La realtà è sempre
una contraddizione in divenire continuo e si evolve nella
realizzazione della tesi-antitesi-sintesi e non può essere
spiegata da una logica astratta che fissa una volta per tutte il
bene e il male, il bello e il brutto, la verità e la menzogna;
essendo la realtà una contraddizione in evoluzione anche gli
esercizi contengono delle contraddizioni da superare.
1) Il pensiero obiettivo trasforma la
distrazione in sicurezza e deve superare le contraddizioni delle
fissazioni.
2) L’azione libera trasforma la mancanza di volontà in
attività e deve superare le contraddizioni dell’attivismo.
3) L’equanimità trasforma i complessi in calma interiore e
deve superare le contraddizioni dell’insensibilità.
4) La positività trasforma gli schemi mentali in nuove amicizie
e deve risolvere le contraddizioni dell’ipocrisia.
5) La spregiudicatezza trasforma l’attaccamento al passato in
ricettività e deve superare le contraddizioni dell’illogicità.
6) L’osservazione esatta trasforma il non ricordare in memoria
e deve risolvere le contraddizioni dell’attaccamento al
passato.
7) La percezione degli archetipi trasforma l’astratta
dialettica in creatività e deve superare le contraddizioni
della fantasticheria.
8) L’equilibrio interiore trasforma la scontentezza in armonia
e deve superare le contraddizioni interiori prima di poter agire
sulla realtà esteriore.
Le
contraddizioni interiori vengono superate dagli esercizi prima
di poter agire sulla realtà esteriore.
Per superare la paura delle
interrogazioni, dei blocchi mentali, degli esami, per rendere quanto si è
studiato, bisogna esercitarsi costantemente come un atleta. Ci alleniamo
coscientemente riuscendo a pensare (almeno per cinque minuti al giorno per
vari mesi) sopra un oggetto di uso quotidiano costruito dall’uomo, per
esempio: una spilla, una matita, un bottone, controllando l’esclusione
durante quel tempo di ogni altro pensiero che non si riferisca a quell’oggetto.
Pensando intensamente per qualche tempo sopra un oggetto famigliare, siamo
sicuri di esercitare il pensiero obiettivo. Nel chiederci: di che cosa è
costituita una matita? Come viene preparato il materiale che costituisce una
matita? Come vengono connesse le diverse parti? Quando è stata inventata la
matita? E cosí di seguito, armonizziamo le nostre idee con la
realtà molto piú che riflettendo su problemi astratti insolubili. L’esercizio
sul pensiero prepara ad orientarci nelle difficoltà della vita poiché in
un primo tempo non si tratta di pensare questa o quella cosa, ma di pensare
obiettivamente per libera decisione personale. È importante per la riuscita
dell’esercizio l’illimitata attenzione, ossia l’evitare qualsiasi
distrazione riguardo al tema. Esercitando il pensare obiettivo ci rendiamo
indipendenti nel pensiero dalle situazioni esteriori, dall’ambiente
sociale, dalle tradizioni determinanti una dialettica astratta e soprattutto
dalla distrazione cosí deleteria nello studio. La ripetizione
continua dell’esercizio, cosí semplice da capire ma cosí difficile da
effettuare dà un senso di sicurezza che agisce favorevolmente sulla
formazione della personalità. Questo esercizio risolve l’affermazione
della non conoscibilità delle cose. Infatti è vero che il mondo esterno si
presenta come un enigma insoluto di cui non possiamo sapere nulla di certo
ma, come creatori del nostro pensiero, possiamo affermare di reggere il
divenire del mondo per un lembo di quel mondo di pensiero in cui senza la
nostra partecipazione nulla si percepirebbe. Abbiamo un punto fermo: il
pensiero obiettivo; su questo si farà leva per poter comprendere e poi
trasformare la realtà del mondo.
La
distrazione viene trasformata dal pensiero obiettivo in sicurezza.
