Non sempre un maestro di pensiero si presenta nella veste di filosofo.
Se egli ha in sé il contenuto di tutte le filosofie, non può
non averle in una sintesi, che a lui chiede qualcosa oltre se stessa, prima
che la forma dialettica. Egli è allora anzitutto un asceta, un maestro
di saggezza, o un poeta: non si conclude in un sistema. Colui che si può
considerare uno dei piú grandi maestri del pensiero e tuttavia non
si può dire che sia stato vero e proprio filosofo, Novalis, ha affermato
tra l’altro che esiste nell’uomo una facoltà che in sé riassume
tutte le forze dell’universo, tutte le influenze creatrici dello Zodiaco
e dei pianeti, e tale facoltà è l’amore. Certo, Novalis non
voleva intendere l’amore che nell’uomo normalmente si egoizza come istinto,
ascendente dal livello sensuale all’affettivo, allo spirituale, ma quello
che può mantenere intatta la sua natura divina e tuttavia scendere
e fare veicolo di sé l’umano. Allora è il potere originario,
che ha il compito di trasformare l’umano.
L’identificazione e l’esperienza di un simile potere si può
dire che sia il tema dell’opera di Piero Scanziani, un maestro di pensiero,
che non si è espresso come filosofo, bensí mediante narrativa,
saggistica e drammaturgia, facendo di queste il veicolo del suo contenuto
univoco. Perciò non contenuto filosofico – raramente egli si esprime
in termini di filosofia – ma contenuto vivente di pensiero, ossia ciò
che è riconoscibile come dynamis di ogni reale filosofare.
Il tema univoco dell’opera di Scanziani rimanda pertanto a una filosofia?
Abbiamo ricordato il pensiero di Novalis circa la sintesi di tutto il filosofare
come impulso di amore divino che tende a farsi amore umano, attraverso
la conoscenza: perché, invero, questa solo vale in quanto mediazione
di qualcosa che la trascende. Ove la filosofia tradisca un simile còmpito,
cessa di essere mediatrice del Divino nell’umano, quale fu concepita in
antico in momenti felici di apertura della mente umana allo Spirituale,
onde essa era intesa come scientia divinarum humanarumque rerum.
Ebbene, possiamo dire che Scanziani persegue anzitutto un’idea del senso
ultimo dell’essere, dell’uomo, della vita, dell’universo: ma è abbastanza
sagace per non cristallizzare questo vivido impulso in espressione filosofica,
in esercitazione intellettualistica: lo vuole anzitutto realizzare praticamente
o artisticamente, tradurlo in virtú di esperienza, perché
la risposta interiore gli venga dalla realtà medesima, in quanto
sperimentata.
Ben presto Scanziani scopre che non v’è realtà veramente
posseduta che non sia conquista interiore, intima creazione. Di vicenda
in vicenda, seguendo questo veridico sentiero, giunge all’esperienza di
quel potere di cui parla Novalis, grazie all’incontro con un eccezionale
suscitatore di forze, maestro moderno di ascesi, Sri Aurobindo. Qui Piero
Scanziani trova la risposta a tutti i quesiti dell’anima, o meglio la conferma
di un itinerario interiore già intuito, già collegante il
discepolo con il maestro, onde l’incontro avviene nel tempo, in quanto
già operante da fuori del tempo. Dalla problematica delle categorie
che impegna Aristotele e poi via via i metafisici sino a Kant, sino ad
Hegel, che la semplifica riducendo a tre i princípi del reale, Scanziani
giunge con Aurobindo alla categoria una, che le comprende tutte.
È l’apice del filosofare: come giungere alla sintesi di tutte le
filosofie, cui alludeva Novalis: la via dell’Io Superiore dell’uomo. La
sintesi di tutte le filosofie non può non essere la sintesi di tutti
gli influssi dello Zodiaco e dei pianeti, che il principio spirituale del
Sole accoglie e fa fluire nell’umano, nell’intimo cuore delle creature.
