Il Meridione
d’Italia non è sempre stato la discarica morale e materiale dei
mali del Paese e un comodo alibi per le colpe ed omissioni collettive nazionali
fatte passare per tare endemiche locali. Luoghi oggi sommersi dai rifiuti
hanno vissuto epoche di regali splendori e dalle masse popolari degradate
da un orfanaggio politico e amministrativo un tempo germogliavano anime
elette e sommi ingegni pensanti.
Dove ora
sfrecciano imbarcazioni di contrabbandieri “scafisti” e arrancano le carrette
della nuova schiavitú, un tempo veleggiavano galee mercantili governate
da abili marinai, ossequiosi di codici marittimi e commerciali di prim’ordine
e in anticipo sui tempi. Questa breve storia si colloca appunto in quell’epoca.
Correva
l’anno 1073. Un giorno l’Abate del piccolo convento benedettino di Scala,
nel Ducato di Amalfi, convocò fra’ Gerardo.
«La
peste infuria a Giaffa – informò l’abate – i Turchi Selgiuchidi
minacciano Gerusalemme vessando i pellegrini che si recano ai luoghi santi.
Per questo Papa Gregorio e il Duca Roberto il Guiscardo vorrebbero ingrandire
e rendere piú sicuro l’Ospizio di San Giovanni Elemosiniere. Dovremmo
occuparcene noi. Anzi, dovresti occupartene tu…»
Fu cosí
che un esiguo drappello di monaci, con alcune casse di medicamenti, pergamene
e strumenti, si imbarcò su una galea al porto di Amalfi e prese
il mare.
Molte furono
le meraviglie di quel viaggio avventuroso: l’uso del magnete che facevano
quei marinai, e che indicava loro sempre il Nord; l’abilità nelle
manovre di vela e di timone; la conoscenza che quegli uomini preposti al
governo della nave possedevano sul tempo e la natura volubile del mare
e delle sue correnti.
Ma piú
stupefacente si dimostrò il rapporto che quei navigatori e mercanti
intrattenevano con le imbarcazioni saracene quando ne incrociavano qualcuna.
Gerardo e gli altri monaci si accingevano ogni volta a offrire la propria
vita per difendere i preziosi libri e i ritrovati medici, nonché
i sacri oggetti e paramenti, dalla presunta furia sacrilega dei Mori. Eppure
tutto ciò non avveniva. Le imbarcazioni manovravano per accostarsi,
issavano segnali, si scambiavano messaggi a voce, persino saluti e motteggi.
Poi, ognuno per la sua rotta, con l’aiuto del vento e del proprio Dio.
Costeggiarono
la Calabria, sfidarono Scilla e Cariddi, e infine furono nell’aperto mare
verso Malta. Qui la memoria di Paolo rinforzò l’eroismo e la volontà
evangelica della compagine. E cosí, dopo settimane di schiuma, odori
forti e salmastri, persino inebrianti, dopo la promiscuità con marinai,
mercanti e soldati, ecco la Terra Santa, la Palestina, dove avevano camminato
e predicato i Patriarchi, i santi e i profeti, e dove il Cristo si era
immolato per gli uomini tutti.
Approdati
su quei lidi, i monaci iniziarono la loro opera. Curarono gli appestati
di Giaffa, entrarono nella Città Santa, ampliarono l’Ospizio di
San Giovanni fondato dagli Amalfitani nel 1020, irradiarono sulle folle
di ammalati e pellegrini la pace e la forza delle loro anime intemerate.
Crearono in tal modo un rifugio per i mali del corpo e dell’anima, di tutti
quelli che chiedevano carità e protezione. Li guarirono, li sfamarono,
molti ne convertirono. Diedero verace testimonianza del Cristo operante
nella realtà sensibile dell’umanità dolente.
