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Primavera
ebbe fiori: maturarono
molti di essi in frutti, altri perirono
infecondi, gualciti. Nei frangenti
dei caldi giorni e temerari voli
furono dono al cuore, per le ardenti
solari vastità, piume di cera.
Oggi, riarsi da un tardivo fuoco,
frastagliando le cèntine dei colli,
dispersi per le balze, ramo a ramo,
scendono ai fiumi gli alberi febbrosi,
e qui esultando screziano le foglie
di vivo argento, bisbiglianti sistri.
Interregno di climi, ecco settembre.
La cicala s’illude che perduri
nelle dorate stasi dei meriggi
l’estate con gli incanti del suo miele,
e frinisce dal folto in reiterati
solfeggi. Le dimore che ci accolgono
hanno radici e culmini di pietra,
torri svettanti in cuspidi protese
a un trafelato scorrere di nubi,
candide transumanze fustigate
da minacce di tuono. Se improvvisa
balena la tempesta, la genziana
selvatica difende, nel suo nicchio
rupestre, ricordanze dei celesti
spazi da cui serena rifluí
l’alchímia portentosa dei suoi petali.
Turchino, rosso, indaco, smeraldo,
tutta una fascia di cromíe, di toni
vibratili distende, monte a monte,
l’arcobaleno, porge una clemente
tregua, e nel raggio uscito a salutare
l’inattesa schiarita, sul quadrante
d’antiche meridiane, sordo acume,
l’ago scandisce un tempo circolare
che mi riporta con la rimembranza
di semi vagabondi, di sfiorite
rose non còlte, la speranza e il segno
di nuove gemme. E nella vaga luce
che contende alle ombre la mia stanza
invasa da un’estrema solitudine,
lieve emanando gli iridati pollini
di inviolate stagioni, si rivela,
chiuse le ali, reclinato il capo
sui misteri di cui si nutre l’anima,
l’angelo che risillaba il Tuo nome.
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