L’opera di Scanziani si può considerare una graduale dimostrazione
della verificabilità dell’evento piú importante della vicenda
umana: che il disegno trascendente dell’Io, dell’atma-purusha, possa
essere conosciuto dall’uomo cosciente: certo, non mediante l’intelletto
ordinario, ma mediante l’intelletto capace di aprirsi alla propria sorgente
sovrasensibile. In quanto conosce il disegno trascendente dell’Io, l’intelletto
realizza il proprio potere di aprirsi, cosí da divenire veicolo
della trasformazione secondo tale disegno, che è l’azione del Divino
nell’anima sino alla corporeità. In effetti, Platone, Novalis, Hegel,
sono i filosofi che s’intravedono dietro questo movimento dell’intelletto,
ma dominante nello Scanziani è l’istanza dell’azione: ciò
che soprattutto Novalis seppe vedere con la sua intuizione dell’“idealismo
magico”. Non v’è altra misura della verità dell’idealismo
che il suo poter cessare di essere dialettico, affermando in sé
il proprio contenuto, per culminare in azione interiore realizzatrice,
cioè in un atto magico trasformatore dell’umano. Nessun filosofo,
in séguito, raccolse l’appello di Novalis: ma lo doveva raccogliere
qualcuno che appunto avrebbe evitato perciò di ricadere nella filosofia.
L’aristotelismo originario, indi quello moderno, cioè piú
rigoroso, correggono o integrano il platonismo, e in un secondo tempo l’hegelismo.
Piero Scanziani, infatti, mentre cerca il fondamento sovrasensibile, è
un moderno nel senso pieno della parola: sportivo, pugilatore, esperto
di biologia, studioso delle scienze dell’inorganico, conosce goethianamente
la natura vivente, sa tutto sui funghi, scrive un trattato sui pesci, sa
tutto sui cani, scrive libri essenziali sulla psicologia animale, ottiene
fama come corrispondente di guerra inviato speciale di giornali europei
e americani, collaboratore di rotocalchi, fonda e dirige riviste e case
editrici in Italia e in Svizzera ecc. Pratico, dunque, aristotelico, malgrado
l’impeto platonico che guida la sua ricerca spirituale assoluta, tende
sin dalla prima giovinezza a un equilibrio tra natura e Spirito: che si
realizzerà appunto in pienezza nell’incontro con Sri Aurobindo.
Grazie all’incontro con Sri Aurobindo, gli sarà infine chiara
una verità capace di dare impulso novello alla vita: non esiste
una natura fuori dallo Spirito. La natura come molteplicità e meccanismo
è un’astrazione di moderni: confina inevitabilmente con la superstizione.
La natura è vivente, perché tale in essa è il moto
dello Spirito, ma non secondo lo schema platonico-hegeliano, bensí,
se mai, piuttosto vedantico-mahayanico, cioè in quanto esperienza
interiore implicante la realizzazione dell’univoco Potere spirituale del
cosmico e dell’umano. In definitiva l’istanza di Novalis, realizzata, ma
che esige concretezza integrale, immediata. Aurobindo offre la via, il
sentiero nuovo da lui aperto. L’umano può essere trasformato: ritornare
un potere divino.
Già nella Chiave del mondo, Scanziani ha compreso che,
se l’istanza non si fa concretezza, per quanto sia intenzionalmente spirituale,
lascia la natura nella sua desolata alterità, che tuttavia come
tale diviene l’assoluto per l’uomo ordinario di questo tempo, ossia per
la generalità umana, che fonda sull’apparire fisico la sua scienza,
la sua cultura, la sua religiosità, persino il suo dialettismo esoterico.
Un inganno da cui è ormai difficile uscire. Occorre la medicina
Dei, quella autentica: una medicina eroica, che è sempre piú
difficile concepire.
