Prima che le grandi religioni
del mondo si organizzassero in poderose strutture gerarchiche, erigendo
templi e santuari, stilando severi decaloghi e regole dottrinali, che via
via ampliandosi irretivano gli adepti in un ginepraio di dogmi e rigorose
liturgie, gli uomini praticavano culti naturalistici improntati al rapporto
diretto con il divino.
La civiltà cretese
pre-minoica adorava gli Dei nel folto dei boschi. Chi voleva dialogare
con la divinità prescelta, ne sollecitava l’epifania preparando
un altare di rami e frasche sul quale deponeva le offerte: conchiglie,
fiori, frutta, dolci e miele. I Cretesi non conoscevano i sacrifici cruenti,
e i loro riti si svolgevano in luoghi per lo piú elevati.
Anche la Bibbia menziona
i boschetti e le alture dove il popolo ebraico prima di Mosé, e
in seguito in misura minore, celebrava i sacrifici all’Altissimo.
Dove non esistevano rilievi
naturali, i popoli ne costruivano di artificiali: torri, piramidi, circoli
megalitici, che su colossali basamenti si elevavano dal terreno.
I Sumeri furono tra i primi
a costruire sulla piatta orografia della regione di Ur le torri templari
a sette gradoni, quanti erano, secondo la loro divisione cosmica, le zone
celesti occupate dal Sole, dalla Luna e dai cinque pianeti allora conosciuti.
Seguirono i Babilonesi,
che eressero, nel recinto sacro dell’Esagila, la torre quadrata in onore
del dio Marduk, l’Etemenanki, che doveva unire la terra al cielo e gli
uomini agli Dei.
Da queste due tradizioni
architettoniche, il mazdeismo prima e lo zoroastrismo poi trassero la concezione
delle Torri del Fuoco, Atesh-gah, dove si venerava Atar, il figlio
di Ahura Mazda, rappresentato da una fiamma perennemente accesa.
Non diversamente, i popoli
mesoamericani, Aztechi e Maya soprattutto, elevarono piramidi templari
a terrazze, molto simili alle ziqqurat mesopotamiche, costruite con tecniche
ispirate all’ordine cosmogonico e astronomico. Esse ricordano per molti
aspetti la sapienza costruttiva usata dagli Egizi nell’erigere le loro
piramidi, anch’esse dichiaratamente un surrogato di quelle montagne inesistenti
sul territorio desertico bagnato dal Nilo.
Comunque fossero i luoghi
di culto e gli Dei ai quali le offerte erano dirette, un comune denominatore
assimilava le pratiche sacrificali dei vari popoli: insieme ai doni votivi
venivano bruciati sull’altare legni pregiati, aromi e soprattutto incensi,
ricavati dalle resine di piante rare.
I Cinesi adoperavano bastoncini
di canfora per le fumigazioni purificatrici ed esorcistiche, e altri tipi
di incenso venivano bruciati dall’Imperatore nel culto privato, che egli
soltanto poteva praticare essendo di natura divina.
Legni aromati, tra cui spiccava
il sandalo, ardevano nei gopuram indiani davanti alle statue delle
divinità vediche e dravidiche.
Nei templi buddhisti, in
onore del Gautama esalavano i fumi dell’incenso che accompagnavano le incessanti
recitazioni dei mantra.
Nell’area mediorientale,
per i rituali di incensazione venivano adoperate le resine estratte dagli
arbusti della mirra e del pregiato franchincenso, che allignavano nell’estrema
regione meridionale della penisola arabica, il Dhofar, dove l’Asia riesce
quasi a toccare l’Africa e a fondersi con essa in un unico giallire di
sabbie arroventate. Da qui provenivano le qualità piú pregiate,
ed è qui che tuttora mirra e incenso vengono raccolti.
La Boswellia produce
l’incenso detto olibano, mentre è la Commiphora a secernere
la mirra. Entrambe le piante traggono la loro esigua linfa dal terreno
arido, nutrendosi per lo piú della rugiada mattutina, e donano poi
la loro preziosa essenza attraverso le incisioni reiterate e profonde che
i raccoglitori praticano nei loro tronchi nell’arco di settimane prima
di ottenere la qualità migliore di resina. La regina di Saba, il
cui regno si trovava proprio sulla via carovaniera che dallo Yemen conduceva
ai porti di Alessandria e Gaza sul Mediterraneo, pare traesse buona parte
delle sue favolose ricchezze proprio dai traffici dell’incenso e della
mirra.
Dalle rive dell’Egitto e
della Palestina navi mercantili trasportavano stoffe, profumi, spezie rare
e resine aromatiche fino a Creta, Atene, Marsiglia e Roma. Anche qui, l’incenso
bruciava sull’altare dei sacrifici, celebrava trionfi e solennità
imperiali. E a riprova che anche le cose piú sublimi possono, in
determinate circostanze, divenire strumento di azioni deleterie, durante
le persecuzioni veniva imposto ai cristiani di bruciare incenso agli Dei
e all’Imperatore. Al loro prevedibile rifiuto, seguiva la condanna per
lesa divinità e il martirio.
Nell’Esodo viene fatta menzione
de: «L’Altare d’oro, gli unguenti e i timiami fatti di aromi».
Gli unguenti erano composti per lo piú da oli, ai quale venivano
aggiunti mirra, canfora e benzoino. Oro, incenso e mirra, dunque, ritenuti
a ragione tra le cose piú preziose che gli uomini potessero offrire
alla divinità per le liturgie di adorazione. Gli stessi doni votivi
che i tre re Magi, in una portentosa notte, recarono alla grotta di Betlemme.
Di questi tre personaggi
sappiamo poco: fecero la loro comparsa nella vicenda terrena di Gesú
passando veloci e alieni come la mirabile cometa che essi avevano seguíto
per rintracciare la località in cui era nato il Messia. Un miraggio,
una favolosa parabola. Ma i doni che portarono al piccolo Re dei Re furono
però tangibili, oltre che sontuosi e allusivi: l’oro quale riconoscimento
della regalità del neonato, l’incenso per la sua divinità
e la mirra a segno della sua natura salvifica e redentrice.
Con l’evoluzione storica,
il rapporto dell’uomo con il divino è mutato: prima la prona subordinazione,
poi l’insubordinazione ribelle, cui è seguita la negazione. E ora,
per vari segnali, si registra il bisogno di un ritorno al sacro, al trascendente.
Certo, non sarà piú necessario bruciare incensi e resine
rare per ristabilire l’interrotto dialogo con la divinità. Faremo
offerta di noi stessi: arderemo come l’incenso, la mirra, e i legni aromati,
ad alimentare il fuoco di una nuova spiritualità.
Immagini:
– La raccolta della mirra
– Raccolta del franchincenso nella regione di Dhofar, nell’Oman
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