,
che non vi siano delle buone, anzi ottime ragioni per occuparsi dell’ambiente,
per sviluppare una scienza ed una retta politica dell’ambiente. Solo che
l’ambientalismo odierno appare sempre piú come una maschera, dietro
alla quale si celano interessi di fazioni politiche le cui radici ideologiche
ben poco hanno a che fare con l’ecologia. Estremamente preoccupati, almeno
a parole, del destino delle peppole e dei cavolini di Bruxelles, organizzatori
instancabili di crociate contro gli alimenti geneticamente modificati,
sono al contempo sostenitori convinti della sperimentazione genetica sull’uomo,
e votano in Parlamento leggi che autorizzano i peggiori abomini di laboratorio
a proposito della cosiddetta procreazione assistita. Per tacere poi della
ferrea fede abortista.
Insomma le coordinate culturali
di gran parte, se non tutto, l’ambientalismo italiano mostrano una incapacità
di percepire e concepire l’ambiente anche come ambiente spirituale. O meglio
come sintesi, inestricabile, di corpo e spirito. Perché solo una
tale, radicalmente diversa, concezione/percezione dell’ambiente può
essere foriera di una soluzione dei problemi “ecologici” che affliggono
la nostra epoca. L’ambiente, innanzi tutto, non può essere concepito,
come certi integralisti dell’ecologia continuano a fare, come qualcosa
altro dall’uomo. Qualcosa da cui l’uomo è sostanzialmente estraneo
e nei confronti del quale si rivela una sorta di nocivo parassita... Concezione
che risente – anche se molti dei suoi fautori non ne sono coscienti – dell’ormai
antico pre-giudizio di matrice razionalista ed illuminista che pose astrattamente
l’uomo come estraneo alla natura. Una dicotomia, frattura, separazione
che è in fondo all’origine del dramma della coscienza moderna, e
causa di quel nichilismo strisciante nella cultura contemporanea. L’ambiente
deve essere concepito come ambiente dell’uomo, e l’uomo come parte dell’ambiente.
Un rapporto simbiotico, inscindibile. Che è un rapporto spirituale,
in quanto spirituale oltre che fisica è la relazione dell’uomo con
la natura che lo circonda. E con questo non voglio certo evocare un vago
sentimentalismo alla new age, bensí fare riferimento ad una
realtà chiaramente percepibile e pensabile. In sintesi, per non
dilungarmi troppo su questo, si può dire che l’uomo pensando e percependo
la natura entra in rapporto spirituale con questa, ed al tempo stesso l’ambiente
agisce sull’uomo venendogli incontro sotto forma di immagini che non sono
soltanto fisiche, ma divengono signa, simboli viventi, di una realtà
spirituale. Ad esempio è indubbio che un determinato paesaggio,
una determinata configurazione della vegetazione, delle acque, delle montagne
si colleghi strettamente con l’identità di un popolo e ne sia, anzi,
parte integrante. E l’identità di un popolo è una realtà,
ma una realtà spirituale, non riducibile ad una semplice somma di
dati sensibili. Ora, come dicevo, di questa concezione dell’ambiente in
Italia, nella politica degli ambientalisti italiani, si ritrovano ben poche
tracce. Diversamente da quanto avviene in altri contesti europei.
In Germania ad esempio, un’ala
importante dell’ambientalismo tedesco ha ripreso e studiato i testi dei
fratelli Jünger, Ernst e Friedrich George, che da noi continuano a
subire un assurdo ed ottuso ostracismo. Addirittura La perfezione della
tecnica di Friedrich George Jünger è divenuto una sorta
di breviario della parte migliore dell’ambientalismo tedesco. Ed è
un testo che non solo pone su basi diverse, di pensiero e percezione “spirituale”,
la questione ambientale, ma che necessariamente analizza e spiega – quasi
profeticamente visto che è precedente alla IIª guerra mondiale
– il rapporto tra “politica” e ambiente. Dico profeticamente perché
l’autore intuisce quali sarebbero state le linee di sviluppo della nostra
civiltà e ne individua anzitempo i mali. Mali che sono, soprattutto,
l’alienazione dell’individuo da un qualsiasi contesto spirituale di appartenenza.