Platone vede il Sovrasensibile in alto, fuori della natura: occorre
l’estasi per raggiungerlo, il distacco dall’umano. Il naturalismo in realtà
nasce come relitto platonico, quando si comincia a vedere irreale, cioè
solo dialettico, il mondo delle idee. Nei tempi moderni, Aurobindo decisamente
ristabilisce la connessione: egli pone il còmpito di permanere nell’umano,
non staccarsene, per raggiungere il Divino, per aprirsi ad esso, per accordare
l’umano con il Superumano. L’estasi ormai deve essere un’operazione da
svegli: mentre Ramakrishna consegue ogni volta il samadhi, a condizione
di abbandonare la coscienza di veglia, Aurobindo insegna a essere svegli
e coscienti dinanzi al Sopramentale. L’uomo tutto deve essere pervaso dalla
Madre divina.
In tale direzione si orienta l’opera di Scanziani: far intendere il
rimedio urgente al fatto che per i moderni la natura è divenuta
una entità fuori dello Spirito, una realtà che manca di unità,
di vita, di immortalità, e come tale, cioè opposta allo Spirito,
domina l’uomo. Il naturalismo dell’uomo moderno è la scaturigine
del materialismo per il quale la natura invero è un’entità
astratta. Guardate la natura nella narrativa di Scanziani e la troverete
figlia dello Spirito, ricondotta allo Spirito. Forse l’operazione piú
importante che un poeta o un pensatore possa compiere a beneficio dell’umanità:
far risorgere la natura dallo Spirito. Non dedurre la natura dalla natura
stessa, che è l’operazione dell’intelletto inconscio del proprio
moto puro e perciò ogni volta privante la natura della sua intima
vita, ma dedurre la natura dallo Spirito, che già è interno
ad essa.
In Avventura dell’uomo, Scanziani compie in tal senso un’operazione
decisiva. Si può portare un grande aiuto all’attuale uomo pericolante,
se si può mostrare l’assenza di basi scientifiche del materialismo:
attraverso la descrizione dell’uomo fisiologico condurre al suo continuo
presupposto, l’uomo interiore. Scanziani conduce, secondo una regia adeguata,
di quadro in quadro, al superamento della illusione di una realtà
della natura come essere a sé, opposta al pensiero e condizionante
l’uomo natura astratta. La vicenda dell’uomo è la vicenda sensibile
dell’uomo sovrasensibile: ma occorre sperimentarlo, piuttosto che dimostrarlo.
Una dimostrazione non dimostra nulla che non sia già spiritualmente
realizzato. Si tratta di fornire la serie dei dati della ontogenesi umana,
ma al tempo stesso indicarne il modo di leggerne la composizione, scaturente
dallo stesso pensiero usante la fisiologia dei mezzi dell’apparato nervoso
e in particolare dell’organo cerebrale, quali strumenti della espressione
della propria vita interiore, cioè dello Spirito. Scanziani dipinge
in Avventura dell’uomo, di quadro in quadro fisiologico, l’azione
metafisiologica dell’Io. Il pensiero diviene movimento puro dell’Io, ove
attui il proprio essere indipendentemente dai mezzi fisici mediante cui
si manifesta. Il fatto che il pensiero rimanga inconsciamente vincolato
a tali mezzi – l’organo cerebrale e l’oggetto esterno – spiega la difficoltà
a intendere come in nessuna direzione debba cercare la libertà se
non nel proprio puro movimento, e spiega di conseguenza le attuali retoriche
della libertà. Avventura dell’uomo è la connessione
della realtà fisica con la realtà metafisica, anzi il tracciato
logico della loro coincidenza, e ancor meglio la percezione della loro
identità. Occorre far scaturire la Shakti, o il Logos, dal suo involucro
maya, che è la natura, fisiologica, biologica, astratta,
la veste contingente della vita. Se si riconosce il Logos, non ci si può
non riconoscere identici ad esso, là dove l’Io reale sorge come
autocoscienza: un Logos fuori di me è una mia immaginazione, perciò
un condizionato, non è il Logos, non è il Divino, ma la sua
funzione; ciò che è posto dall’ego, incapace di negarsi.
Se si muove dall’ego, si assume come fondamento la prakriti inferiore,
ossia ciò che non può essere fondamento. Viene eluso il reale
fondamento, perché si riceve l’illusorio fondamento dall’uomo fisiologico,
saldo in apparenza come il reale fondamento.