Nel mondo fisico sensibile è
sempre la vita esteriore che si presenta come dominatrice rendendoci
instabili e schiavi degli avvenimenti esteriori. Per lo piú reagiamo di
fronte agli avvenimenti esteriori come ci è stato inculcato nel passato. La
schiavitú a volte tragica, a volte ridicola dei riflessi condizionati
determina azioni che vorremmo modificare, ma che sul momento non riusciamo a
dominare. Da questo stato scaturisce un sentimento di mancanza di volontà;
per liberarsi dalla mancanza di volontà scegliamo un’azione di poca o
nessuna importanza – per esempio spostare una sedia, innaffiare un fiore
– decidendo l’ora della realizzazione ed agendo poi con la sicurezza
dataci dall’esercizio precedente. Le nostre azioni derivano per lo piú
dall’educazione famigliare, dall’ambiente sociale, dalla professione
ecc.; scaturiranno dalla nostra iniziativa personale se ci
esercitiamo nell’azione libera, non imposta dall’esterno.
Eseguendo infatti l’esercizio proviamo un impulso all’attività
che nel tempo ci libera dalla tradizione. Con questo esercizio diventiamo
dominatori, non soltanto della volontà ma anche del pensiero volitivo che
pensa e poi riesce ad agire. L’instabilità della volontà proviene dal
desiderio di cose, di cui non ci formiamo un pensiero obiettivo. È una
cattiva abitudine dire: «desidero questo, desidero quello», senza
riflettere alla possibilità di effettuare il desiderio. Cosí educandoci a
desiderare ciò che è possibile ci rendiamo capaci di trasformare “l’impossibile
in possibile” mediante l’esercitata volontà.
La
mancanza di volontà viene trasformata dall’azione libera in
attività.
Le continue oscillazioni fra
gioia e dolore, fra esaltazione e depressione, col passare degli anni
rendono insensibili. Dobbiamo rallegrarci per una cosa piacevole, e una cosa
triste deve riuscirci penosa; ma per non divenire arteriosclerotici e
insensibili nell’età matura ci esercitiamo a dominare l’espressione
della gioia e del dolore. Non reprimiamo il legittimo dolore, ma il pianto
involontario; non l’orrore di un’azione malvagia, ma il cieco sfogo
della collera; non il giusto premunirsi di fronte ad un pericolo, ma l’inutile
timore. Impariamo a sospendere le reazioni istintive, se siamo capaci di un
minimo stop, sia pure di pochi secondi, quando una reazione istintiva tende
a portarci lontano da ciò che vogliamo. Possediamo l’equanimità,
quando giungiamo a sentire come propri i dolori e le gioie altrui, e come di
altri i propri dolori, le proprie gioie. Ci serviamo dell’impulso all’attività
per conseguire un minimo freno alle reazioni istintive; questi esercizi
danno un senso di calma interiore che ci permette di superare i
complessi e il ricordo di esperienze passate e negative che ancora
influenzano l’evoluzione della nostra personalità. Chi crede che la
propria spontaneità emotiva o il proprio sentimento ne abbiano a soffrire,
ignora l’efficacia dell’equilibrio del sentimento. Possiamo già credere
di essere provvisti nella vita di un determinato equilibrio e possiamo
ritenere perciò superflui questi esercizi; possiamo rimanere completamente
calmi di fronte ad alcuni eventi della vita, ma nel momento della prova
ritorna con maggior forza a manifestarsi la mancanza di equilibrio che era
soltanto repressa. Per evolverci non si tratta di ciò che ci sembra già
possedere, ma piuttosto importa esercitare regolarmente le qualità che ci
occorrono. La vita può averci insegnato molte cose, ma per evolvere
occorrono le qualità che da noi stessi ci siamo acquistate. Se la vita ci
ha reso irascibili, dobbiamo spogliarci di questa irascibilità; ma se la
vita ci ha insegnato l’indifferenza dobbiamo scuoterci, per mezzo dell’autoeducazione,
in modo che lo stato d’animo corrisponda all’impressione ricevuta. Se
non siamo capaci di ridere di niente, dominiamo altrettanto poco il nostro
riso di quanto colui il quale si abbandona continuamente al riso senza
dominarsi.