Che è poi il vero, autentico ambiente dell’uomo. La civiltà
della tecnica è infatti l’ultimo portato di una cultura che, apparentemente
affermando la libertà del singolo, finisce con lo sradicarlo. Con
l’alienarlo, trasformandolo in un individuo atomizzato, ridotto a numero,
a mero numero in una società di massa, spersonalizzante e vieppiú
dominata da una sorta di totalitarismo morbido, che ha l’apparenza della
democrazia e della civiltà della tecnica. Ma che non per questo
è meno opprimente di altri totalitarismi. Anzi, come scrive Aleksander
Solzenicyn, si configura come il piú pericoloso dei totalitarismi,
in quanto insidia e seduce le coscienze non lasciando spazio alcuno di
ribellione e di libertà.
E tuttavia vagheggiare un ritorno
ad una società pretecnologica, ai suoi rapporti umani, alle sue
strutture a misura d’uomo, non è altro che utopia. Può essere
un bel sogno, poetico, romantico. Ma è irreale. E come tale non
permettendo di affrontare la realtà del problema e trasferendolo
in una dimensione meramente fantastica ed astratta, fa paradossalmente
il gioco di quelle forze che vorrebbe combattere e contrastare. Perché
l’ambientalismo radicale che rifiuta ogni aspetto della civiltà
moderna e vagheggia una natura senza uomo o una società preindustriale
è, in realtà, un comodo alleato incosciente della globalizzazione
e della società dominata da una tecnica fine a se stessa. Ed è
proprio qui il nocciolo della questione. Come contenersi, come rapportarsi
con la civiltà della tecnica. Se non si risolve questo nodo, la
questione ambientale resta astrazione, o gioco intellettuale di società.
Null’altro.
Questo, dunque, il nostro “nodo
di Gordio”. E per tagliarlo o scioglierlo non serve certo il rumoroso,
confuso “popolo di Seattle”,
che è semmai espressione della commistione caotica tra ideologismi
e ambientalismo di cui prima facevo cenno.
La tecnica non va rifiutata o
avversata. Piuttosto si deve imparare a dominarla. Imparare di nuovo, ché
in antico la tecnica era sempre strumento dell’uomo. E non come oggi avviene,
l’uomo strumento della tecnica. E il dominio della tecnica significa anche
ridefinizione dello spazio della stessa. Dello spazio in cui può
agire ed esplicare la propria potenza, senza che questa divenga distruzione.
Distruzione di altri spazi, di altre dimensioni: come invece oggi avviene.
E continuerà ad avvenire. A meno che non si ponga in atto un’autentica
rivoluzione. Che è, e deve necessariamente essere, in primo luogo
una rivoluzione interiore. Una metànoia. Deve cambiare il pensiero
con cui pensiamo la tecnica; con il quale alla tecnica diamo forma. Perché
è, appunto, una questione di “forma”, di “stile”, come intuí
per primo, forse, Ernst Jünger nel suo L’operaio. La forma,
lo stile, se vogliamo l’estetica, non sono solo apparenza, ma ciò
che manifesta il rapporto profondo che si ha con una determinata cosa.
Pertanto il modo con cui si pensa la tecnica è ben piú importante
della tecnica in se stessa. E noi oggi non pensiamo la tecnica, non compiamo
alcun atto di pensiero autentico in questo come in altri ambiti. Piuttosto,
paradossalmente, lasciamo che sia la tecnica a pensarci. Ovvero a fornirci
rappresentazioni del mondo e di noi stessi che assumiamo come vere ed univoche.
Mentre non si tratta, appunto, che di rappresentazioni. E come tali modificabili,
invertibili, cancellabili.
Di qui anche la cosiddetta globalizzazione,
che è insieme il portato estremo della civiltà della tecnica,
e l’habitat in cui questa fiorisce. Noi tutti viviamo la globalizzazione
come un dato acquisito, una realtà indiscutibile. E non ci accorgiamo
di subire cosí una sorta di accecamento. Accecamento che ci impedisce
di vedere la realtà. Perché se la globalizzazione economica
è un dato di fatto, non lo è quella culturale. E questo significa
dire che, in fondo, non vi è alcuna globalizzazione indiscutibile
ed inevitabile.
Sul piano dell’economia, infatti,
non vi è alcuna novità nel fatto che ricchezze e merci circolino
su scala planetaria. In fondo è sempre stato cosí: i traffici
ed i commerci hanno sempre naturalmente teso a superare ogni frontiera
e ad abbattere ogni ostacolo alla loro circolazione. Si potrebbe dire che
ciò fa parte della natura dell’economia. Certo, vi sono stati momenti
della storia in cui questo fenomeno è risultato piú accentuato,
ed altri in cui, invece, ha incontrato freni ed ostacoli. Ed altrettanto
certamente mai come oggi questa circolazione economica è state veloce,
vorticosa. E questo grazie alla tecnica, al portato di una tecnica che
riduce paurosamente le distanze e accelera vorticosamente la velocità.