Non certo cronologicamente, La chiave del mondo, I cinque
continenti, Entronauti, Felix, Mater magna, Libro
bianco, Aurobindo, Alessandro continuano l’operazione
iniziata in Avventura dell’uomo. La misura del Logos è la
presenza reale del fondamento, che consente di liberare il mondo e gli
esseri dal giudizio con cui immediatamente ci si volge ad essi. L’entronauta
è un portatore di pace: infatti, il risentimento appartiene all’ego
incapace di pensiero vivo, cioè di assumere la responsabilità
del male del mondo.
Gli entronauti (e i protagonisti nell’opera di Scanziani sono tutti
entronauti) sono i superatori dell’errore dialettico. Risanatore del male
del mondo è colui che lo riferisce a sé, alla propria responsabilità,
in quanto il suo pensiero è libero dalla inferiore natura: nelle
situazioni del mondo riconosce una volontà deviata, che a lui è
dato ricominciare a volere dall’origine. Nel male egli riconosce una interruzione
della volontà che è all’origine del mondo: a cui tuttavia
è sempre affidato il mondo. Tale volontà egli soltanto può
nuovamente volerla dall’origine, perché la incontra come primo moto
dell’autocoscienza. Incontrando il puro fondamento, egli trova che non
esiste una origine fuori di lui, non esiste un’origine da cui egli sia
scisso. All’origine dunque egli può aprirsi in se medesimo: egli
ritrova la Forza che può liberarlo, ricongiungerlo con l’essenza
divina del mondo. Il senso ultimo della vita.
In effetti Scanziani può scrivere Entronauti,
perché egli stesso è un entronauta, ha già conosciuto
il sentiero della illimitatezza della conoscenza, grazie alla comunione
con la Forza che reca la conoscenza una con la beatitudine del vero e con
la sua potenza creatrice. Egli ha già incontrato il suo maestro,
Aurobindo. Ma è l’incontro che gli dà modo di realizzare
ciò che Aurobindo insegna: non ripetere la dottrina del maestro,
bensí farne novella vita pulsante, la propria vita interiore, l’espressione
personale della superiore Potenza impersonale. Non è sufficiente
che ci sia stato un Aurobindo e che il suo insegnamento sia stato riflesso
in opere che oggi circolano nel mondo. C’è un potere in atto dietro
la sua presenza sulla Terra e di questo potere Aurobindo parla. Ma, appunto,
non è sufficiente l’incontro con l’opera di lui, o con la sua tradizione:
occorre una chiave per entrare in contatto con tale potere. E la chiave
può venire solo dall’esperienza di tale potere. Qualcuno deve poterlo
sperimentare, cosí da non doverne parlare ripetendo la dottrina
del maestro, ma esprimendo la propria esperienza. Questo è importante
quanto la dottrina del maestro, questa è l’arte di Scanziani.
A tutti è dato apprendere che l’ascesi di Aurobindo consiste
in un’apertura cosciente, perciò mediata dalle forze attuali della
coscienza, piuttosto che dai metodi tradizionali della sadhana.
Sono possibili diversi aspetti di un’unica simultanea operazione: sottomissione
(samarpana), apertura, recezione, trasformazione: tutte mediate
da una specifica capacità di concentrazione. La Shakti divina discende
e trasforma: l’arte dell’asceta consiste nel disporre di tanta forza della
personalità, che sia presente senza interferire nel processo, anzi
per farlo verificare secondo la sua assoluta impersonalità. Tutto
questo è apprendibile e persino dialettizzabile. Ma l’arte della
comunione con la forza esige una chiave che può venir fornita ormai
soltanto dallo sperimentatore della Forza; che la faccia vivere in sé
e di questa vita impregni la sua comunicazione. Si può comprendere
cioè perché Scanziani ci abbia dato narrazioni, immagini,
visioni, saggi vividi di tale Forza. Mediante l’arte del dire, egli la
comunica, anche se descrive un paesaggio della natura, o lo stato d’animo
di un fanciullo, o il momento della consacrazione meditativa di un asceta.