I complessi
vengono trasformati dalla equanimità in calma interiore.
In una leggenda viene raccontato che il
Cristo, mentre camminava con alcuni discepoli, trovò sulla strada
la carogna di una cane in putrefazione. Tutti distolsero lo
sguardo da quella vista, Egli invece parlò con ammirazione dei
bei denti dell’animale. L’errore, il male, il brutto non
devono mai impedire di riconoscere il vero, il buono, il bello
ovunque lo possiamo trovare. Non confondiamo la positività con la
volontà di chiudere gli occhi al male, al falso, al mediocre. Se
ammiriamo i bei denti di una carogna vediamo anche il corpo in
decomposizione, ma questo non impedisce di vedere i bei denti. Non
riteniamo che il male sia bene o che l’errore sia verità, ma il
male non impedirà di vedere il bene, né l’errore di scoprire
la verità. Per i rapporti subcoscienti creati soprattutto nella
prima infanzia siamo abituati a considerare le persone e le cose
secondo schemi mentali. Per trasformare questo stato di fatto
esercitiamo la positività nella calma interiore;
guardando solo il lato positivo della persona, della cosa, dell’avvenimento,
impostiamo immediatamente un rapporto nuovo con la persona, la
cosa, l’avvenimento, poiché modifichiamo la schematizzazione
istintiva del passato e instauriamo nuovi rapporti di
amicizia per il futuro. Se cerchiamo il positivo in qualsiasi
manifestazione e in qualsiasi essere, ben presto osserviamo che
sotto l’involucro del repugnante, persino sotto le sembianze di
un delinquente, si nasconde qualcosa di buono; sotto l’apparenza
di un pazzo si cela una personalità in evoluzione. La positività
è connessa con l’astensione dalla critica. Non dobbiamo
intendere la positività chiamare nero il bianco e bianco il nero;
c’è differenza se giudichiamo secondo simpatia o antipatia
istintiva oppure ci poniamo di fronte al fatto o all’altro
essere chiedendoci: «come avviene che giunga a pensare, a
sentire, a volere cosí? Se noi avessimo avuto la sua vita, la sua
educazione, i suoi dolori agiremmo come lui». La critica negativa
e distruttiva proviene dal nostro atteggiamento sempre identico di
fronte alla realtà sempre nuova e diversa; è perciò necessario
liberarci dai pregiudizi acquisiti dalle nostre esperienze
passate, esercitandoci a non giudicare secondo etichette già
esistenti. Con un simile atteggiamento ci proponiamo
immediatamente di aiutare ciò che è imperfetto a renderlo
perfetto, anziché limitarci a criticarlo.
Gli
schemi mentali vengono trasformati dalla positività in nuove amicizie.
- Il pensare unito alla volontà acquista una
certa maturità, purché non permettiamo alle esperienze antiche di
toglierci la ricettività per accogliere spregiudicatamente
quelle nuove. Non dobbiamo pensare: «questo non l’abbiamo mai
sentito, questo non lo credo», ma dedichiamo un po’ di tempo a
imparare qualcosa di nuovo da ogni cosa e da ogni essere. Ogni soffio
d’aria, ogni foglia d’albero, ogni balbettio infantile può
insegnare qualcosa, purché si osservi da un punto di vista nuovo.
- Certamente possiamo esagerare a tale
riguardo e non dobbiamo trascurare di tenere conto delle esperienze
attraversate. Se di fronte a un fatto qualsiasi diciamo “a priori”:
«lo conosco», attribuiamo ad esso, automaticamente un dato contenuto
di memoria senza uno spregiudicato confronto con la realtà
attuale.