Nel 1076
Gerusalemme cadde nelle mani dei Turchi Selgiuchidi, empi e sacrileghi,
al contrario dei tolleranti Arabi Fatimidi che governavano la Città
Santa. Per Gerardo, catturato con gli altri frati, vennero le torture e
la prigione. Quando fu di nuovo libero, riprese a dedicarsi con maggior
zelo e umiltà alla conduzione dell’ospedale, dove curava i malati
e accoglieva bisognosi e pellegrini senza distinzione di fede e di razza.
Gerardo fu priore e fiaccola inesausta di quel nucleo di taumaturghi soccorrevoli
per tutti, arabi, cristiani ed ebrei. La loro divisa era un saio scuro
con una croce bianca all’altezza del petto. Nessun’arma di ferro pendeva
al loro fianco, cosí che tutti sapessero della loro neutralità
e dello spirito universale che animava la loro dedizione. Allo stesso modo
si recarono sui campi di battaglia allorquando, piú tardi, le armate
cristiane e musulmane si fronteggiarono in una guerra cruenta che aveva
come posta finale il Sepolcro di Cristo. Quando ciò avvenne, Gerardo
era però ormai vecchio. Finché fu lui a dirigere l’Ordine
di San Giovanni, i frati si limitarono a svolgere opere di carità
e soccorso medico. Alla sua morte, la spada si aggiunse alla croce, e l’Ordine
fu militarizzato e affidato a Raymond de Puy. La divisa divenne rossa con
una croce bianca, per distinguerla da quella dell’Ordine parallelo dei
Templari, che l’avevano bianca con un croce rossa.
Molte sono
le leggende fiorite intorno ai Cavalieri che ne fecero parte negli anni
successivi. Mentre i Templari terminavano la loro parabola a Parigi, col
rogo su cui venne arso Jacques de Molay, nel 1314, gli Ospitalieri di San
Giovanni, poi Cavalieri di Rodi quindi Cavalieri di Malta, si perpetuarono
e tuttora durano come istituzione cavalleresca e assistenziale.
L’ultimo
episodio di impresa militare avvenne durante il grande assedio che Solimano
il Magnifico, Sultano della Sublime Porta, pose il 18 maggio del 1565 all’isola
di Malta, governata dall’Ordine. Nel corso dei cruenti scontri, che si
protrassero da maggio a settembre, molte furono le gesta di valore dei
Cavalieri, come nella celeberrima carica condotta da De Lugny che ruppe
la morsa dei Turchi a Mdina. Non da meno si erano comportati gli isolani,
sia durante i combattimenti sia prima dell’assedio, quando si erano dedicati
alle opere di rinsaldamento dei forti di Sant’Elmo e Sant’Angelo. Le cronache
narrano che sotto la supervisione del Gran Maestro La Valette, gli abitanti
di ogni ceto, età e categoria avevano rafforzato bastioni e barbacani,
ricevendo come paga soltanto una moneta di piombo, che recava la scritta
«Non l’oro ma la fede»: la famosa “patacca” che da allora avrebbe
designato ogni opera prestata gratis et amore Dei o al piú
retribuita mediante onorificienze, titoli e oggetti di valore squisitamente
simbolico. «Ti pago con l’oro di Sant’Elmo» dicono tuttora
i maltesi, volendo appunto indicare una promessa di ricompensa morale e
non venale.
I Cavalieri
presero parte, sei anni piú tardi, anche alla battaglia di Lepanto,
che doveva significare la fine del Mediterraneo quale scenario dei grandi
avvenimenti storici. L’Ordine era ormai parte del sistema, che aveva assunto
a simbolo la spada e il potere.
Fra’ Gerardo
cammina ancora per le vie e le pietraie della Palestina, ora come allora
insanguinate. Cristo chiama, dice di porgere l’altra guancia, di dare dieci
volte quello che il nemico vuole estorcere da noi. Qualcuno, prima o poi,
dovrà ascoltarlo.
Immagine:
A. de Favray «Jean Parisot de La Valette» Gran Maestro dell’Ordine
dei Cavalieri di Malta durante l’assedio del 1565
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