Dipinto riproducente
le tre caravelle di Cristoforo Colombo, Madrid, Museo Navale |
Prossimi
a disperare, muti ostaggi
del vuoto senza tempo, di un ondivago
periplo derivante. Poi nel buio,
miraggio o immaginifica presenza
sull’incerto discrimine tra il cielo
e invisibili approdi, farsi luce
tremulo un punto, diramare un raggio.
Che dice il portolano, lo scandaglio
quali abissi misura la cui schiuma
monta a lambire la polena e sfida,
vortice cupo, il filo della chiglia?
Tutto votammo a questa impresa, il cuore
armò di vele i sogni, fu costante
la nostra mano a reggere la barra,
ogni parola sillabò preghiere
scongiurando le insidie della notte,
lo spazio ignoto che ci seduceva
e i pensieri smarriva, le certezze.
Ora, sospeso nel profondo, veglia
quel desiderio e attende che dall’alto
la voce gridi «Terra!» e finalmente
ci accolgano riviere sconosciute,
un mondo nuovo, forse primigenio,
mai spento alla memoria, ritrovato.
Ché sempre torna a quell’ambíto regno,
dopo tragitti avventurosi, l’anima
e altro non vede che se stessa, duplice,
reiterata, fedele, cara immagine
riflessa in ogni oggetto che l’accoglie.
Ma già la prende smania di partire,
voglia di misurarsi col piú vasto
mare infinito, tesa a discoprire,
dopo tempeste e subdole correnti,
isole prodigiose, continenti
ancora inesplorati. Finché il legno
che la compone e il duttile cordame,
macerati dai flutti, diverranno,
ancorate all’eterno, stelle chiare.
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