Quando Aurobindo commenta le Upanishad, forse filosofa?
Ma ciò che è veramente decisivo a intendere il contenuto
metafisico dell’opera di Piero Scanziani, è la sua possibilità
di comunicare e trasmettere al suo lettore quel quid cui allude
continuamente Aurobindo in tutte le sue opere e nelle Lettere: quel
moto interiore che è l’apertura alla Madre Divina, la recezione
e la trasformazione. Quel quid è il segreto che spiega la
vita di Aurobindo, la mirabile cooperazione di Mère presso e dopo
di lui, ma è al tempo stesso il segreto del destino dell’uomo sulla
Terra: del suo futuro, della sua liberazione dalle forme inferiori della
natura e della sua riconquista della Sopranatura. Scanziani mostra di conoscere
cosa è quel quid e quale impresa è parlarne, per aver
raggiunto la conoscenza diretta e perciò aver realizzato ciò
che insegna il maestro. Perché si tratta di aprirsi a qualcosa che
l’umano non può concepire, appunto perché trascende l’umano,
ma che l’umano può accogliere se mette da parte se stesso, e tuttavia
è capace di lasciar agire su di sé ciò che è
oltre se stesso, ciò che è un “in piú”, un “oltre”,
illimitatamente vasto, illimitatamente possente, che può afferrare
la natura umana per farne gradualmente una natura divina, non annientando
l’umano, che non può sparire senza che l’esperienza cessi di essere
per un soggetto, ma restituendogli ciò che era all’origine. Il superamento
della massima contraddizione terrestre: che l’umano possa essere trasformato
da ciò che esso non può contenere, perché per esso
è troppo grande e diverso, sopraffacente e prodigioso: ma appunto
perciò necessario e urgente, ormai.
Non v’è miracolo che non sia una grandiosa contraddizione, cioè
superamento della ineluttabilità delle leggi della natura, o della
prakriti inferiore. Filosofia, sí, ma filosofia della contraddizione,
che, mancando della luce da cui trae pretesto, per solito spezza il contraddittore,
come spezzò Nietzsche, o Weininger. Invece il segreto della recezione
della forza è la devozione che fa indubbiamente appello alle profondità
dell’anima, ma anzitutto al pensiero che intuisce il movimento piú
incorporeo del sentire: non pensiero dialettico, ma pensiero puro, predialettico.
Questo il pensiero che fluisce nelle strutture artistiche e dialettiche
dell’opera di Piero Scanziani, specie in I cinque continenti. Tutto
ciò che poteva dare l’Aristotelismo l’ha dato, perciò la
sua missione si può dire esaurita: logica matematica, empirismo
logico, fisicalismo, strutturalismo ecc. hanno fatto il loro tempo. Rimangono
come risultati obiettivi la tecnologia, l’elettronica, la cibernetica,
l’astronautica, la versione pratica del meccanicismo dialettico, che per
altro verso va morendo là dove, attraverso una vasta popolazione
terrestre di medium inconsapevoli, diviene la obsessio ideologica
della redenzione forzata. Tutti i guai del presente tempo sono connessi
con il dogmatismo o il fanatismo di una simile illusoria redenzione.
In verità, urgono gli entronauti, urge un nuovo platonismo,
non per restaurare la trascendenza del mondo delle idee creatrici, ma per
scoprire la sua immanenza. Tutta la dottrina di Aurobindo insegna il segreto
della trascendenza nella immanenza. L’entronauta di Scanziani entra nel
corso della Madre Divina, perché sa aprirsi ad Essa: ne realizza
in sé la realtà trasmutatrice, necessaria al superamento
dell’attuale crisi umana, perché il momento ormai determinatamente
lo esige: forse si è già in ritardo per un tale evento e
l’opera di annunciatori o preparatori, come quella di Scanziani, ha la
funzione di destare la coscienza di coloro che, per vocazione, sono chiamati
al suo realizzarsi.
Presentazione dell’opera di Piero Scanziani I cinque
continenti, Editrice Elvetica
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