- Se, data un’affermazione, diciamo
immediatamente: «ho già udito questo e non può essere vero»,
giudichiamo secondo il sangue, secondo l’attaccamento al passato e
non secondo realtà.
- Ciò che sperimentiamo attualmente deve
essere giudicato alla stregua delle esperienze passate, queste devono
pesare sopra un piatto della bilancia mentre sull’altro piatto
poniamo la tendenza a raccogliere sempre nuove esperienze date dai
nuovi rapporti di amicizia, convinti soprattutto della possibilità
che le esperienze nuove possano essere in contraddizione con le
antiche.
- Il trascurare, in talune circostanze, ciò
che abbiamo acquistato con l’esperienza, ci permette di aprirci a
nuove esperienze o ad un diverso giudizio riguardo a cose già
interpretate e codificate. Rimanere ancorati a giudizi definitivi
immobilizza la nostra evoluzione. Non v’è giudizio umano o scienza
che, rispetto alla evoluzione dell’uomo, possa essere definitivo;
tra mille anni noi saremo considerati “barbari” altrettanto quanto
noi giudichiamo “barbari” i medioevali. Cerchiamo di essere
ricettivi verso l’inaspettato, altrimenti ci chiudiamo alla verità,
ossia a ciò che è oltre il limite dell’ordinario conoscere.
Rendendoci indipendenti dai giudizi tradizionali possiamo accogliere l’ignoto.
L’attaccamento
al passato viene trasformato dalla spregiudicatezza in ricettività.
La mancanza di memoria, l’amnesia,
il non ricordare esattamente un episodio, un discorso, una pagina, portano
un continuo logoramento delle facoltà intellettive, fino ad arrivare ai blocchi
mentali: non ricordiamo ora quello che sicuramente ricorderemo poi.
Esercitiamo la memoria provando a rammentare un avvenimento, per esempio del
giorno precedente, con lo stesso metodo grossolano di cui ci serviamo per rammentare
un ricordo qualsiasi. Ordinariamente le immagini che compongono i ricordi
dell’uomo sono prive di colore e di regola. Ci contentiamo di rammentarci
del nome di una persona incontrata il giorno prima. Non dobbiamo ritenerci
soddisfatti di cosí poco, occorre giungere mediante uno sforzo sistematico
a precisare il ricordo, ci sforziamo di ricordare esattamente le
nostre percezioni, e qualora non riusciamo ci rappresentiamo qualcosa di
falso. Supponiamo di avere completamente dimenticato se la persona da noi
incontrata portasse un abito marrone o nero. Immaginiamo allora che essa
indossava un completo marrone con una cravatta gialla, con dei particolari
bottoni ecc. L’immagine è, naturalmente, falsa e ci repugna, tuttavia
mediante lo sforzo che siamo costretti a fare per completarla siamo indotti
ad osservare con maggior esattezza in avvenire e non dimenticheremo
piú nulla, e ogni particolare si imprimerà in noi e rimembreremo
ogni particolare delle nostre azioni. L’obiettività della memoria si
raggiunge quando si riesce a ricordare esattamente tutte le proprie
percezioni, a volontà, in modo da non agire in contraddizione col passato.
Il “non
ricordare” viene trasformato dalla osservazione esatta in memoria.
- Gli archetipi sono le essenze delle cose,
inconoscibili per i sensi e per l’astratta dialettica. La geometria
indica una via per percepire gli archetipi come essenze di forme in
movimento. Pensiamo ad un determinato triangolo, per esempio
equilatero, e manteniamo la sua immagine innanzi alla coscienza col
massimo della semplicità e continuità; accanto ad esso
rappresentiamoci un altro triangolo, parimenti equilatero ma piú
grande, e raffrontiamolo al primo. Constatiamo come l’uno e l’altro
siano figure di una identica immagine. Grande o piccolo, il triangolo,
avendo identica forma, non pone al pensiero problemi di spazio, ma
sollecita una relazione intuitiva oltre le differenze dimensionali.