Può spaventarci, inebriarci, lasciarci storditi. Ma è comunque
un fenomeno reale, nel quale la “tecnica” assolve al suo compito, favorendo
e facilitando quella circolazione economica che in sé non è
un male. E tuttavia diventa un male, gravissimo, quando dalla sfera economica
questa globalizzazione esonda in quella culturale e politica. Questa invasione
di altre sfere è il male e la causa dei mali che affliggono la nostra
società. Non ultimo la distruzione dell’ambiente. Infatti l’economia
non può e non deve subordinare a sé cultura e politica. Piuttosto
le tre sfere devono rimanere autonome le une dalle altre, in un equilibrio
che è il fondamento di una società sana. Ma oggi avviene
proprio il contrario. Di continuo la sfera degli interessi e delle attività
economiche invade il campo della politica e quello della cultura, subordinandoli
e corrompendoli. E cosí andiamo incontro ad una globalizzazione
che diviene sempre piú distruzione delle identità, degrado
e annientamento delle specificità culturali. E all’affermazione
di una monocultura e di un unico impero universale che sono la proiezione
dei dettati dell’economia in altri ambiti. Ora noi dobbiamo prendere coscienza
che questo non è un evento né naturale né ineluttabile.
Anzi, è un evento rovinoso, apocalittico. Al quale ci si può,
ci si deve opporre. Ma opporre con intelligenza, evitando di cadere in
tante trappole che trasformano la volontà di opposizione in utili
idioti della globalizzazione. Come avviene per i contestatori di Seattle,
che credono di opporsi ad un certo modello di società, ma pensano
allo stesso modo, o meglio subiscono lo stesso tipo di pensiero che a quel
modello sociale è sotteso.
Il primo momento necessario è,
dunque, la presa di coscienza del fatto che la globalizzazione non è
evento ineluttabile. Che vi ci si può opporre. Ma che questa opposizione
deve essere innanzitutto un diverso modo di pensare e concepire la società.
Perché la condivisione del modo di pensare, di concepire e percepire
il mondo che è sotteso al fenomeno della globalizzazione, che ha,
in sostanza, condotto alla globalizzazione, significa di per sé
cooperare all’inverarsi di tale fenomeno, anche se a parole si crede di
opporvisi. Un diverso modo di percepire e pensare la società. Un
modo che porta a guardare ai fenomeni sociali come fenomeni viventi, ed
al corpus sociale come ad un organismo. Ad un organismo vivente e, al tempo
stesso, ad un ente spirituale. Che sono poi strettamente connessi, non
potendosi dare l’uno – l’organismo vivente – senza l’altro – l’ente spirituale.
Da questa percezione – che sorge
naturale, a patto che si sappia porre in silenzio tutte le dialettiche
ed i pregiudizi astrattamente ideologici che ingombrano la nostra mente
– si giunge alla visione non di una società di individui isolati
ed atomizzati, vagamente connessi tra loro da un patto o da un contratto
che sia, ma a quella di una comunità. Una comunità vivente,
di spirito ed intenti. Una comunità che sola può trovare
in sé la forza e l’intelligenza per una retta politica ambientale.
Perché la comunità è moralmente e spiritualmente connessa
con la terra, con il luogo ove ha la sua sede. La comunità è
parte della terra e la terra è parte della comunità. È
il suo retaggio, la sua casa, la sua matrice. Un tale legame profondo,
organico, garantisce di per se stesso un diverso atteggiamento nei confronti
della terra. Diverso da quello di una società spersonalizzata e
fondata solo su interessi e convergenze effimere, ove nulla è stabile,
nulla lega e vincola in profondità. Ove tutto viene visto e vissuto
come un astratto contratto e non come un’appartenenza, un’identità
vivente. Dobbiamo sempre rifuggire dall’astrazione intellettualistica,
che è anticamera di fallimenti e di deleteri utopismi. Un realismo
che sia anche in primo luogo realismo spirituale è l’unica chiave
che abbiamo per affrontare e risolvere tante questioni oggi sul tappeto.
Ed è a questa capacità di percepire e pensare il reale nella
sua complessità e completezza, a questa diversa, dinamica, viva
percezione della realtà che dobbiamo richiamarci. Se vogliamo realmente
agire ed incidere e non solo fare parole o discorsi astratti.
Immagine: una manifestazione del “popolo di Seattle” contro
la globalizzazione
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