Per una mancanza di tempo
e solitudine avevo svolto la mia meditazione scegliendo un orario piuttosto
infelice: postprandiale. Per giunta la temperatura della stanza indicava
il trapasso avvenuto da una timida primavera ad una estate prepotente.
L’esercizio si consumò in una lotta contro il sonno. Mia, con molti
forse, fu la vittoria: alla centesima volta in cui la coscienza tentava
di svanire ricevetti una specie di energico calcio nell’anima: mi parve
che qualcosa si spezzasse in mille frammenti, come se una parete di vetro
si fosse frantumata nella coscienza, e l’esercizio terminò accompagnato
da una lucidità straordinaria.
Stavo interiormente immobile,
quasi a gustare meravigliato il modo stravagante del passaggio dall’impotente
dormiveglia a quel brusco eccesso di coscienza, quando in quest’ultima
si accesero immagini nette e roteanti che mi rapirono in una specie di
gorgo velocissimo; avvertii tra le immagini il mio corpo che crollava,
abbandonato sulla poltrona, e prima di ogni possibile reazione mi ritrovai
nell’immensa libreria di un severo e maestoso edificio. Ero entrato nel
paradiso di ogni studioso o lettore.
Tavoli di titaniche proporzioni
sostenevano ogni sorta di volumi, tutti in sintonia di dimensione con i
tavoli. Mi sedetti su una sedia libera e mi guardai attorno; mi accorsi
allora che, pur nel piú profondo silenzio, le altre sedie, massicce
e di legno scuro, erano occupate da uomini, e che uomini! Crani nobilissimi,
barbe venerabili, rughe cesellate dall’intelletto, qua e là porpore
cardinalizie: l’adunata universale di tutti gli studiosi, i sapienti, i
pensatori del mondo. Le pareti impossibili a misurarsi ad occhio nudo in
altezza, erano coperte da maestosi ripiani completamente pieni di libri.
“È il tempio della
Sapienza” pensai, avvertendo un sentimento di profonda umiltà ed
esultanza davanti a questo insieme di impressioni cosí intense e
venerabili.
Improvvisamente una voce
bambina, limpida e scherzosa, ruppe il silenzio ed i miei sentimenti: era
in effetti una bambina di otto o nove anni al massimo che, accostatasi,
mi strattonava con fermezza la manica. Mai dimenticherò come una
vocina allegra ed infantile possedesse tanta profonda autorità:
«È ora che
tu esca da questo posto se vuoi la vera conoscenza».
Guardai con nostalgia le
nobili figure sedute ed intente, allora lei continuò:
«Lasciali qui seduti,
non troveranno mai quello che cercano davvero».
Queste parole scandite in
tono canzonatorio mi parvero un po’ crudeli, ma dovevo fare quello che
lei diceva. Uscimmo e fuori c’era il sole, alto nel cielo, e lungo un torrentello
serpeggiante alcune donne lavavano e battevano le stoffe bagnate; vicino
a loro sul prato, alcuni bambini tra lievi schiamazzi giocavano a quei
giochi che furono di tutte le nostre infanzie… Mi attraversò folgorante
il pensiero «La
vera conoscenza è lavoro di donna e gioco di bambini». Una
frase simile dovevo già averla letta da qualche parte, ma capirla!
Durante questa breve riflessione l’ambiente circostante cambiò completamente:
non piú il sole ma la luna che con i suoi intensi e delicati raggi
illuminava un mare. Mi ritrovai solo al limite della battigia: dal mare
emerse Lei, ma trasformata in una splendida fanciulla di diciassette o
diciotto anni apparenti, perché tutto di Lei era attuale eppure
antichissimo. Notai i capelli d’ebano e la leggera curva epicantica dei
suoi occhi: mille sentimenti si agitavano nella mia anima, ma la gola e
la testa completamente paralizzate non mi permettevano di concepire, di
parlare, e ciò divenne la cosa piú importante: io ora dovevo
riconoscerLa, darLe un nome manifesto, proprio ciò che non potevo.
L’angoscia e l’impotenza mi devastarono.
Fu il cuore che allora si
mosse e dal cuore salí un mantram, una parola, quasi un urlo:
«Madre» che conteneva tutto: sorella, madre, amante, speranza
estrema, sostanza della vita.
Con gesti semplici ma sacerdotali,
pervaso da devozione immensa, presi da terra una tonaca bianca e delicatamente
coprii le sue membra nude. Sorrise e mi accolse nel suo abbraccio: il suo
sorriso ed il suo abbraccio sostennero tutto il mio essere che si completava.
Diffusa in beatitudine infinita
la coscienza vacillò e mi ritrovai in una stanza: un cubo malandato
senza finestre e senza porte con al centro un tavolo semplice, di forma
quadrata, con una candela sopra che rischiarava perfettamente il luogo.
Mi sentii solo e la solitudine aumentò e portò con sé
abbandono, amarezza e sconforto. Udii una voce affettuosa e serena: accasciato
come ero alzai gli occhi e vidi una sconosciuta bionda, di pelle bianca,
insignificante. Non capivo «Guarda meglio» mi disse la sconosciuta.
Riconobbi allora i Suoi occhi. La sconosciuta sorrise e con la Sua voce
che guariva l’anima mi disse: «Non temere, sarò sempre con
te, il tuo compito è riconoscermi, ricordati, il mio è di
non abbandonarti mai».
Qui il racconto si ferma.
Posso soltanto aggiungere che in alcuni momenti della vita, dal profondo
del sonno o in rare meditazioni alcune esperienze avute paiono confermare
la sua promessa di non abbandonarmi. Permane inoltre il sentimento che
al momento della morte Essa sosterrà il mio cuore nel severo giudizio
e condurrà la mia anima sulla strada dei viventi.
Immagine: S.
Trismosin «Lavoro di donne e giochi di bambini» Splendor
solis, Londra sec. XVI
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