Concentriamoci ora sull’immagine del triangolo: l’oggetto del
nostro pensiero non è un determinato triangolo isoscele, rettangolo,
o equilatero, bensí il triangolo tipo, che li contiene tutti. L’esercizio
consiste nell’immaginare i lati in movimento reciproco e gli angoli
che mutano ampiezza nel tempo. La forma del triangolo tende ad essere
immagine concettuale mobile e indipendente non solo dalla spazialità,
ma anche dalla temporalità.
- Pensiamo ora la pura idea del triangolo: l’immagine
sparisce, ma rimane la sua idea, l’idea del triangolo che, non
veduta, anima come movimento l’immagine. Spariscono forma e nome,
pur sussistendo vivo il contenuto ideale, al di fuori dello spazio e
del tempo. La percezione del momento creativo del pensiero comporta
qualcosa di piú che una constatazione filosofica. Perché quella
istantanea creatività non sia illusoria, occorre che il
pensiero non sia assunto semplicemente come filosofico “pensiero
dialettico”, ma sperimentato, secondo la presente tecnica come
corrente di calore, luce e vita indipendente da nome e forma. Con la
memoria percepiamo gli archetipi che muovono la creatività;
ricominciamo cosí il ciclo dell’esercizio della concentrazione
creando nuovi rapporti, immaginando nuove sintesi, ispirando nuove
idee, intuendo soluzioni nuove che riescano a mutare la nostra
società.
L’astratta
dialettica viene trasformata dalla percezione degli archetipi in
creatività.
Dopo aver dedicato qualche tempo
agli esercizi pratici del pensiero obiettivo, dell’azione libera, dell’imperturbabilità
di fronte al piacere e al dispiacere, della positività nel giudicare il
mondo, della spregiudicatezza nella concezione della vita, dell’osservazione
esatta, della percezione degli archetipi, occorrerà anche esercitare questi
simultaneamente per gruppi di due, di tre e cosí via, fino a conseguire un’armonia,
un equilibrio interiore. Una situazione difficile, una lite in
famiglia, una lotta fratricida possono essere risolte dal nostro equilibrio
interiore, esercitato da un pensiero obiettivo, da un dominio degli impulsi
istintivi, dalla imperturbabilità di fronte al dolore e alla gioia, dalla
positività di giudicare una situazione, dalla spregiudicatezza di un
consiglio, dalla memoria di un particolare, dalla creatività. Notiamo che
scomparirà presto un certo senso di scontentezza, ci apriamo ad una
tranquilla comprensione delle cose e perfino il nostro passo e il nostro
gestire mutano, e possiamo accorgerci che la nostra scrittura è migliorata,
dimostrando cosí che abbiamo raggiunto un primo vero progresso.
1)
La distrazione viene trasformata dal pensiero obiettivo in sicurezza.
2) La mancanza di
volontà viene trasformata dall’azione libera in attività.
3) I complessi
vengono trasformati dalla equanimità in calma interiore.
4) Gli schemi
mentali vengono trasformati dalla positività in nuove amicizie.
5) L’attaccamento
al passato viene trasformato dalla spregiudicatezza in ricettività.
6) Il non ricordare
viene trasformato dalla osservazione esatta in memoria.
7) L’astratta
dialettica viene trasformata dalla percezione degli archetipi in
creatività.
L’efficacia degli esercizi non
può essere discussa dialetticamente dopo averli soltanto letti, ma può
essere discussa e approfondita coscientemente l’attuazione pratica
individuale dopo averli almeno sperimentati per un certo tempo.
La
scontentezza viene trasformata dall’equilibrio interiore in armonia.
Massimo Scaligero
Da un dattiloscritto inedito
inviato dal Maestro a un discepolo in allegato a una lettera. |