Dal recente
libro di Renzo Arcon, autore ben conosciuto e apprezzato dai nostri lettori,
stralciamo parte della prefazione, dalla quale è possibile cogliere
il valore dell’opera, che risiede, come piú oltre viene affermato,
“…nel tessuto di immagini e nell’insegnamento, nell’esperienza che queste
comunicano a chi abbia la capacità di lasciare che esse agiscano
sulla sua anima. Mantenendo, nella lettura, un attivo silenzio interiore”.
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Questo di Renzo Arcon non è
uno scritto su Artú, non è l’ennesimo romanzo, saggio, novella
sulla Tavola Rotonda. È invece, come recita il titolo, uno scritto
di Artú. E non perché il re leggendario parli in prima
persona, espediente narrativo già usato ed abusato nei romanzi di
genere... piuttosto per una ragione diversa. Qualitativamente diversa,
segno di una diversità “interiore” di questo scritto, che precede
e in qualche modo spiega tutte le altre diversità, di contenuto,
di storia, che sembrano deviare, anzi distaccarsi nettamente dalla saga
bretone cosí come ordinariamente è nota.
Ché qui non solo Artú
parla, ma soprattutto racconta se stesso. Racconta la sua vicenda interiore.
Non tanto, quindi, guerre, tornei, duelli, amori, magie e tradimenti...
ma l’esperienza spirituale, il viaggio di un’anima straordinaria. Viaggio
“iniziatico”, ove gli eventi esteriori vengono accennati appena, e sono
solo l’esile supporto sensibile di esperienze interiori. Alle quali sole
va, di fatto, l’attenzione dell’“Io” narrante, come se di queste, e non
d’altro, rimanesse limpida memoria. Né potrebbe essere altrimenti,
ché questo “Artú” si racconta non nello scorrere degli eventi
e neppure a cose conchiuse, una memoria precedente la morte, pur di poco,
ma comunque legata alla vita come ultimo segmento del suo divenire... No,
qui Artú parla al di là della morte, quando tutto è
concluso, tutto sigillato ormai dal tempo trascorso. Ed è un Artú
che ha memoria di essere stato tale, di essere stato se stesso. Ma una
memoria particolarissima, l’unica capace di attraversare la barriera della
morte e della rinascita. O delle rinascite. Perché il narratore,
che mai realmente si svela, è colui che fu, in un passato difficile
da definire, “Artú”. E di questo essere mantiene vivida la memoria
interiore. La memoria delle esperienze interiori, le uniche che, in fondo,
veramente contino, veramente siano vive. Memoria vivente, memoria del destino
per la quale gli eventi fisici, storici, sono solo esile traccia, supporti
appena accennati di esperienze e metamorfosi spirituali.
Racconto di Artú, dunque,
della vita interiore del re leggendario, dell’esperienza interiore che
lo rese figura mitica ed insieme paradigmatica. Il miglior re ed il miglior
cavaliere. Non per le imprese semplicemente, le conquiste, l’ardimento...
ma per ciò che dietro le imprese era. Per ciò che egli sperimentò
attraverso gli atti fondamentali della sua esistenza. Che furono, anche,
atti fondamentali di un percorso, una via che da lui fu aperta. Che lui
per primo seguí. Di qui il suo divenire paradigma. E soprattutto
il suo divenire mito. Che è poi immagine sintesi di un’esperienza
dell’essere che, pur essendo tessuta di pensare e sentire, non può
venire espressa, né spiegata in concetti ordinari. In parole, a
meno che le parole non divengano evocazione di immagini viventi, immagini
che si dipanano innanzi a noi e in noi, se sappiamo ascoltare e osservare,
si imprimono. Agiscono. Come è proprio del “mito”, del raccontare
nella sua funzione originaria. L’arte degli antichi bardi ed aedi, in gran
parte perduta già con l’uso della scrittura. Di qui, anche, l’apparente
frammentarietà di questo racconto. Solo apparente, dicevo. Che in
realtà è una narrazione estremamente coesa, organica, lineare.
Una narrazione, però, che avviene per immagini; immagini che raccontano,
anzi rievocano un ‘esperienza. L’essenza spirituale di un’esperienza. Ed
è in questo suo essere viva la coesione, l’organicità. Non
in una mera tecnica narrativa. A questa esigenza prima si deve, dunque,
la forma epistolare, l’apparente susseguirsi di ricordi che si accavallano
tra loro e restano a tratti sospesi. Un andamento che evoca la risacca
del mare, il fluire e defluire dell’oceano di memorie, di là del
limite di una vita, dei confini di una sola esistenza... Cosí come
la semplicità apparente dello stile di Arcon, la sua essenzialità
non deve trarre in inganno. È la semplicità delle fiabe,
l’essenzialità degli antichi miti. Narrare non è, qui, esprimere
faticosamente concetti involuti, tormenti psicologici, stati d’animo piú
o meno indistinti. Al contrario, raccontare con chiarezza un fatto, o meglio
un evento di cui non importano tanto le coordinate culturali o psicologiche,
quanto l’esperienza. Vivida, intensa. Esperienza vissuta ad un livello
di coscienza ordinariamente inconosciuto, ordinariamente inconcepibile.
Eppure reale, ben piú reale delle cose che si toccano e ci toccano
e che però non lasciano in noi traccia alcuna. Reale perché
di questo la traccia resta, indelebile, per sempre. Un per sempre che significa
al di là delle soglie della vita. Al di là della soglia di
piú vite.
R. Arcon, Di Artú e della Tavola Rotonda,
Edizioni “Il Cinabro”, Catania 2001
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